Tra Uncas e Robin
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Info su questo ebook
Il libro si interroga sul mistero della morte e della vita. Il protagonista è un ottuagenario stanco di vivere perché colpito duramente negli affetti nell’ultimo segmento della sua esistenza.
La sua personale istanza esistenziale si snoda in un viaggio a ritroso nei ricordi della sua giovinezza. Il viaggio è dunque un elemento simbolico che permea il testo, sia esso reale o spirituale, virtuale o fantastico. Viaggia il protagonista nei luoghi del suo passato, così come vaga il cane – estemporanea, ulteriore voce narrante - prima di incontrarlo. Più che viaggiare, volano le anime delle persone ormai scomparse e vola Peter Pan, protagonista, a sua volta, del “libro nel libro”, che aprirà una parentesi di commozione e breve rinascita spirituale nel vecchio. La morte non è che un passaggio così come l’evento che chiuderà il romanzo: la nascita della nipotina. Ciò che sta in mezzo a questi due estremi è un atto di coraggio, di “endurance” shakespeariana che può anche essere condivisa, testimoniata ad altri, come la pratica del “bookcrossing” suggerisce.
Daniela Forneris
I was born in 1965, I graduated in Foreign Literature at the University of Turin, Italy. Since then I have been working as a teacher in secondary schools. I like writing very much, reading is my best hobby.
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Anteprima del libro
Tra Uncas e Robin - Daniela Forneris
Tra Uncas e Robin
Daniela Forneris
Copyright 2012 by Daniela Forneris
Published by Daniela Forneris at Smashwords
Smashwords Edition, License Notes
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INDICE
Capitolo 1 – Occhi di cane azzurri
Capitolo 2 – Incontro
Capitolo 3 – Casa
Capitolo 4 – Sonno
Capitolo 5 – Il viaggio
Capitolo 6 – Aquileia
Capitolo 7 – Maria
Capitolo 8 – Venezia
Capitolo 9 – Il libro
Capitolo 10 – Il ritorno
Capitolo 11 – Peter Pan
Capitolo 12 – Letture
Capitolo 13 – L’orologio
Capitolo 14 – Il tesoro del nonno
Capitolo 15 – Corsara
Capitolo 16 – In libreria
Capitolo 17 – Parto
Occhi di cane azzurri
Disse che sarebbe ritornato entro breve tempo, una o due ore al massimo. Non lo videro più rientrare. Lo cercarono invano tutta la sera ed anche il giorno successivo. Era uscito per far passeggiare il cane, due occhi azzurro cielo di Alaskan husky, azzurro brillanti come i suoi, e non aveva più fatto ritorno a casa. Lo trovarono la mattina del sabato, nel bosco, impiccato all’albero più alto, gelido, penzolante tra le fronde cangianti d’autunno. Il cane era ai suoi piedi, legato al fusto. Gli occhi di metallo mandavano bagliori d’impazienza mista ad impotenza. Neppure la sua amicizia era riuscita a fermarlo. Aveva spezzato i suoi vent’anni sul nascere come il filo elettrico, usato per appendersi, aveva spezzato la sua colonna vertebrale, proprio all’inizio, tra capo e collo, un colpo secco, un battito di ciglia, un solo, subitaneo bagliore metallico indirizzato al cielo.
Il cane era mansueto quando gli agenti della polizia lo trovarono. Non muoveva un nervo, attento alle operazioni di rito, mentre lo calavano. C’era frenesia intorno. Infermieri, dottori e parenti si erano fatti vicini alla salma, sorvegliati dai poliziotti. Lui, no. Osservava, muto e teso, da lontano. Lo avevano sciolto dal tronco e, lì per lì, non gli era parso vero di essere libero. Ma aveva deciso di attendere. Conosceva bene l’attesa, lui. La loro amicizia era stata costellata di attese. Attendeva carezze, comandi, passeggiate lunghe e silenziose. Aveva anche saputo aspettare che la mente umana, in certi momenti irrazionale ed accesa, glielo restituisse come lui lo conosceva, calmo e pacato, gentile e premuroso. Attendeva giorni e giorni un segnale, una carezza, un gesto di conferma per lo scampato pericolo. Infine, la malattia non aveva avuto il sopravvento, la crisi scemava e la mente maniacale pian piano gli restituiva il suo padrone. Aveva saputo aspettare, paziente, lunghi periodi di digiuno, lui, che la natura voleva bestiale, istintivo. Aveva imparato, con pazienza ed allenamento, l’attesa.
Anche quella mattina aveva aspettato che la sua mano amica lo sciogliesse dal guinzaglio e, come al solito, gli permettesse di correre e giocare. Aveva visto spuntare l’alba.
Era una magnifica mattinata di fine ottobre. Ad est, la palla arancione del sole si formava lenta ma inesorabile. Dapprima il colmo dell’arco, poi, pian piano, saliva il diametro che gli rendeva le giuste dimensioni. Era enorme ed abbagliante. Gettava una luce innaturale sulle cose, un colore giallo acceso che faceva risplendere ed abbelliva anche ciò che bello non era. Erano gialli e luminosi i tronchi grigi dei pioppi, l’acqua del rigagnolo e, più in là, i muri intonacati delle prime case del paese. Era come se tutto fosse nuovo, così rivestito di luce. Ma ciò che colpiva maggiormente era, forse, il contrasto tra questo giallo vivo, caldo ed il cielo plumbeo, coperto di nubi basse, grigio-nere che si avvicinavano veloci da ovest. Ed il paese, in mezzo, scoperto impreparato ad accogliere tanta luminosità, anch’esso ad attendere l’irreparabile.
Aveva alzato gli occhi e, stupito, aveva visto la sagoma del suo padrone agitarsi come una foglia scossa dal vento, pure rivestita dello stesso riverbero, pronta a staccarsi come d’autunno, stranamente innaturale, come tutto, del resto, quella mattina.
Il cattivo presagio che percepiva arrivava da ovest, come le nubi nere, veloce. Era annunciato da un suono prolungato ed assordante che, tante volte, quando passeggiava col padrone, aveva sentito, più alto e meno alto, più alto e meno alto, fastidioso, si avvicinava, ecco lo raggiungeva, era lì: una luce lampeggiante mandava baleni di fulmine senza tuono. Ora tutto taceva.
Io appresi della sua morte dai vicini di casa. Fummo avvertiti dalle sirene della polizia e delle ambulanze. Uscimmo nella strada, come d’abitudine, nei paesini di provincia, quando si ode qualche strano segnale. Fu un istante. Un riflesso di luce innaturale mi attraversò lo sguardo, dettato forse dall’incredulità, proprio come l’alba inconsueta di quel giorno aveva per un po’ tinto tutto quanto, e poi il grigio ordinario della realtà mi riguadagnò.
Ci volle una settimana prima che i funerali avessero luogo. Occorreva accertare le dinamiche del decesso, sezionare, analizzare, interrogare, verbalizzare, una quantità di dolore enorme. Formalità, burocrazia, tutto avvolto nel silenzio. Silenzio tra i compaesani stupiti ed impauriti, a volte increduli, basiti. Silenzio tra gli amici orfani ed impotenti. Silenzio tra i familiari affranti, annientati.
A metà pomeriggio del sabato successivo, le campane ruppero il silenzio. Mi ricordo che stavo stirando quando le udii, inconfondibili. Un rintocco lento e struggente che pare stonato, privo di qualsiasi melodia, quasi a testimoniare l’incapacità di proseguire, di dare ordine ai pensieri. Mentre passavo e ripassavo il ferro caldo sulla biancheria provavo a seguire i rintocchi e a scorgerne un motivo. Uno alto, uno basso, distanti, uno a metà scala, forse – pensai – ne seguirà un altro alto e così via
.
Invece, silenzio. Un silenzio prolungato come se le campane non avessero più voluto suonare, o come se qualcuno le avesse fermate. O fosse mancata la luce ed il marchingegno si fosse inceppato. Infine, un rintocco e poi un altro e un altro ancora, diversi dai precedenti, senza capo né coda, struggenti, perché volutamente disordinati, appositamente stonati. Ecco come suona una campana a morto: neppure volendo la si può intuire; è come se dicesse Vietato cantare
.
Dissero che il cane, quel giorno, dopo essere stato liberato, avesse continuato a vagare solitario per il paese, per un po’, poi nessuno si era più interessato a lui.
Il giorno dei morti, durante la messa di rito al cimitero, nel pomeriggio, mi ritrovai accanto alla tomba del giovane, per puro caso, perché adiacente a quella dei nostri cari. Un gruppetto di suoi amici si stringeva intorno alla lapide, mesto. Pensai alla dolcezza dei pochi, timidi gesti che qualcuno di loro accennò. Riflettei sul fatto che questi ultimi sembrassero orfani suoi, spaesati, ancora increduli. Notai, senza volerlo, che un cane era là, oltre il cancello di un ingresso secondario. Fermo, fiero, ritto sulle zampe, forse smagrito. Lo sguardo malinconico ma curioso, seguiva con attenzione ciò che avveniva in prossimità del tumulo lì accanto. Era, senza ombra di dubbio, un bellissimo esemplare di animale. Nonostante fosse evidente che non si nutriva adeguatamente da un pezzo, manteneva una robusta ossatura, ma questa non era preponderante, smodata, anzi, l’insieme lasciava intuire una naturale eleganza di movimento e, indubbiamente, possedeva una sicura forza muscolare che gli veniva dall’essere un cane da slitta. Il suo manto oscillava tra il bianco ed il marrone chiaro, sfumato, il petto e le zampe erano immacolate. Il muso affusolato era leggermente più scuro del resto e qui si stagliavano due macchie azzurro chiarissime, dal taglio geometrico di un inconfondibile triangolo scaleno. Poco più di due fessure dalle quali filtrava, però, un lampo vivido ed intenso. I nostri occhi s’incontrarono ed intesi, d’un tratto, che nascondeva una pena, sconfinata ed irreversibile. Ne provai commozione.
Non potevo ancora immaginare, allora, che i nostri destini si sarebbero incrociati. Sentii