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Parla come mangi: Lingua portoghese e cibo in contesto interculturale
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E-book492 pagine12 ore

Parla come mangi: Lingua portoghese e cibo in contesto interculturale

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Info su questo ebook

Cibo e lingua sono stati abbinati all’interno di una giornata di studi dedicata alla Lingua portoghese, organizzata dalle discipline di Lingua e traduzione portoghese e brasiliana e di Letterature e culture dei Paesi di lingua portoghese del DISUCOM (Dipartimento di Scienze Umanistiche, della Comunicazione e del Turismo) grazie al prezioso contributo dell’Instituto Camões. Riflettere sulla lingua, sinesteticamente intesa, e quindi sui linguaggi (linguaggi che investono la vista, il gusto, l’olfatto, il tatto, l’udito), espressi da queste molteplici realtà geografiche che si esprimono in lingua portoghese proprio relativamente all’alimentazione e a quanto essa rappresenti, vuol dire viaggiare per il mondo (storicamente, geograficamente, socialmente) gustando sapori e diversità sociali.

Il presente volume propone al lettore un viaggio trasversale diatopico, diacronico, diafasico, diastratico e diamesico attraverso le abitudini alimentari dei diversi popoli che nel tempo, a seguito della globalizzazione, iniziano a “contaminarsi” vicendevolmente. La prima parte del volume è dedicata ai “sapori lusitani” includendo tutti i contributi relativi ai territori di lingua ufficiale portoghese o, in ogni caso, raggiunti dai portoghesi. Nella seconda parte del volume è possibile godersi gli “altri gusti” che completano la gamma di sapori esperibili dal nostro palato. Non resta che augurare a tutti i lettori buon appetito!
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2016
ISBN9788878535909
Parla come mangi: Lingua portoghese e cibo in contesto interculturale

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    Anteprima del libro

    Parla come mangi - a cura di Emma De Luca

    TROVIERI

    Premessa

    Mariagrazia Russo e Alba Graziano

    Premessa

    Il 29 luglio del 2009 nella XIVª Riunione Ordinaria del Consiglio dei Ministri della CPLP (Comunità dei Paesi di Lingua Portoghese), svoltasi nella Città di Praia a Capo Verde, è stata stabilita la data del 5 maggio come giorno della Lingua Portoghese e della Cultura. È stato cioè scelto un giorno per festeggiare una lingua che rappresenta il sistema di comunicazione di 8 Paesi, situati in ben quattro continenti: Europa, Africa, America Latina e Asia. Per celebrare insieme questa giornata nell’Università di Viterbo il 5 maggio 2015 si è scelto di lavorare su un tema che è di estrema attualità vista la presenza su suolo italiano dell’Esposizione Universale di Milano, Expo 2015, che vede come argomento Nutrire il pianeta, Energia per la vita. Per solennizzare quindi il 5 maggio, festività mondiale della lingua portoghese, ci si è voluti riunire attorno a una tavola: del resto non esiste festa senza l’aspetto alimentare. Parlare di cibo, e poi assaporare anche qualcosa di alimentare tipico della cucina portoghese preparato da docenti e studenti, è stato un modo per festeggiare insieme questo duplice avvenimento: gli atti di questo incontro che qui si pubblicano rappresentano il momento finale di una riflessione che ha coinvolto più campi della cultura culinaria.

    Su tale binomio lingua-cibo sono state avanzate numerose considerazioni: l’apparato digerente e l’apparato fonatorio hanno in comune il cavo orale e tutto quanto esso include. Per definire l’espressione usata da un popolo per comunicare si è ricorsi alla parola LINGUA, una sineddoche che ha identificato questo organo, in prevalenza muscolare, come l’elemento principale per manifestare pensieri, sentimenti e azioni. Ma anche la nostra sensibilità gustativa nasce da questa parte della cavità boccale: il dolce, l’amaro, l’acido, il salato, tutto passa attraverso questo piccolo elemento semimobile del nostro corpo umano. Percezione di un gusto ed espressione di esso quindi arrivano e partono dal medesimo punto della nostra fisicità.

    Abbinare la lingua al cibo è stato un modo per riflettere, in campo più vasto, su quanto José de Alencar (1829-1877), scrittore romantico brasiliano, scriveva: «O povo que chupa o caju, a manga, o cambucá e a jabuticaba, pode falar uma língua com igual pronúncia e com o mesmo espírito do povo que sorve o figo, a pêra, o damasco e a nêspera?»("Un popolo che assapora l’anacardio, il mango, il cambucá e la jabuticaba, può parlare una lingua con la stessa pronuncia e con lo stesso spirito di un popolo che mangia il fico, la pera, l’albicocca e la nespola?").

    Ecco quindi un’altra ragione per la quale cibo e lingua sono stati abbinati all’interno di una giornata di studi dedicata alla Lingua portoghese, organizzata dalle discipline di Lingua e traduzione portoghese e brasiliana e di Letterature e culture dei Paesi di lingua portoghese del DISUCOM (Dipartimento di Scienze Umanistiche, della Comunicazione e del Turismo) grazie al prezioso contributo dell’Instituto Camões. Riflettere sulla lingua, sinesteticamente intesa, e quindi sui linguaggi (linguaggi che investono la vista, il gusto, l’olfatto, il tatto, l’udito), espressi da queste molteplici realtà geografiche che si esprimono in lingua portoghese proprio relativamente all’alimentazione e a quanto essa rappresenti, vuol dire viaggiare per il mondo (storicamente, geograficamente, socialmente) gustando sapori e diversità sociali: un’interculturalità, questa, alla quale il nostro Ateneo e in particolare il nostro Dipartimento (DISUCOM) ci ha abituati da tempo e per la quale si sono resi preziosi i contributi di altre realtà geo-culturali. Il workshop effettuato e i risultati che qui si presentano rientrano infatti in una linea di ricerca dipartimentale dal titolo CIBO ALIMENTAZIONE CULTURA SOCIETÀ E ARTI, sostenuto da numerosi docenti tra i quali, oltre a coloro che scrivono (Alba Graziano, capofila della ricerca, e Mariagrazia Russo), Francesca Petrocchi, Simona Rinaldi e Giovanna Santini che hanno presentato in questa occasione i loro contributi. Parla come mangi, il noto detto popolare che invita tutti a esprimere il proprio pensiero con la stessa modalità in cui si vive a tavola, diventa quindi il motto che unisce il cibo ai linguaggi dell’uomo (verbali e artistici) per un momento di riflessione comune dipartimentale e di esplicitazione della ricerca dei vari settori di indagine.

    Mariagrazia Russo

    Alba Graziano

    Introduzione

    Emma de Luca

    Introduzione

    Non possiamo parlare di uomo senza parlare di cibo, senza parlare di arte culinaria, di preparazioni degli alimenti e soprattutto di convivialità e del mero atto del mangiare. Allo stesso modo sarebbe impossibile scindere l’essere umano dalla sua capacità comunicativa attraverso la parola che si articola nella complessità e al contempo nella naturalità del linguaggio verbale che contraddistingue le diverse identità culturali. Siamo quel che mangiamo, ma siamo anche quel che parliamo. Non a caso sin da epoche ben più remote i popoli venivano distinti in base alla lingua che parlavano e a seconda delle abitudini alimentari. Οἱ βάρβαροι, i balbuzienti, erano, per gli antichi greci, coloro che non parlavano la lingua greca: erano l’altro, il diverso, lo sconosciuto e quindi talvolta anche la minaccia (valore semantico oggi preminente nel lemma italiano barbaro). Analogamente, le abitudini alimentari, sin dal periodo delle epopee omeriche, erano motivo di distinzione tra i popoli, molto più che il colore della pelle, i tratti somatici o lo stile nel vestirsi. Tant’è che tutt’oggi è molto facile incontrare informazioni su abitudini alimentari con la deliberata volontà di alludere a una specifica identità culturale, senza che essa venga mai citata. Noi italiani, ad esempio, siamo noti in tutto il mondo come grandi mangiatori di pasta, pizza e gelato; in Giappone pare che l’unica cosa edibile sia il sushi e che i tedeschi trovino nei loro supermercati solo birra, würstel e crauti, e si potrebbe andare avanti all’infinito con l’elenco. Questa famosa mappa costruita con i prodotti tipici delle varie regioni geografiche altro non è che la conferma di quanto si cerca di affermare:

    Il presente volume propone al lettore un viaggio trasversale diatopico, diacronico, diafasico, diastratico e diamesico attraverso le abitudini alimentari dei diversi popoli che nel tempo, a seguito della globalizzazione, iniziano a contaminarsi vicendevolmente.

    La prima parte del volume è dedicata ai sapori lusitani includendo tutti i contributi relativi ai territori di lingua ufficiale portoghese o, in ogni caso, raggiunti dai portoghesi (come il caso del Giappone). Sapori che ci coinvolgono come in un turbine di ebbrezza e di euforia raffinata, come nel caso di Barbara Aniello, che propone un tuffo nell’arte plastica d’avanguardia portoghese attraverso l’analisi puntuale delle opere di Joana Vasconcelos, artista che permea la sua ποίησις di dadaismo dal gusto francese, ma che riesce ad andare oltre affermandosi in tutta la sua specificità e soggettività. Questa prima parte del volume continua attraverso le implicazioni del cibo a livello storico e storiografico nei due saggi di Isabel M. R. Mendes Drumond Braga, che approfondisce con minuzia gli avvenimenti legati a un banchetto offerto dalla regina D. Maria I alle suore del Sacro Cuore di Gesù, e di Fabio Mechella, che ci accompagna in un itinerario che tocca il tema del cibo al tempo di Damião de Góis, storico e umanista portoghese che dedicò la sua vita ai rapporti commerciali e alla carriera diplomatica. Il taglio storico, ma più marcatamente antropologico dei saggi di Maria Antónia Lopes e di quello di chi scrive, apportano al volume una lettura del cibo nei rituali. Il primo incentra l’attenzione sugli alimenti legati ai rituali delle famiglie portoghesi e sulle feste connesse alla tradizione cattolico-cristiana; il secondo presenta un tema analogo, ma alla luce dei rituali della religione sincretica afro-brasiliana del Candomblé e, chiaramente, del ruolo che il cibo ricopre nelle differenti cerimonie. Più linguistici risultano essere i contributi di Mariagrazia Russo, Maria Antonietta Rossi e Carlo Pelliccia. Mariagrazia Russo affronta la questione attraverso un’analisi dei proverbi portoghesi relativi al cibo alla luce della linguistica cognitiva; Maria Antonietta Rossi, già esperta di arabismi nella lingua portoghese, si dedica a quei lemmi legati all’alimentazione entrati a far parte dell’uso linguistico in Portogallo grazie al contatto del portoghese con la lingua della ض). Infine, il lavoro di Carlo Pelliccia compie un viaggio che parte dal Portogallo e arriva sino in Giappone, percorrendo i passi dell’analisi linguistica dei lemmi lusitani entrati a far parte della lingua nipponica relativi ancora una volta al cibo e all’alimentazione.

    Nella seconda parte del volume è possibile godersi gli altri gusti che completano la gamma di sapori esperibili dal nostro palato. Anche questa seconda parte può essere suddivisa secondo tematiche. Di taglio linguistico è il contributo di Alba Graziano che approfondisce la struttura e la genesi del genere del menù, ancora troppo poco indagato e considerato, passando per la linguistica funzionale, la semiotica e le differenti tecniche di traduzione. L’aspetto linguistico si arricchisce di elementi storici nel saggio di Anna Romagnuolo che percorre diacronicamente l’importanza della relazione tra cibo e uomini di potere, passando attraverso le vite e il linguaggio dei presidenti americani, presentando la cultura alimentare attraverso la lente d’ingrandimento della politica. L’ambito artistico è rappresentato da due contributi che, pur considerando epoche diverse, osservano il rapporto cibo-lingua: il primo è quello di Simona Rinaldi che ci ospita nei convivi e nei simposi tra Cinquecento e Seicento, facendoci quasi sentire i profumi e i sapori dell’epoca; il secondo invece è di Sonia Maria Melchiorre che ci proietta nel mondo pubblicitario dove il binomio donna-cibo è affontato con un pizzico di sarcasmo e satira di genere. Tuttavia, il filone letterario è quello che appare come il più frequentato in questa seconda parte della raccolta. Cristina Benicchi dà al lettore la possibilità di immergersi pienamente nella letteratura inglese contemporanea presentando uno studio sulla lingua e sul cibo vissuti attraverso la diaspora nel riferimento allo scrittore anglocinese Timothy Mo. Prende il via quindi anche lo spin-off che lega alimentazione e identità di cui l’autrice Serena Marrocco si fa portavoce, trasportandoci nella culinaria delle spezie dai sapori decisi affrontando i temi di due intriganti racconti della scrittrice italo-somala Igiaba Scego, divisa tra due culture, due mondi e due cucine che di fatto hanno poco in comune. Sempre su cibo legato al rapporto tra identità-alterità verte il saggio di Francesca Petrocchi che spinge la nostra sete (o fame) di conoscenza sin nelle Antille, seguendo una sorta di viaggio di fusione al termine del quale, da diverse identità culturali e culinarie, si arriva a un’etnogenesi, un’etnofagia che dà vita a una terza identità che riguarda anche la gastronomia. Il volume (i cui contributi delle due sezioni sono stati inseriti in ordine strettamente alfabetico) si chiude con la ricerca condotta da Giovanna Santini che inebria i nostri sensi con il sapore della poesia lirica medievale scritta in lingua d’oïl, rifacendosi a Colin Muset e ad altri trovieri che trattano chiaramente l’argomento cibo nelle loro liriche.

    Questi testi ci guideranno e ci insegneranno a districarci tra i sapori più vari e variegati, policromi e variopinti, dai diversi gusti e profumi attraverso analisi antropologiche, letterarie, linguistiche e storiche.

    Così come il cibo è alimento per il corpo, allo stesso modo la parola, il discorso o un testo scritto sono il nutrimento dell’animo e dello spirito. A tutti gli animi giunti sin qui nella lettura auguro un gradevole e dolce viaggio gastronomico, ma soprattutto: buon appetito!

    EDL

    IL GUSTO COME PARADOSSO SINESTETICO NELL’ARTE DI JOANA VASCONCELOS

    Barbara Aniello

    Il gusto come paradosso sinestetico

    nell’arte di Joana Vasconcelos

    Barbara Aniello

    Prelevareun oggetto dalla realtà, Decontestualizzarlo, Reintitolarlo: il triplice precetto dada è pienamente rispettato da Joana Vasconcelos, artista portoghese d’avanguardia, che dal 1997 espone ininterrottamente in tutto il mondo. Già consacrata dalla Biennale di Venezia del 2005, Joana non solo accoglie l’eredità di Duchamp, ma la arricchisce di una quarta fase, ingigantendo parossisticamente i suoi oggetti e passando, così, dalla micro alla macrosfera. Sulla scia dei suoi colleghi parigini dell’inizio del Novecento, l’artista eleva un oggetto banale alla categoria di arte − come dettano André Bréton e Paul Éluard nel 1938 nel loro Dictionnaire Abrégé du Surréalisme − e, in aggiunta, lo traspone in una dimensione inusitata, cavalcando l’onda del mostruoso, dello smisurato, dell’esorbitante. Lei, artista-valchiria lusitana, diviene artefice di opere spropositate, che invadono lo spazio, senza tuttavia essere ingombranti.

    È proprio la dimensione fuori-scala dei suoi oggetti d’arte a conferire agli stessi il rango dell’Idea. Assumendo proporzioni fuori-misura, l’opera oltrepassa la materia ed entra nella sfera del concetto, della rappresentazione mentale, del pensiero.

    Tutta la concezione estetica della Vasconcelos può tradursi in un gigantesco ossimoro. È così che percepiamo la figura della donna emancipata e tuttavia schiava, i soffocanti condizionamenti della società libera, l’incomunicabilità del secolo delle comunicazioni. Guardare le sue opere vuol dire contemplare degli autentici ossimori visivi. Impossibile restare distaccati: l’osservatore è completamente soggiogato dalla potenza espressiva del loro messaggio e dall’estrema cura artigianale con cui questo è pazientemente realizzato.

    Uno dei campi semiologici prediletti da Joana è rappresentato dal cibo come elemento in apparenza appagante e gioioso, ma in sostanza artificiale, plastificato, creatore di dipendenze pericolose e di enormi maglie che intrappolano l’essere umano.

    In Néctar, 2006 la Vasconcelos costruisce una struttura simile al Porte-bouteilles di Duchamp, la ingrandisce venti volte e la completa, aggiungendo lampade e caraffe. Là dove l’intenzione dell’artista francese era quella di lasciare la struttura circolare e spinosa dello scolabottiglie nuda come puro oggetto visivo da contemplare, la portoghese ne fa un moderno castiçal (candeliere), lampada notturna per illuminare la città. Nella sua apparenza fulgida di nuova Tour Eiffel vitrea e luminescente, l’opera contiene una denuncia nascosta, quella del flagello dell’alcolismo, fenomeno locale, portoghese, che tocca trasversalmente tutte le classi sociali. Il titolo rimanda all’antica bevanda degli invincibili dèi greci, il nettare, qui divenuta bibita tristemente contemporanea, costume diffuso nel vulnerabile popolo lusitano, imprescindibile espediente per effimere evasioni a poco prezzo.

    Néctar, 2006 Garrafas de vinho, ferro metalizado e termolacado, LEDs de alto brilho, fonte de alimentação, cimento (2x) 720 x Ø 350 cm Museu Coleção Berardo, Lisboa DMF, Lisboa/© Unidade Infinita Projectos

    Marcel Duchamp, Scolabottiglie, 1914-1964 Ferro galvanizzato 59 x 37 cm,

    Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna

    Sr. Vinho, 2010 e Pavillon de thé, 2012 riprendono l’idea di di Néctar, per via del tema della dipendenza, sia essa vizio o rituale tipico della società borghese.

    In Menu do Dia, 2001 il cibo è l’assente pretesto per la denuncia della violenza contro gli animali e gli allevamenti intensivi. La brutalità insita in queste pellicce appese ai frigoriferi è solo un vestigio lontano che rimanda agli involucri di animali che sono stati un tempo divorati, consumati, ma di cui però non vi è più traccia. Il frigo, infatti, è vuoto e inabitato come la pelle appesa al suo sportello e vuoto è il senso che lascia questa installazione al visitatore che, smarrito, si aggira intorno ad essa, alla ricerca di qualcosa di animato. Tutto invece è inerme, morto. Anche lui, fruitore e divoratore, consumista e consumato da una società che tutto divora e che lo divora, è morto che si aggira tra i morti, come lo sono le carcasse pelose e vuote degli esseri la cui carne è scomparsa dal frigo. La società ne ha rimpinzato il corpo, ingurgitandone al contempo l’anima. Unica traccia di un’assenza tangibile sono i deodoranti, posti negli scaffali con l’inutile e vano scopo di coprire con il profumo il tanfo di un maleodorante corpo assente. Ma anche di questo non vi è più la scia, resta solo lo slancio dell’illusione di una vita lontana, perduta, andata.

    Menu do Dia, 2001 Casacos de pele, portas de frigorífico, ambientadores,

    ferro 134 x 156,5 x 446 cm PCR, Lisboa, DMF, Lisboa/©Unidade Infinita Projectos

    Plastic Party, 1997 reitera la stessa idea di isolamento, incomunicabilità e settorialità. Nei tupperwares tutto è circoscritto, diviso, catalogato per forma e colore, il concavo e il convesso combaciano perfettamente, ma la soddisfazione è apparente: al centro della tavola esagonale, invece di un pieno, c’è un grosso vuoto che genera sconcerto. Commensali invisibili hanno tutto preparato, delimitato, ordinato, ma non riusciranno a sfamarsi, ce lo dice quella grande voragine centrale, grande come il loro vuoto esistenziale. L’anima non è nutrita dalla società, se non in apparenza, superficialmente.

    Plastic Party, 1997 Recipientes em plástico para alimentos, ferro metalizado e termolacado, MDF pintado e envernizado, borracha 110 x 250 x 217,5 cm Fundação Joana Vasconcelos, Lisboa Obra produzida com o patrocínio de Plastidom - Plásticos Industriais e Domésticos, DMF, Lisboa/©Unidade Infinita Projectos

    Guardando da vicino Coração independente nelle sue varianti Preto, 2006 Dourado, 2004 e Vermelho, 2005, dapprima godiamo della riproduzione a grande scala di quell’opera in miniatura, capolavoro di oreficeria che è il tradizionale gioiello portoghese tipico di Viana do Castelo. In un secondo tempo, ci accorgiamo che alla filigrana si sostituiscono forchette, coltelli e cucchiai plastiformi, e i cuori appesi vengono fatti girare al suon del poema dall’omonimo titolo, scritto e interpretato dalla più grande fadista di sempre: Coração independente di Amália Rodrigues. Nel poema posto in musica da Alfredo Marceneiro, la cantante declama il suo attaccamento alla vita da una prospettiva fortemente sofferente, ma autonoma rispetto ai dettami politici, ai condizionamenti familiari, alle costrizioni sociali. Attorno a questo concetto di "estranha forma de vida" (strana forma di vita) di un cuore che vive di una vita perduta, Joana Vasconcelos costruisce un’opera cinetica e sinestetica che assembla musica, movimento, colore, scultura e architettura, ma il messaggio è una paradossale denuncia: i nostri giganteschi cuori sono diventati di plastica. Siamo quel che mangiamo, diceva nell’Ottocento il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, ma oggi l’organico è divenuto asettico, la vita artificio. Apparentemente meraviglioso, scintillante come l’oro, elaborato come un gioiello, il materiale è divenuto in realtà freddo, effimero, insensibile come una posata usa-e-getta. Di nuovo la tematica del cibo, unita a quella del consumo insensato, invade anche il campo dei sentimenti più autentici, più puri.

    Coração Independente Dourado, 2004, Coração Independente Vermelho, 2005, Coração Independente Preto, 2006 Talheres em plástico translúcido, ferro pintado, corrente metálica, motor, fonte de alimentação, instalação sonora Canções interpretadas por Amália Rodrigues: Estranha Forma de Vida (Alfredo Rodrigo Duarte/Amália Rodrigues), Maldição (Joaquim Campos da Silva/Armando Vieira Pinto), Gaivota (Alain Oulman/Alexandre O’Neill). Autorização de IPLAY - Som e Imagem/(P) Valentim de Carvalho. 385 x 225 x 50 cm Coleção Georges Marci, Gstaad, DMF, Lisboa/©Unidade Infinita Projectos.

    Coração, per via della trasparenza, si ricollega a Néctar, ma qui la filigrana plastiforme sostituisce il ferro battuto, mantenendo le stesse caratteristiche di quel materiale esile, flessibile, trasparente, con un tocco di moderno artificio e scialbo utilitarismo.

    Cinderela, 2007 sviluppa coerentemente la stessa idea: una serie di pentole e coperchi scintillanti formano a sorpresa un sandalo fuori-scala, gigantesco, abbinando il concetto di esile a quello di abnorme, l’idea del ballo a quella di schiavitù domestica della cenerentola-donna, la nozione di libertà a quella di condizione servile quotidiana. Gli stereotipi discordanti della donna bella ma serva, efficiente cameriera e principessa del ballo, femme fatale e sguattera confinata in casa si fondono in quest’opera. Come nel Cuore indipendente, l’enfasi è posta sull’oggetto che, preso singolarmente, è un banale strumento di uso quotidiano e che, ingigantito, per mezzo della ripetizione e accumulazione, diviene scintillante accessorio in cui specchiarsi. E le donne vi si rispecchiano nella loro dicotomica vita quotidiana, prigioniere di una società che le vuole perfette esteticamente ed efficienti praticamente.

    Cinderela, 2007 Panelas e tampas em aço inoxidável, cimento 250 x 150 x 430 cm Tróia Design Hotel, Tróia Obra produzida com o patrocínio de Silampos, ©Unidade Infinita Projectos.

    Petit Gâteau, 2011 Formas de praia em plástico, aço inoxidável 255 x Ø 239 cm Coleção da artista Obra produzida com o apoio de The Monaco Project for the Arts, DMF, Lisboa/©Unidade Infinita Projectos.

    Tutti Frutti, 2011 Formas de praia em plástico, aço inoxidável 400 x 220 x 220 cm Coleção da artista, DMF, Lisboa/©Unidade Infinita Projectos

    Tutti i frutti e Petit Gateau nascono dalla riflessione sui dolci italiani e francesi, il cono di gelato e il muffin. Concepiti come involucri di frutta o biscotti, versione moderna dei tupperwares, le opere amplificano il messaggio della vanità della nutrizione moderna, vuota di contenuti e piena di fatiscenti surrogati che soppiantano il vero nutrimento per l’anima. Petit Gateau aggiunge, nel titolo, il concetto di amplificazione della scala di grandezza che contrasta con le forme originali del modello. Questo smisurato piccolo dolce non riesce nella sua abnormità a riempire la fame di contenuti del mondo moderno. Resta un puro involucro senza sostanza.

    Opere olfattive, tattili, sonore contribuiscono alla ricostruzione di un mondo che per Joana Vasconcelos si popola di tutti i sensi. In Wash and go, 2012 la vista e il tatto si uniscono, richiamando l’idea di essere ripuliti e colorati allo stesso tempo dai mille tentacoli di questa lavatrice animata che ci fa entrare in un mondo allo stesso tempo surreale, dada e concettuale: il mondo di Joana. I suoi vetri colorati, gli strumenti musicali della tradizione portoghese sono rivisitati in chiave antica e moderna, come ad esempio in Coluna de Cor, 1994, Cravo e Canela, 2014, Destinos Cruzados, 2012.

    Wash and Go, 1998 Colãs, ferro pintado, rede tremida, motor, temporizador 150 x 210 x 80 cm Coleção António Cachola, Elvas Obra produzida com o patrocínio de Coll Internacional - Distribuição de Produtos

    Têxteis e DMF, Lisboa/©Unidade Infinita Projectos

    E allora il gusto diviene solo un pretesto, un paradosso sinestetico nella sua arte. Di questi oggetti da toccare, odorare, ascoltare, guardare non abbiamo un’esperienza diretta, vera, autentica, perché sono, nella sostanza, falsi imitatori di una realtà che simulano, ma non riproducono. Il dolce, così come il gelato, non è commestibile, il vino e lo champagne disperdono nell’etere il loro nettare inebriante ma innocuo sotto forma di luce o aria, la viola portoghese è muta, perché il chrochet tappa la sua cassa armonica.

    Destinos Cruzados, 2012 Guitarra portuguesa, croché em lã feito à mão, adereços, poliéster 74 x 85 x 45 cm Coleção particular,

    Porto, Luís Vasconcelos/Cortesia Unidade Infinita Projectos

    D’altra parte, essere originali significa tornare alle origini. E questo Joana non solo lo sa, ma lo vive. Il cibo, la donna, l’amore, sono solo pretesti per rinnovare il linguaggio artistico, per far pensare lo spettatore, per costringerlo ad un dialogo che troppo spesso nell’arte contemporanea resta astruso, nascosto, incomprensibile e che, con la sua visione a grande scala, con il ritorno alla Portugalidade e alle sue tradizioni, con la trasformazione del Kitsch in opera concettuale, torna invece ad affabulare ad interessare, coinvolgere e abbracciare l’osservatore.

    DAL PALAZZO AL CONVENTO: UN BANCHETTO OFFERTO DALLA REGINA D. MARIA I ALLE SUORE DEL SACRO CUORE DI GESÙ (1789)

    Isabel M. R. Mendez Drumond Braga

    Dal Palazzo al Convento: un banchetto offerto dalla Regina D. Maria I alle Suore del Sacro Cuore di Gesù (1789)[1]

    Isabel M. R. Mendes Drumond Braga

    1. L’alimentazione soddisfa una necessità basilare e naturale, ossia l’adempimento di un bisogno fisiologico: ma è molto più di questo. Essa implica una serie di fattori, come la produzione e la distribuzione dei generi, il periodo stagionale di alcuni beni, la situazione geografica, le arti di conservazione degli alimenti, la fase di sviluppo delle tecniche culinarie, la tipologia del pasto e, ovviamente, il potere di acquisto dei differenti gruppi di consumatori, variabili, queste, da tenere in conto non solo per il presente, ma soprattutto per il passato. Inoltre, essa comporta anche decisioni di diverso tipo, in particolar modo direttive per la preparazione e per il servizio in tavola degli alimenti, per l’organizzazione degli inviti, per l’accoglienza e il diletto degli invitati. Alcuni di tali aspetti implicano l’arte di socializzare a tavola in vari contesti.

    Conosciamo meglio il tipo di alimentazione di gruppi più privilegiati rispetto a quella delle fasce più umili della popolazione, grazie alla maggiore disponibilità di fonti. Inoltre, per quanto concerne le occasioni speciali – come nel caso di banchetti per ossequiare diplomatici e visitatori di rinomata importanza o di eventi celebrativi – la documentazione esistente ci permette, a volte, di scoprire i cerimoniali e i menù di determinati pasti, serviti sia nei palazzi, sia in ambienti conventuali e monastici, dove tali occasioni rompevano la monotonia della quotidianità in modo particolarmente evidente.

    Per limitarci all’Epoca Moderna, pensiamo, per esempio, al banchetto servito a Bruxelles da D. Pedro de Mascarenhas, ambasciatore del Portogallo per conto di Carlo V, al quale erano presenti lo stesso imperatore e la sorella D. Leonor. In quell’occasione si celebrava la nascita del principe D. Manuel (1531-1537), figlio di D. João III. Il pasto è stato immortalato da André de Resende nel suo poema Genethliacon, in cui egli descrive gli spettacoli, le prelibatezze e i vini serviti[2]. Ricordiamo anche i banchetti offerti da D. Sebastião e D. Catarina nel 1565, in occasione del matrimonio di D. Maria, nipote di D. Manuel I e figlia dell’infante D. Duarte, con Alessandro Farnese[3]. La descrizione di questi pasti celebrativi fu redatta da Francesco de Machi, che aveva anche illustrato il banchetto nuziale servito il 18 novembre del 1565 a Bruxelles, per il cui allestimento fu necessario il lavoro di 110 cuochi che lavorarono per ben 15 giorni. In quell’occasione furono serviti, secondo le rigorose informazioni date, vini di diversa provenienza, precisamente dal Portogallo e dall’isola di Madera[4]. Inoltre va anche menzionato, spostandoci verso i territori al di fuori del Regno, il banchetto offerto da D. Sebastião a Filipe II nel 1576, quando entrambi si incontrarono nel Monastero di Guadalupe. Per tale circostanza, ossia un incontro politico allestito in uno scenario religioso, i protagonisti gastronomici furono il pesce e i frutti di mare, dal momento che era il periodo della Quaresima. Il monarca portoghese rese omaggio allo zio con un pasto a base di vongole, aragoste e ostriche, rustici alla triglia, al grongo e alla cernia e ancora passere pianuzze, pagelli e sogliole fritti; il tutto in grande quantità, con le aragoste e le ostriche arrivate ancora vive a Guadalupe. I commensali ebbero anche l’opportunità di degustare molti dolci (di cui alcuni a base di frutta), capperi, olive, pasta di uva passa e mandorle, cicoria e vari tipi di insalata[5].

    L’allestimento di banchetti in ambienti conventuali e monastici da parte di sovrani fu una vera e propria consuetudine durante l’Epoca Moderna e, non di rado, questi luoghi erano adibiti al confezionamento di leccornie, tanto salate come dolci, da offrire ai membri della famiglia reale o da vendere a coloro che commissionavano il servizio a tavola durante i pranzi di Corte[6]. Per esempio, nel corso di un banchetto offerto dal convento di Cristo a D. João III nell’allora cittadina di Tomar, nell’anno 1551, furono servite diverse specie pescicole, come tonni, passere pianuzze, pagelli, cernie, corvine di scoglio, sogliole, naselli, alose e ostriche. La piccola cacciagione era rappresentata da capponi, polli, galline, anatre, pernici, piccioni e tortore. Furono anche serviti piatti a base di coniglio, manzo e capretto. Da menzionare anche la presenza di pane, formaggio, burro, uova, zucchero, riso, capperi, dolci a base di scorza di limone[7], ravanelli, dolci preparati con zucchero e miele[8], dolci di pasta bianca con zucchero e olio di mandorle dolci[9], mandorle e cotognata. Tra le bevande rientrano soltanto acqua e vino[10].

    Ancor più singolare fu l’evento svoltosi nel 1789. In quella data, precisamente il giorno 15 novembre, la regina D. Maria I offrì un pasto celebrativo per commemorare la consacrazione della chiesa conosciuta oggi come la basilica di Estrela. I festeggiamenti durarono cinque giorni, ossia dal 15 al 19[11]. In questo contesto è importante rilevare che il convento del Sacro Cuore di Gesù fosse una casa fondata dopo un voto da parte della sovrana, compiuto allo scopo di ottenere un erede maschio: ciò accadde con la nascita del principe D. José (1761-1788)[12]. La costruzione iniziò nel 1779, in uno spazio appartenente alla Casa dell’Infantato, di proprietà di suo marito D. Pedro III. Completata nel 1781, l’area conventuale accolse l’ordine religioso delle carmelitane scalze. La consacrazione effettiva della chiesa avvenne, come abbiamo già riferito, nel 1789. Questa casa religiosa fu la prima al mondo a essere consacrata al Sacro Cuore di Gesù, la cui iscrizione nel calendario ecclesiastico portoghese, il 6 di giugno, si realizzò grazie alla grande dedizione di D. Maria I[13].

    Lo stretto legame fra la regina e il convento non poteva non essere citato nei sermoni funebri, pronunciati sia alla morte della stessa (1816), sia nel momento della traslazione del feretro al convento del Sacro Cuore de Gesù (1822), luogo che la sovrana aveva scelto per la propria sepoltura. Riguardo lo stesso convento, il Monsignor Mourão scrisse:

    Esse templo sumptuoso pela polícia e delicadeza do lavor, que levantou desde os primeiros fundamentos em honra do Santíssimo Coração de Jesus, em cuja devoção se abrasava continuamente o seu peito em amorosos incêndios, esse mosteiro exemplar, que com ânimo e largueza realenga abastou com grossura de rendas e onde castas e inocentes esposas do cordeiro lhe tributam de noite e de dia puríssimos cultos, achando-se dentro dele o melhor aparelho para a virtude[14];

    anche Francisco Araújo e Amorim spese alcune parole:

    Não concorreu para se fazer de um local profano uma casa do Senhor, digna de se comparar ao grande templo de Salomão, pela sua riqueza, arquitetura e construção dando que fazer a tantos artistas e a muitos conhecidos pela sua perícia nas leis da sua estática, estabelecendo uma comunidade a mais religiosa e a mais austera queimando diariamente incensos que vão perfumar o trono do altíssimo?[15]

    Occorre naturalmente chiedersi quali siano state le ragioni che hanno portato all’inversione della situazione comune, ossia per quale motivo fu la sovrana a offrire il pasto alla comunità e non il contrario? Cosa comprendeva il pasto e chi erano i commensali? Quanto si spese per la rispettiva preparazione? Considerando che l’ambiente conventuale è sempre stato visto – in molti casi in modo esagerato e perfino erroneo – come scenario adibito alla preparazione delle più squisite leccornie, come si spiega che una casa femminile non abbia usato e applicato le proprie qualità – ammesso che le possedesse – per preparare il pasto celebrativo per la consacrazione della chiesa?

    2. I conti della Casa Reale permettono, sebbene in modo parziale, di rispondere ad alcuni di questi interrogativi. In effetti, il desembargador[16] João Rodrigues Vilar fu il responsabile per l’amministrazione del Pátio dos Bichos, provvedendo a organizzare la contabilità del suddetto spazio reale e quantificando le spese relative alla dispensa. Pertanto, a partire dal mese di luglio del 1776 fino a dicembre del 1799, si registrarono diverse uscite sia per pasti destinati alle giornate da trascorrere nell’Alentejo, sia per pasti celebrativi come quelli di cui ci stiamo occupando.

    Sappiamo che la somma spesa per la suddetta cena, o in parte, allestita per commemorare la consacrazione della chiesa, corrispondeva all’importo di 277.445 réis[17]. In verità la lista delle spese indica soltanto gli ingredienti necessari per i dolci preparati dai conservieri Jié António Torres, Jié Henriques e Manuel António, i vini consegnati da Luís António de Carvalho e il cioccolato fornito da Jacinto de Almeida Cabral. Si aggiungono anche altre uscite per carta da imballaggio, spazzole, stoppa, carbone, bottiglie, damigiane, legna, carta, tappi, sapone, candele di grasso animale, così come per noleggi e per la foggia dei capi di abbigliamento. La parcella più significativa fu assegnata ai pasticcieri per un totale di 135.855 réis (che corrisponde al 49 per cento della somma globale delle uscite); segue poi quella destinata ai vini – 77.070 réis, vale a dire il 28 per cento del totale delle spese[18].

    Non siamo però a conoscenza né del numero dei commensali, né della tipologia di dolci che i pasticcieri prepararono per l’occasione, ad eccezione di dolci ricoperti di glassa, di frutta guarnita – ossia candita – e del biancomangiare di tipo reale, preparato con carne di tacchino. Sono pervenute soltanto indicazioni riguardo agli ingredienti: zucchero, mandorle, riso, olio, cocco, farina, frutta fresca non specificata, latte, burro, panna, uova, pane, tacchino, pistacchio, oltre a cannella, anice, confettura, confetti e ostia. Da notare la presenza di molte uova (per un totale de 348 dozzine, ossia 4176 unità, il cui prezzo a dozzina oscillava tra i 110 e i 120 réis), di 22 rubbi e di 12 libbre di zucchero (vale a dire 328,644 chili), di 18 libbre di mandorle (ossia 8,262 chili), così come quantità non specificate di diversi ingredienti già citati. È anche indicato che i tacchini costavano 1.000 réis ciascuno e i cocchi tra i 100 e i 120 réis, sempre per ogni singola unità. Occorre inoltre segnalare che il cocco e il pistacchio erano frutti poco utilizzati nella culinaria portoghese del secolo XVIII, il primo proveniente probabilmente dal Brasile e il secondo dalla Penisola Italica[19].

    I vini serviti erano appropriati all’accompagnamento dei dolci: 17,2 orci di Porto, per un valore di 43.750 réis, 18 bottiglie di moscatello, quantità importata per un totale 5.400 réis, e tante altre di vino di Carcavelos, aventi lo stesso prezzo. Sappiamo inoltre

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