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Navigatori del tempo e dello spazio
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E-book257 pagine3 ore

Navigatori del tempo e dello spazio

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Info su questo ebook

Un uomo venuto dal futuro, un computer che rivela sorprendenti capacità, uno scrittore fallito, una guerra su scala galattica contro un fantomatico nemico e, in ultimo, un progetto top secret dai risvolti inquietanti, sono i temi dei cinque racconti il cui filo conduttore è il viaggio, inteso come veicolo di scoperta e conoscenza.

Il fascino del viaggio nel tempo, da H. G. Wells in poi, è intramontabile. Che esso avvenga tramite un marchingegno, la DeLorean di Ritorno al futuro, una pietra o un talismano di origine misteriosa, oppure ancora attraverso un buco nero, non ha importanza. La possibilità di avventurarsi oltre le barriere temporali che ci ancorano nel presente è troppo allettante perché si possa resistere. 
Altrettanto affascinante e denso di suggestione è sempre il viaggio spaziale. Esplorare la Galassia, entrare in contatto con altre creature, confrontarsi con loro e anche combatterle, scoprire nuovi mondi, è l’elemento portante della “space opera”, come insegnano Star Trek e Star Wars. 
I personaggi dei racconti sono individui normali costretti ad affrontare eventi straordinari su cui non hanno alcun controllo. Non sono eroi, ma hanno la stoffa per diventarlo.

INDICE
1. Cronomoto
2. Macchina pensante, macchina... amante
3. La sfera
4. Il volto del nemico
5. Black Shadow

L’AUTRICE
Nata ad Asti, dove risiede tuttora, Angela Pesce Fassio è un’autrice versatile, come dimostra la sua ormai lunga carriera e la varietà della sua produzione letteraria. Coltiva altre passioni, oltre alla scrittura, fra cui ascoltare musica, dipingere, leggere e, quando le sue molteplici attività lo consentono, ama andare a cavallo e praticare yoga. Discipline che le consentono di coniugare ed equilibrare il mondo dell’immaginario col mondo materiale.
Mistero, avventura, brividi e amore, sono i soggetti che predilige e che ha proposto anche sotto pseudonimo. I suoi libri hanno riscosso successi e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero.

Altri titoli di Angela P. Fassio in eBook:

Il paladino
La croce di Bisanzio
La Dama Nera
La reliquia perduta
Progetto Genesis. Post Mortem [Vol. I]
Progetto Genesis. Protocollo Spectrum [Vol. II]
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2016
ISBN9786050445596
Navigatori del tempo e dello spazio

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    Anteprima del libro

    Navigatori del tempo e dello spazio - Angela P. Fassio

    Angela P. Fassio

    NAVIGATORI

    DEL TEMPO E DELLO SPAZIO

    RACCONTI

    Della stessa autrice in formato eBook

    Il paladino

    La croce di Bisanzio

    La Dama Nera

    La reliquia perduta

    Progetto Genesis. Post Mortem [Vol. I]

    Progetto Genesis. Protocollo Spectrum [Vol. II]

    Navigatori del tempo e dello spazio

    I edizione digitale: maggio 2016

    Copyright © 2016 Angela Pesce Fassio

    Tutti i diritti riservati. All rights reserved.

    Sito web

    Facebook

    ISBN: 978-6-05-044559-6

    Immagini di copertina: © 123rf: Vadim Sadovski | Kevin Carden

    Progetto grafico copertina: Elisabetta Baldan

    Sito web

    Edizione elettronica: Gian Paolo Gasperi

    Sito web

    Cronomoto

    Era alto e snello, con lunghi capelli neri che incorniciavano il viso dai tratti delicati. Indossava una camicia azzurra e un paio di pantaloni neri, ampi e comodi. Calzava sandali trasparenti come vetro e morbidi come seta.

    Camminava lentamente lungo un sentiero di campagna appena tracciato fra l’erba alta, e intorno a lui frusciavano le cime frondose degli alberi mosse dalla brezza estiva. Il luogo era quieto e solitario; la meta preferita delle sue frequenti passeggiate dedicate alla meditazione.

    La luce dorata del sole che filtrava attraverso il fitto intreccio dei rami creava sul terreno bizzarri e mutevoli disegni, screziando il verde delle foglie di toni verdi e d’oro. Il silenzio era a tratti interrotto dai richiami e dal canto degli uccelli, da rapidi frulli d’ali ed echi di suoni indistinti, lontani.

    Tutto ciò che lo circondava gli era familiare.

    Il suo incedere tranquillo lo portò più lontano del solito e a un certo punto, avendo perso la nozione del tempo, fu sorpreso dal calare della sera. Il tramonto accese di colori intensi il sottobosco per un magico istante, poi le prime ombre l’invasero e il chiassoso cicaleccio degli uccelli si interruppe d’improvviso. Si era fatto tardi ed era tempo di rientrare ma, mentre stava per girarsi e riprendere la via del ritorno, la sua attenzione venne attratta da uno strano bagliore che sembrava irradiarsi da una fitta macchia di cespugli a poca distanza. Spinto dalla curiosità avanzò da quella parte con l’intento di scoprire la fonte invisibile del misterioso fenomeno luminoso. Man mano che si avvicinava sembrò che il bagliore si dilatasse aumentando d’intensità e trasmutando dal bianco dorato al verdazzurro. A meno di un metro non riuscì a individuare alcun oggetto che rivelasse l’origine della luce misteriosa. Tutti i cespugli riverberavano di scintillii, come se a opera di un arcano sortilegio si fossero trasformati in luce; un fuoco che ardeva senza bruciare e senza consumare. Dopo qualche istante d’esitazione avanzò ancora e d’un tratto l’alone di luce lo avvolse, pulsante e vibrante come qualcosa di vivo. Chiuse gli occhi, lottando contro la vertigine che minacciò di travolgerlo, e tentò con tutte le proprie forze di allontanarsi, ma invano.

    Una forza misteriosa lo imprigionò. Un potere sconosciuto lo trascinò a velocità vertiginosa in un abisso nero e infinito, senza spazio né tempo, e precipitò in una dimensione ignota nella quale un vento sorto dal nulla lo sospinse lontano. Sempre più lontano.

    Perse i sensi.

    Al risveglio era disteso nell’erba umida di rugiada. Lentamente, ancora stordito e frastornato, si sollevò e sedette. Cosa era accaduto? Con affanno tentò di rimettere ordine nella propria mente per ricordare, ma era tutto così confuso. Forse, pensò, aveva dormito e sognato. Ma allora perché si sentiva tanto strano? Da cosa derivava quel senso di spossatezza e smarrimento? Poco a poco cominciò a rammentare, a ricostruire come un mosaico l’intricato intreccio dei ricordi. Era stata la luce fra i cespugli ad attirarlo ma, quando si voltò in quella direzione, della macchia non c’era traccia. Dubitava di aver avuto una sorta di allucinazione, ma come spiegarlo altrimenti? In quel momento si rese conto che era giorno e per un attimo si cullò nella speranza di avere soltanto dormito. Ma un’occhiata più attenta intorno a sé gli rivelò che il luogo in cui si trovava era profondamente diverso. Era un bosco, certo, ma selvatico e incolto. E poi la luce era molto più intensa, forte da ferire gli occhi. Un sole infuocato bruciava nel cielo smorto. Ardeva con la ferocia di un astro ancora giovane e all’apice della sua potenza. Si interrogò sul significato del cambiamento così radicale e straordinario nell’ambiente che lo circondava e la risposta lo colmò di sgomento.

    No, era troppo assurdo per essere vero. Assurdo, ma logico. Per quanto potesse esserlo un evento su cui gli scienziati avevano formulato una quantità di teorie, ma che nessuno era mai stato in grado di dimostrare.

    Almeno finora. Perché non c’era altra spiegazione che un viaggio nel tempo. La distorsione spazio-temporale l’aveva letteralmente catapultato in un’altra epoca, in un’altra dimensione, e in quel segmento del continuum il pianeta Terra era molto più giovane. Difficile dire quanto, ma forse qualche migliaio di anni. Senza dubbio era la Terra dei suoi lontani antenati di cui si narrava nei libri di storia; un pianeta sovrappopolato, inquinato, prossimo alla catastrofe ecologica e sempre in guerra.

    Rabbrividì al pensiero.

    Voleva andarsene. Restare intrappolato in un mondo abitato da barbari impregnati di pregiudizi era impensabile, inaccettabile per un individuo che apparteneva a una razza evoluta. Andarsene sì, ma in che modo? Non poteva, se non avesse trovato un altro luogo in cui si verificasse il fenomeno discorsivo nello spazio-tempo. E, ammesso di avere una simile fortuna, le probabilità di tornare da dove era venuto erano miseramente scarse. E se fosse stato proiettato sulla Terra della preistoria? O peggio in qualche remoto angolo della Galassia non ancora colonizzato? Spaventoso anche solo immaginarlo, e tuttavia si sentiva pronto a rischiare pur di non essere costretto a rimanere in quel tempo.

    Sospirò sconsolato. Per il momento avrebbe dovuto adattarsi con stoica rassegnazione e prepararsi al peggio. Era fondamentale procurarsi indumenti idonei, un riparo e del cibo. Il suo stomaco protestò all’idea di ingerire gli alimenti di cui si nutrivano i terrestri di quel secolo, ma morire di fame non gli parve sensato. Dopo un po’ si scosse e decise che non poteva permettersi il lusso di indulgere nell’autocommiserazione. Doveva cercare un centro abitato e sperare di venire accolto in modo amichevole. Se le sue nozioni di storia erano esatte, non avrebbe avuto troppe difficoltà a trovarne uno. Che fosse un paese o una città non aveva importanza.

    Si incamminò sul viottolo che dal bosco si arrampicava lungo il crinale della collina e si addentrava fra ordinati filari di vigneti. Diffidente e interessato allo stesso tempo, osservò i filari che si stendevano a perdita d’occhio e fu costretto ad ammettere che c’era del bello in quella vista.

    Dalla sommità della collina poté spaziare sull’ampia vallata sottostante in cui era annidato un gruppo di case. Intorno, le dolci colline erano per la maggior parte coltivate a vigna, ma qua e là si scorgevano macchie di fitta vegetazione e frutteti, qualche pascolo e isolati casolari. Verso il fondovalle campi di grano creavano chiazze dorate. Il paesaggio era bello e lo riconciliò un poco con quel mondo. Scorse delle figure, più in basso, e decise di dirigersi verso il paesino per chiedere ospitalità. Si avviò spedito, benché timoroso. Gli incolti abitanti l’avrebbero accettato o respinto? Gli stranieri non erano ben visti, a quanto sapeva.

    L’apparenza però era pacifica. C’era gente che lavorava nei campi e grandi macchinari rumorosi che spandevano fumi inquinanti non sembravano macchine da guerra. Uomini e donne erano bassi e robusti, con la pelle scurita dal sole. Indossavano vestiti scomodi ed esteticamente orribili. Si chiese come potessero lavorare senza l’ausilio dei robot. Certo non avevano tempo a disposizione per coltivare la mente e lo spirito. La vita rozza che conducevano spiegava anche l’elevata mortalità in età relativamente giovanile.

    Si accorse della curiosità destata dal suo arrivo. Più che lui stesso, tuttavia, erano i suoi abiti ad attirare l’attenzione. Interrotte le loro occupazioni si misero a osservarlo e a parlare fra loro aumentando il suo disagio. Alcuni bambini, a meno che non fossero nani, lo circondarono schiamazzando come insetti molesti, rivolgendogli parole che non fu in grado di capire. Era una lingua davvero strana, gutturale e primitiva. Arrivato sulla piazza principale del paese si accorse che si era radunata una piccola folla il cui mormorio indistinto giunse fino a lui. Sembravano molto curiosi, ma non ostili.

    Si fermò per osservare le facce che lo circondavano. Qualcuno lo scrutava con vaga diffidenza, ma nel complesso non erano impauriti e ciò lo fece sentire meglio. La paura, lo sapeva bene, poteva scatenare negli uomini reazioni violente. Rassicurato, rivolse loro un sorriso amichevole che però non ricambiarono. Continuarono invece a mormorare indicandosi l’un l’altro i suoi abiti, i capelli, la sua statura notevole, e le differenze che riscontravano li rendevano palesemente perplessi. Poi un uomo si aprì un varco fra la gente e gli si accostò guardingo. Era un omone, al confronto degli altri, e indossava una lunga veste nera che gli conferiva un aspetto autoritario. Pensando che fosse qualcuno importante, lo salutò in modo rispettoso e quello gli parlò con gentilezza, come avrebbe fatto con un bambino, ma lui non comprese una sola parola. Se non riuscivano a comunicare sarebbe stato impossibile chiedere aiuto, pensò frustrato. A un tratto ricordò di avere con sé un apparecchio che poteva risolvere quel problema. Frugò nella tasca e ne estrasse due minuscoli dischi piatti, poco più grandi di un bottone, che applicò alle tempie.

    La comunicazione fu immediata.

    «Chi sei?» chiese l’uomo in nero. «Sei un forestiero? Da dove vieni?»

    Adesso sì che si cominciava a ragionare!

    «Mi chiamo Eleazar e vengo da lontano. Molto lontano.»

    «Dall’estero? Forse dall’Oriente?»

    «È difficile da spiegare. Il termine lontano non è appropriato, se inteso come distanza in chilometri. Il luogo da cui provengo è lontano come tempo.» Risultò evidente dall’espressione dell’altro che il concetto era astruso e allora tentò di chiarirlo. «Io vengo dal futuro.»

    Un mormorio di stupore si levò dalla folla, mentre sulla faccia dell’uomo si alternavano incredulità e collera. «Non dire idiozie!» sbottò. «Questo è uno scherzo di pessimo gusto, figliolo. Per giunta, carnevale è passato da un pezzo.»

    «Scherzo? Carnevale? Non capisco.»

    «Andiamo, capisci fin troppo bene cosa intendo. Siamo persone semplici, ma non stupide. Vorresti darci a intendere che provieni da un’altra epoca?»

    «Che motivo avrei di prendervi in giro? È la verità, vi assicuro.»

    «Insisti? E allora sentiamo un po’ da dove vieni.»

    «La mia città si chiama Teramis e sorge sul pianeta che oggi voi chiamate Terra, ma che per noi è Solaris Tertius. In base a un calcolo approssimativo, direi che la data si aggira intorno all’anno quarantamila della Nuova Era.»

    Tutti trattennero il fiato. L’unico a non sembrare particolarmente colpito era il suo interlocutore. «Interessante, ma… potresti dimostrarlo?»

    «Non saprei in che modo. Il mio sintetizzatore si è guastato durante la transizione e mi è rimasto solo il disintegratore molecolare…» Impugnò una specie di maniglia di metallo satinato munita di pulsantiera.

    «Cos’è quella diavoleria?»

    «Un disintegratore molecolare. Vuoi che ti faccia vedere come funziona?» Parlava col tono di chi si rivolge a un bambino non troppo sveglio.

    L’altro lo guardò diffidente e qualcuno tra la folla indietreggiò. «È pericoloso quell’arnese?»

    «No. Questo modello non ha alcun effetto sulle persone. Funziona solo sugli oggetti.»

    «Provalo su quella pietra.» Gli indicò una lapide commemorativa vecchia di secoli sogghignando fra sé. Anche i presenti ridacchiavano, sicuri che il tizio fosse matto e che avrebbe fatto una misera figura.

    Eleazar puntò la maniglia e premette un tasto. Non si udirono suoni né si videro raggi. Non ci fu alcun segnale a indicare che lo strano aggeggio funzionasse, finché la lapide scomparve. Sbalorditi, tutti fissarono il punto dove si trovava prima e che adesso era vuoto.

    «Ehi, dov’è la lapide? Dove l’hai messa?»

    «Le molecole che la componevano si sono smaterializzate. Ora si trova in un’altra dimensione.»

    «La rivoglio! Falla tornare subito indietro!»

    «Mi dispiace, ma non si può. Il processo è irreversibile, con questo tipo di apparecchio.»

    La folla rumoreggiò e l’uomo lo guardò con aria truce. «Cosa credi di aver dimostrato se non che sei un prestigiatore? È un trucco che molti prestigiatori sanno fare meglio di te, perché almeno loro le cose le fanno ricomparire!»

    Eleazar sospirò e cercò di non spazientirsi. «Non so davvero in che modo convincervi che dico la verità, se non siete disposti a credermi. Potrei restare qui per ore a spiegare e tentare di farvi capire, ma temo che sarebbe inutile.» Li guardò deluso e scoraggiato. «Ero venuto a domandare aiuto e ospitalità, ma da voi non posso aspettarmi altro che scherno e diffidenza. Tornate pure alle vostre faccende, io tolgo il disturbo.» Girò sui tacchi e fece l’atto di andarsene. Nessuno cercò di fermarlo.

    «Ehi, aspetta!» Una voce di donna in mezzo alla calca, fra quelli che erano più indietro e che si spostarono per lasciarla passare, imitati dalle prime file. Lei si fece avanti risoluta, nonostante fosse piccola ed esile. Sembrava una ragazzina, ma era in età matura, e quando parlò di nuovo il suo tono era autorevole. «Perdona i modi poco civili dei miei compaesani. Ti assicuro che non abbiamo dimenticato i doveri dell’ospitalità, anche se qualcuno sta cercando di dimostrare il contrario, in specie chi li dovrebbe rammentare più degli altri.» Fissò l’uomo vestito di nero e lui abbassò il capo. «La mia casa è a tua disposizione e sarai il benvenuto finché vorrai restare.»

    Spinto da un impulso di gratitudine, Eleazar le si avvicinò e sorrise. «Ti ringrazio. Sicura che per te non sia un disturbo?»

    «Tranquillo, sarà un piacere avere un po’ di compagnia», rispose in modo burbero e affettuoso. «Vieni con me e non badare a loro. Non sono cattivi, ma solo un po’ ignoranti.»

    Eleazar non poteva che essere d’accordo, ma si astenne dal dirlo e si accodò alla sua salvatrice.

    Pian piano la gente se ne andò e sulla piazza rimase soltanto il parroco, intento a fissare pensieroso il punto, ora vuoto, in cui c’era la lapide. Dopo essersi segnato rapidamente si diresse a passi svelti verso la canonica. Era molto turbato e desiderava raccogliersi in preghiera per ritrovare la propria serenità messa in pericolo da un avvenimento inesplicabile.

    Ignaro di essere la causa dello sconvolgimento interiore del sacerdote, Eleazar entrò nella casa della donna che gli aveva dimostrato buon cuore e l’aveva un poco riconciliato con la gente del posto. Era una casa piccola, semplice e quasi disadorna, ma accogliente e luminosa. Un ambiente che lo fece sentire al sicuro. Lei gli mostrò una cameretta linda e graziosa, con tendine a fiori e colori tenui.

    «Ecco la tua stanza. So che non è elegante, ma non sono ricca e ti dovrai accontentare.»

    «Mi piace e mi ci troverò bene.» Guardò una foto posata sul cassettone che riproduceva l’immagine di un ragazzo sorridente.

    «Era mio figlio», spiegò mentre un’ombra di tristezza le velava gli occhi scuri. «È morto in un incidente d’auto qualche anno fa.»

    Eleazar restò in silenzio. La stanza era appartenuta a quel giovane, rifletté con tristezza.

    «Sai, tu me lo ricordi un poco. Come hai detto che ti chiami?»

    «Eleazar.»

    «Che nome curioso. Io sono Maddalena.»

    «E tuo figlio come si chiamava?»

    «Alberto. Era un bravo ragazzo e mi manca tanto.» Lo scrutò con intensità. «La tua famiglia sa che sei qui?»

    Lui esitò, prima di rispondere.

    «Allora? Immagino che tu abbia genitori e parenti, da qualche parte.»

    «Credo di sì», rispose incerto. «Però non li conosco.»

    «Non li conosci? Vuoi forse dire che sei un trovatello?»

    «Scusa, ma non capisco. Cosa significa… trovatello?»

    «È un bambino che viene allevato in un istituto di carità. Uno che non sa chi siano i propri genitori.»

    «Nel mio caso non è così. Non è che io non conosca i miei genitori di nome, ma non li conosco perché sono stato cresciuto ed educato lontano da loro.»

    La donna scosse il capo. «Adesso sono io a non capire. Sei sicuro di star bene? Non sei per caso scappato da qualche casa di cura per malati di mente?»

    «Cos’è una… casa di cura?»

    «È il posto in cui finirò io se continuiamo ad andare avanti in questo modo. Senti, se vuoi altri vestiti li troverai in quell’armadio. Mettiti a tuo agio, intanto che preparo la cena. Riposati, se vuoi.» Senza aspettare risposta se ne andò.

    Rimasto solo, Eleazar aprì l’armadio e lo trovò pieno di indumenti di ogni tipo. Ne esaminò qualcuno, ma c’era poco che potesse andargli bene. E poi si guardò attorno, sconcertato dalla profusione di oggetti inutili che occupavano un sacco di spazio. Sentì la mancanza del suo sintetizzatore che gli avrebbe procurato all’istante tutto ciò che gli sarebbe stato necessario, ma il congegno era inutile senza la connessione al computer centrale che provvedeva alle esigenze della città in cui risiedeva prima di capitare lì. Come gli aveva detto Maddalena, l’armadio era ben fornito e forse avrebbe trovato qualcosa di adatto.

    Ora voleva provare il letto. Vi si sedette con cautela e poi, ancora più cautamente, si sdraiò. Era morbido e abbastanza comodo pur nella sua struttura primitiva. Alquanto diverso dal campo antigravitazionale su cui era abituato a dormire, ma… Chiuse gli occhi e si addormentò in un attimo, sopraffatto dalla stanchezza e dalle emozioni di quella giornata.

    Qualche tempo dopo Maddalena andò a dare un’occhiata nella camera e vide che dormiva. Con passo leggero si accostò al letto e preso un plaid ripiegato su una sedia lo posò sul corpo immobile del ragazzo. Sostò alcuni minuti, poi se ne andò.

    Verso sera ricevette la visita del parroco. Lo fece entrare e lo invitò a sedere in cucina. Non parve sorpresa di vederlo.

    «Non ha saputo resistere al desiderio di venire a dare un’occhiata, vero reverendo?»

    «Dov’è lui adesso?»

    «Nella stanza di Alberto. Dorme come un bambino.»

    «Cosa ne pensa?»

    «Niente, reverendo. Personalmente sono convinta che dica la verità, anche se può apparire strano.»

    Il parroco inarcò un sopracciglio. «Cosa glielo fa credere?»

    «Parecchie cose, don Paolo. Difficili da spiegare.»

    «Lei ha troppa immaginazione.»

    «E lei non ne ha affatto. Cosa pensa che sia? Una specie di demonio piombato qui per corromperci?»

    «Potrebbe essere», annuì il prete con gravità senza rilevare l’ironia di lei.

    «Non sia ridicolo, per favore. Che lei pensi una cosa simile non solo è assurdo ma mi fa dubitare del suo buonsenso.»

    «Allora lei ammette che quel giovane

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