"L'avvocato" e "Il Segretario" di Francesco Sansovino
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Recensioni su "L'avvocato" e "Il Segretario" di Francesco Sansovino
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Anteprima del libro
"L'avvocato" e "Il Segretario" di Francesco Sansovino - Piero Calamandrei
Note
Amicizie straordinarie
di Paolo Carta
Ritratto di Francesco Sansovino
Dopo il 1942 non era infrequente sentir citare, nelle conversazioni tra giuristi, personalità della cultura e professionisti del foro, i trattatelli
di Francesco Sansovino, L’ Avvocato e Il Segretario, ripubblicati in quell’anno a cura di Piero Calamandrei nella celebre collana In ventiquattresimo
dell’editore Le Monnier diretta da Piero Pancrazi: segno della fortuna eccezionale del volume che ora si ripresenta al lettore in una nuova veste.
Quell’edizione pur parziale del dialogo dell’Avvocato e del trattato sul Segretario è ormai entrata a far parte della sempre più ampia bibliografia critica dedicata all’opera del poligrafo del ’500. Riletta oggi, tuttavia, ci dice molto più del suo curatore, colto in un momento particolarissimo della sua vita e della vita dell’Italia intera, e molto meno di Sansovino. Non che questi manchi nelle pagine introduttive stese da Calamandrei, dove è possibile scorgere, ritratto con efficace leggerezza di penna, l’instancabile editore, l’umanista, il giurista e perfino il poeta degno d’essere chiamato tale per aver scritto almeno un paio di versi indimenticabili. È però difficile non leggere quelle pagine introduttive anche come un’occasione, forse insperata e inattesa dal principio, che egli colse per fare i conti con la propria esperienza pubblica e privata. Per compiacere suo padre, il celebre architetto Iacopo, Francesco si dedicò agli studi giuridici avviandosi alla professione forense: ed è fin troppo semplice per il biografo ritrovare nel Sansovino motivi che coinvolgevano direttamente Calamandrei.
Biografia a parte, la prefazione non risparmia critiche feroci rivolte ai cortigiani del tempo e a quelli di ogni regime, all’ignoranza dei pratici del foro e al giornalismo d’accatto; a tutte quelle personalità accomunate dalla predisposizione ad abdicare al proprio pensiero, alla libertà e all’autonomia, confondendo quest’ultima con la volontaria servitù verso qualcuno, poco importa chi sia. È un duro colpo rivolto contro una tendenza epigonica, che albergava anche nelle aule dei tribunali, e sulla quale il fascismo poteva evidentemente contare. Non che egli perda mai il suo ottimismo per il futuro, nonostante la guerra, nonostante tutto. Nel manifestarlo, tuttavia, non smette di ricordare che nessuna liberazione dal dominio altrui potrà mai essere realizzata da chi confonde gratitudine e debito, riconoscenza e connivenza; da chi scambia per agire autonomo lo scimmiottamento dei peggiori vizi del proprio superiore, tale solo perché percepito a quel modo. Quella prefazione, letta tra le righe e posta accanto agli altri scritti del periodo, è dunque anche una presa di posizione contro il fatalismo, che ancor più della politica del regime aveva finito per schiacciare ogni possibilità di azione politica.
Per questi motivi, Calamandrei non si mostra in alcun modo interessato al Sansovino antiquario, al compilatore di utili e fortunati centoni, che pure riusciva tanto prezioso per gli storici del tardo Rinascimento. Ad attirarlo sono piuttosto quei momenti ancora vivi della sua opera, che pure in modo abborracciato e maldestro, gli parevano esser stati scritti per lui e per il suo tempo. Un tempo in cui anche alcune banalità moralistiche o generici richiami a ideali di giustizia potevano assumere il significato di un atto eroico.
Sorvolando sui problemi della formazione degli avvocati, sul modo di intendere la professione e su quel primo tentativo di codificare il ruolo del segretario, i motivi che ci hanno convinto a rimettere in circolo questo volume, stanno anche un po’ nella sua origine. L’opera, infatti, è innanzitutto l’esito e la testimonianza della profonda amicizia tra Piero Calamandrei e Pietro Pancrazi, ed è a suo modo parte di un progetto editoriale di resistenza. Tale fu la collana «In ventiquattresimo», edita per Le Monnier e diretta dallo stesso Pancrazi. Alla sua fortuna partecipò attivamente Calamandrei, contribuendo oltre che col Sansovino, anche con l’edizione di Dei delitti e delle pene di Beccaria, pubblicata poco dopo. Per comprendere l’atteggiamento resistenziale della collana, basterà ricordare l’edizione del Contr’uno di Etienne de la Boétie, curato da Pancrazi, alla quale varrà la pena dedicare qualche cenno.
Pancrazi, giornalista, saggista e critico letterario aveva subito intravisto in Calamandrei uno spirito autenticamente guicciardiniano. Su questa prima impressione crebbe la loro amicizia che si rinvigorì dopo la pubblicazione dell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato, risalente al 1935, sempre per Le Monnier. Come notò Pancrazi, recensendo il volume sulle pagine del Corriere della Sera, Calamandrei con quello scritto non aveva solo scelto di confrontarsi con il modello dei Ricordi di Francesco Guicciardini, giurista come lui, ma ne aveva colto lo spirito originario, perpetuandone per così dire la vitalità nella letteratura contemporanea. Secondo Pancrazi, nell’Elogio, l’autore afferrava non solo i motivi da cui i Ricordi avevano tratto la loro origine, ma anche la loro natura più recondita, che pure restava celata dietro un muro di attestazioni ironiche. Quel libro, insieme alla precedente recensione tributata al libro postumo di Rodolfo Calamandrei, padre di Piero, fu l’avvio di un legame intellettuale e politico, tra i più interessanti maturati nell’Italia tra le due guerre. Il commosso ricordo del loro primo incontro fu rievocato con ‘levità di tocco’, nel necrologio che il giurista scrisse nel 1953 per l’amico scomparso, sulle pagine de «Il Ponte»: «Di solito, nel cuore di ogni amicizia è custodito un nodo di ricordi comuni, capaci di creare tra gli amici una specie di appartato ed esclusivo condominio: ricordi di scuola, ricordi di guerra. Via via che la vita si consuma, il cerchio degli iniziati, tra i quali ci si intende per allusioni, si restringe; e i superstiti, in un mondo diventato estraneo, si raccolgono ogni tanto per parlare di sé, testimoni pietosi l’uno per l’altro di un tempo, che, nel rievocarlo fra loro, non sembra ancora perduto. Ma quando ci conoscemmo con Pancrazi, verso il 1932, lui prossimo alla quarantina, io che da poco l’avevo scavalcata, nessun ricordo di gioventù ci legava: saliti per diverse vie, vissuti in diverse città, non c’era mai stata tra noi un’occasione d’incontro. Eppure, appena conosciuti, ci lasciammo vecchi amici».
Ad unirli contribuiva anche l’urgenza, avvertita come improcrastinabile, di riproporre l’umanesimo al cuore degli studi e della cultura italiana. Questo proposito accompagnava anche le pagine del volume sansoviniano, la cui edizione fu suggerita a Piero proprio dall’amico, come tentativo di dar voce attraverso un classico, da tempo trascurato, a una nutrita serie di preoccupazioni politiche circa l’amministrazione della giustizia e la pratica forense. Erano questioni sulle quali Calamandrei aveva già avuto modo di esprimersi pubblicamente, ad esempio nei suoi scritti dedicati all’insegnamento universitario inclusi nel volume L’Università di domani, curato con Giorgio Pasquali e nel saggio Troppi avvocati!, pubblicato nei ‘Quaderni della Voce’ raccolti da Prezzolini, nel 1921. Scritti penetranti, stesi con la consueta leggerezza, nei quali le parole erano state scelte per rivelare idee e propositi e non per celarli. L’eco di questi scritti si percepisce non a caso anche nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci.
Dalla corrispondenza con Pancrazi, scopriamo che Calamandrei inizialmente intendeva scrivere sul Sansovino solo qualcosa «di poco profondo e impegnativo», evitando così di considerare l’opera esclusivamente da uno stretto punto di vista morale. Se però, come insisteva Pancrazi, l’idea era quella di infilare il volume nella stessa collana del capolavoro di Beccaria, allora anche il tono dell’introduzione a Sansovino andava adeguato a tali vette.
Mediante l’opera di Sansovino, Calamandrei auspicava il recupero di una dimensione elevata della professione, che non fosse più quella del pericoloso mestierante di litigi e rapace corvo delle sciagure altrui. Pochi anni più tardi, commemorando la scomparsa del collega Giorgio Querci, ricordò che un luogo comune «considera il giurista soprattutto come un logico, ingegnoso fabbricante di ripieghi dialettici fatti per ostacolar la giustizia e per sconfiggere il sentimento. In realtà, come accade per molti pregiudizi passati in proverbio, è proprio vero il contrario». Tante professioni possono essere svolte col solo cervello e non con il cuore, ma non quella dell’avvocato. L’avvocato non può permettersi di essere un puro logico e neppure un ironico scettico: «l’avvocato deve essere, prima di tutto, un cuore: un altruista, ma che sappia comprendere gli altri uomini e farli vivere in sé, assumere su di sé i loro dolori, e sentire come sue le loro ambasce». Per di più, aggiungeva, è necessario che egli sia un ottimista. In tal modo, la letteratura, cui egli non esitava a fare ricorso anche nei suoi scritti giuridici, diveniva per il suo modello ideale di avvocato una vera palestra con cui affinare quell’empatia, indispensabile a qualsiasi professione che richieda innanzitutto l’ascolto di una storia altrui. Proprio questo aspetto rivela la cifra distintiva dell’umanesimo giuridico di Piero Calamandrei.
Sarà bene lasciare alle parole di Calamandrei l’illustrazione dei precetti contenuti nel dialogo sull’Avvocato, così come alla sua insoddisfazione il chiarimento dell’idea secondo la quale il segretario è come un angelo. Vale invece la pena di soffermarsi ancora sull’amicizia con Pancrazi e sull’impegno civile della collana nella quale il volume fece la sua comparsa. Era il 1942, un momento in cui la fiducia nel diritto e in tutte le sue certezze vacillava sotto i colpi di regimi che avevano trasformato il principio di legalità in un paradosso. Eppure questo volume introdotto da Calamandrei aiuta a capire come, tenuti fermi gli ideali, una possibilità di resistenza poteva ancora essere ricercata nell’ironia e nell’irresistibile attitudine fiorentina a ridere degli uomini, anche quando ciò pare impraticabile ai più. Pochi anni dopo, nel 1945, nella stessa collana ‘In ventiquattresimo’, Calamandrei e Pancrazi scelsero di spiegare che cosa fosse realmente stato il fascismo e come si fosse mantenuto, pubblicando il Contr’uno di Etienne de La Boétie, l’amico di Montaigne. L’idea di pubblicare questo libro risaliva a due anni prima, esattamente agli stessi mesi in cui fu stampato il Sansovino. Anzi, come avvertiva Pancrazi, il volume era allora già pronto per la stampa, ma non poté esser consegnato all’editore se non un anno più tardi. La prefazione fu lasciata tale e quale era stata pensata nell’agosto del ’43, «e per fedeltà al sentimento di allora, e perché», aggiungeva, «penso che alcune esigenze morali e di carattere vere allora lo sono ugualmente oggi; anzi alla luce di quello che poi è successo, si sono fatte più imperative per la vita italiana di domani».
Il volume era dedicato alla memoria di Leone Ginzburg, «morto per la libertà nelle carceri di Regina Coeli in Roma, il 5 febbraio 1944» e intendeva, attraverso un classico del pensiero politico del ’500, testimoniare una delle più complesse e dolorose tragedie della storia italiana. La prefazione non taceva in alcun modo le intenzioni dei due amici che davano alle stampe l’opera: «Dopo vent’anni della più balorda e avvilente soggezione ad uno, che la storia d’Italia ricordi, la triste sorte ha messo oggi noi in condizione di dover leggere il Contr’uno con l’animo di chi qualcosa ha già recuperato, ma più ancora gli spetta di recuperare della perduta libertà». Non era male che gli Italiani del ’43 e anche quelli del ’45 leggessero quelle pagine di La Boétie