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Equinozio
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E-book398 pagine5 ore

Equinozio

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Info su questo ebook

A Torre Pietra, tetro castello fra le montagne, niente è ciò che sembra.
Quando Ottavio Grimaldi si reca in un paesino della Valle di Susa, dove risiedono i baroni Ranieri, per un lutto improvviso, una rivelazione lo obbliga a indagare sull’incidente di cui la sorella Nadia è stata vittima.
Quali segreti ha scoperto nel diario di Nadia riguardo a quel luogo misterioso e a quella strana famiglia?
Ottavio ignora che varcare la soglia di quel tetro castello gli spalancherà le porte di un mondo oscuro al di là di ogni immaginazione, spaventoso ma anche magico, dominato da esseri immortali, nemici implacabili dai poteri sovrumani e da sanguinose lotte per la supremazia.
E quando eventi scatenati da forze incontrollabili travolgeranno Ottavio, riuscirà ancora a cambiare un futuro che sembra già segnato?

L’AUTRICE
Nata ad Asti, dove risiede tuttora, Angela Pesce Fassio è un’autrice versatile, come dimostra la sua ormai lunga carriera e la varietà della sua produzione letteraria. Coltiva altre passioni, oltre alla scrittura, fra cui ascoltare musica, dipingere, leggere e, quando le sue molteplici attività lo consentono, ama andare a cavallo e praticare yoga. Discipline che le consentono di coniugare ed equilibrare il mondo dell’immaginario col mondo materiale.
Mistero, avventura, brividi e amore, sono i soggetti che predilige e che ha proposto anche sotto pseudonimo. I suoi libri hanno riscosso successi e consensi dal pubblico e dalla critica in Italia e all’estero.
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2020
ISBN9788835364368
Equinozio

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    Anteprima del libro

    Equinozio - Angela P. Fassio

    Angela P. Fassio

    Equinozio

    Romanzo

    Equinozio

    I edizione digitale: gennaio 2020

    Copyright © 2020 Angela Pesce Fassio

    Tutti i diritti riservati. All rights reserved.

    Sito web

    Facebook

    ISBN: 9788835364368

    Immagine di copertina

    Fotografo: Jerzy Gorecki

    Progetto grafico: Consuelo Baviera

    Sito web

    Facebook

    Edizione digitale: Gian Paolo Gasperi

    Sito web

    Personaggi

    Ottavio Grimaldi, uomo d’affari

    Nadia, sorella di Ottavio, istitutrice

    Sofia e Giordano Ranieri, signori di Torre Pietra

    Giulio, figlio di Giordano

    Rossana, nipote dei Ranieri

    Don Michele, il curato del villaggio

    Vampiri del Direttorio:

    Rolando, il capo

    Marcus, accolito più fedele

    Flora e Iolanda, gemelle

    Lorenzo, Alberto, Violante, Vladimiro, Leonora e Valerio

    Vampiri Cacciatori:

    Boris

    Sergio

    Ispettore Fabrizio Conti

    Sergente Luigi Ratti

    1

    Val di Susa, Piemonte, estate 1880

    Il treno rallentò per entrare nella piccola stazione e mi preparai a scendere, abbassando il finestrino per dare un’occhiata. La sensazione di essere arrivato in capo al mondo fu accentuata dalla consapevolezza che la ferrovia terminava lì, in quel paesino sperduto fra le montagne.

    Il convoglio si arrestò sferragliando, tra sbuffi di vapore e fumo della locomotiva. Lasciai lo scompartimento con il mio esiguo bagaglio e uscii nel corridoio per seguire gli altri passeggeri. Sceso sul marciapiede, sostai per guardarmi attorno. Di facchini neanche l’ombra, perciò mi rassegnai a raggiungere il passaggio pedonale dove gli altri mi avevano preceduto. Mi accodai al gruppetto per attraversare i binari e fui l’ultimo a entrare nel minuscolo atrio. Posai la borsa da viaggio e attesi di veder comparire la persona che, mi era stato assicurato, sarebbe venuta a prendermi. Non avevo la minima idea di chi fosse, tuttavia ero certo che lui mi avrebbe individuato subito. Infatti, dal modo in cui la gente mi osservava, capii che da quelle parti, di forestieri, non se ne vedevano molti.

    Il tempo passò e cominciai a provare un vago disappunto. Ormai l’atrio era deserto e ancora nessuno si era presentato. Controllai l’orologio da taschino per l’ennesima volta e sospirai. Per un tipo puntuale come me, quel ritardo era inspiegabile. Ma, quando già cominciavo a temere di dovermi arrangiare, vidi arrivare un uomo dall’aria trafelata. Lo guardai venirmi incontro e, a mia volta, feci un passo verso di lui.

    Quello si tolse il cappello e mi fece un cenno col capo. «Il signor Ottavio Grimaldi?»

    «Sono io», risposi.

    «Ben arrivato. Sono Serafino Grassi, intendente di casa Ranieri. Il barone mi ha incaricato di condurla a Torre Pietra. Prego, mi segua.»

    Gli diedi la valigia e lui si avviò, precedendomi all’uscita e poi a una bella carrozza tirata da due cavalli neri. Aprì lo sportello per farmi salire, sistemò il bagaglio nel baule sul retro del veicolo e si arrampicò a cassetta a fianco del cocchiere, che subito incitò i cavalli. Partirono al trotto, mentre scostavo le tendine del finestrino per dare un’occhiata fuori. Notai che il nostro passaggio attirava l’attenzione della gente in strada, come se la vista della carrozza del barone fosse un avvenimento insolito e, ancora più insolito, che a bordo ci fosse un forestiero. Tuttavia non indugiai su quel particolare perché, appena ci lasciammo il paese alle spalle, fui attratto dal panorama spettacolare che si presentò ai miei occhi.

    La strada bianca e tortuosa si arrampicava lungo il crinale della montagna, consentendomi di ammirare l’ampia vallata, che non a caso si chiamava Val Fiorita. Man mano che salivamo, i dirupi che fiancheggiavano la strada si facevano più profondi a paurosi. Il fondovalle ora appariva velato da una leggera foschia, ma lassù l’aria era limpida, piacevolmente frizzante, e nel cielo terso echeggiavano i richiami dei falchi e delle aquile. Non riuscivo a distogliermi da quella visione incantevole, talmente affascinato da giungere quasi a dimenticare il motivo per cui avevo affrontato quel viaggio lungo e scomodo.

    Infatti, non era per diporto che mi recavo a Col Nevoso. Una ragione più grave e molto triste mi ci aveva portato. La notizia mi aveva raggiunto a Boston alcune settimane prima, obbligandomi a partire immediatamente. Purtroppo non ero riuscito a trovare posto su un piroscafo e avevo dovuto imbarcarmi a bordo di un mercantile, il che aveva comportato non pochi disagi, oltre alla compagnia di marinai rozzi e di un capitano quasi sempre ubriaco. Ma, grazie a Dio, la nave era arrivata in porto e la prosecuzione del viaggio era stata meno avventurosa, anche se rallentata da disguidi e imprevisti. Sembrava che tutto congiurasse per impedirmi di arrivare a destinazione e compiere il penoso dovere che mi attendeva.

    Mi ritrassi dal finestrino con un sospiro e mi appoggiai allo schienale del sedile. Ero stanco e mi sentivo stranamente inquieto alla prospettiva di incontrare i baroni Ranieri, piccoli ma potenti signori la cui nobiltà era talmente antica da affondare le proprie radici nella notte dei tempi. Gente riservata, si diceva, chiusa in un isolamento quasi impenetrabile. L’inquietudine aumentò, man mano che mi avvicinavo al castello. Inesplicabile e tuttavia così reale da procurarmi una stretta allo stomaco.

    La carrozza attraversò il villaggio di Col Nevoso a tutta velocità. Ebbi appena la fugace visione di case raggruppate intorno alla chiesa, il cui campanile aguzzo svettava come una lancia puntata verso il cielo, poi la corsa proseguì fra pareti di roccia scabra per un tempo che mi parve interminabile, finché Torre Pietra mi apparve: incombente, cupa e minacciosa. Una fortezza, più che una dimora signorile. Un edificio costruito in tempi remoti, creato per difendere il confine da invasioni straniere. Così incastonato nella pietra della montagna da dare l’impressione che ne facesse parte. Repressi a stento un brivido, quando infine i cavalli si arrestarono sullo spiazzo sbuffando e l’intendente venne ad aprirmi lo sportello. Prima di scendere, sostai un istante a contemplare smarrito il sinistro maniero e mi parve che la voce dell’uomo avesse una sfumatura ironica nel darmi il benvenuto.

    Saltai a terra e, nel seguire Serafino che mi precedeva col bagaglio, sperai che di giorno, alla luce del sole, il luogo apparisse meno lugubre di quanto lo vedevo ora, imbevuto dal riflesso rosso sangue del crepuscolo. L’intendente si accomiatò in fretta e mi lasciò sulla soglia, dove c’era un arcigno maggiordomo che si impadronì del bagaglio per passarlo a una cameriera vecchia e rugosa, la quale s’inchinò e si dileguò. Il maggiordomo si fece da parte per farmi entrare nell’enorme vestibolo quasi disadorno e mi guidò, senza proferire parola, fino a una grande sala fiocamente illuminata. Mi rivolse un rigido inchino e mi abbandonò.

    Malgrado l’avvilimento ne approfittai per guardarmi attorno e, da ciò che vidi, non trassi un’impressione favorevole. La stanza era fredda, nonostante il camino acceso, e dalle pareti rivestite di seta amaranto i ritratti degli antenati dei Ranieri sembravano scrutarmi con aria malevola. Volti di uomini e donne senza traccia di sorriso, cupi e imbronciati. Ma come avrebbe potuto essere diversamente in quell’ambiente funereo?

    Smisi di guardarli per accostarmi al camino e protendere le mani alla fiamma. Mentre ne osservavo assorto la danza capricciosa sentii risuonare dei passi nel vestibolo, poi la porta si aprì con un cigolio e qualcuno entrò. Una donna, a giudicare dal fruscio dell’abito e dal profumo di verbena. Mi voltai e la guardai venirmi incontro. Alta, slanciata, austera, con un viso diafano e senza particolari attrattive. Accennò un sorriso indecifrabile e mi scrutò da capo a piedi, infine mi porse la mano con affettazione. I suoi occhi gelidi mi trapassarono come lame. Mi presentai e lei annuì lentamente.

    «Sono Sofia Ranieri e le porgo il benvenuto a Torre Pietra. Anche a nome di mio fratello Giordano, che si scusa per non essere qui a riceverla», disse ritirando la mano che le avevo appena sfiorato. «Sono spiacente che le circostanze della sua visita siano così dolorose, ma spero che il suo soggiorno fra noi non sia troppo penoso. Questa dimora è antica e non offre molte comodità, però le ho fatto preparare la più confortevole delle nostre camere per gli ospiti. D’altronde, immagino che non si tratterrà a lungo.»

    «Non si preoccupi, baronessa, mi troverò senz’altro bene. E, come ha sottolineato lei, non intendo trattenermi più dello stretto necessario.»

    «Cercheremo di accelerare il disbrigo delle formalità. Naturalmente, provvederemo noi al trasporto del feretro alla stazione.»

    «Dove si trova la salma di mia sorella?» chiesi con un nodo alla gola.

    «Nella cripta di famiglia, composta nella bara. In attesa del suo arrivo abbiamo anche fatto celebrare una funzione nella chiesa del villaggio. Domani, se lo desidera, la farò accompagnare nella cripta.»

    «La ringrazio. Gradirei anche conoscere qualche dettaglio riguardo all’incidente che ha causato il decesso di mia sorella. Il contenuto del telegramma era assai succinto.»

    «Quel giorno la signorina Nadia era uscita da sola per una passeggiata e si presume che sia scivolata sul sentiero, precipitando poi nel dirupo. Quando non è rientrata, ci siamo allarmati e mio fratello ha organizzato le ricerche, che si sono protratte per ore prima che si riuscisse a trovarla. Le operazioni di recupero sono state difficili e, purtroppo per lei, non c’era più niente da fare. La caduta le è stata fatale. Siamo profondamente addolorati.»

    Ebbi la sensazione che la baronessa non fosse stata del tutto sincera. Inoltre, nell’esprimere il proprio cordoglio, la sua voce aveva un tono neutro, come se quel dramma non l’avesse neppure sfiorata.

    «Forse era destino.»

    «Mio fratello è ancora molto scosso. La scoperta del corpo di Nadia in fondo al burrone lo ha sconvolto, perciò le sarei grata se evitasse di porgli delle domande, quando stasera lo vedrà. La situazione è ancora più penosa a causa del piccolo Giulio, che si era affezionato alla signorina. Abbiamo evitato di parlargliene, finché è stato possibile, ma poi siamo stati costretti a dire la verità.»

    «Capisco.»

    «È quasi ora di cena. La faccio accompagnare nella sua stanza, in modo che possa rinfrescarsi e cambiarsi.»

    «La ringrazio, baronessa.»

    Lei suonò il campanello e comparve il maggiordomo.

    «La baronessa desidera?»

    «Accompagni il signor Grimaldi nella sua camera, per favore.»

    «Prego, signore, da questa parte.»

    Le feci un cenno e me ne andai con il maggiordomo, che mi guidò attraverso l’ampio vestibolo e poi su per lo scalone di marmo. I colori dominanti erano il bianco e il nero, intervallati da tocchi di rosso scuro che non contribuivano a rallegrare l’ambiente. L’atmosfera era funerea, più adatta a un mausoleo che a una dimora nobiliare, e mentre seguivo la rigida figura, luttuosa come tutto il resto, mi domandai come avesse potuto sopportare di vivere in quel luogo opprimente, la mia solare sorellina. Nadia era piena di energia, allegra e vivace, perciò mi riusciva difficile immaginare la sua vita in quella casa, tra persone che sembravano appena uscite dall’oltretomba. Probabilmente si era sentita soffocare, proprio come me, che appena arrivato ero già impaziente di andarmene. Non sapevo che genere d’uomo fosse Giordano Ranieri, ma se somigliava anche solo vagamente alla sorella, c’era da farsi venire i brividi.

    Immerso nei miei pensieri, non feci caso al labirinto di corridoi e stanze che attraversammo, e quando finalmente il becchino si fermò davanti a una porta e l’aprì, invitandomi a entrare, mi chiesi se sarei riuscito a orientarmi per tornare al piano di sotto. Tuttavia, evitai di esprimere i miei timori per non fare la figura dello sprovveduto e, dopo averlo ringraziato, varcai la soglia. Trasalii nel sentire il tonfo della porta che si richiudeva dietro di me e nel guardarmi attorno pensai che i Ranieri avevano un concetto molto personale circa le camere confortevoli. D’altronde, dopo quanto ero riuscito a vedere, non mi sarei dovuto sorprendere.

    Ad ogni modo non si trattava di una vacanza e la mia permanenza a Torre Pietra sarebbe stata breve, pertanto mi sarei adattato a sopportare l’ambiente tetro e l’inquietante, sinistra atmosfera che vi regnava. Dopo tutto, nel corso dei miei lunghi viaggi ero stato spesso costretto ad affrontare situazioni assai più scomode e non ero disposto a lasciarmi impressionare.

    Più tardi scoprii che la stanza, benché arredata con gusto discutibile, non era poi tanto male ed era persino dotata di un bagno con tanto di vasca e servizi igienici. Un tocco di modernità che mi sorprese piacevolmente. Forse i Ranieri non erano poi così retrogradi e il mio giudizio negativo era stato precipitoso. Disfeci la valigia e sistemai i miei effetti personali, poi curiosai fra i volumi ben allineati sugli scaffali della piccola libreria che incorniciava il caminetto e ne sfogliai qualcuno, scoprendo che, a parte le decorazioni elaborate sulla copertina, tutte le pagine erano bianche. Sconcertato dalla stranezza, li esaminai uno per uno, solo per avere la strabiliante conferma che non vi era scritto neppure un rigo. Non aveva senso, riflettei nel rimetterli a posto. Fra tutte le stravaganze in cui mi ero imbattuto nel corso della mia avventurosa esistenza, questa era senza dubbio la più enigmatica.

    Almeno fino a quel momento.

    2

    Mentre ero intento ad annodarmi la cravatta davanti allo specchio, il cupo rimbombo di un gong echeggiò nella casa. Un suono cavernoso che mi fece trasalire.

    Doveva essere il segnale della cena, pensai affrettandomi a indossare la giacca scura. Mi osservai con aria critica, infilai nel taschino il fazzoletto bianco e, dopo un ultimo tocco ai capelli, uscii. Indugiai un istante sulla soglia per cercare di orientarmi. L’illuminazione da camera mortuaria non mi aiutò a capire quale direzione prendere. E poi c’erano tutti quei ritratti di personaggi dalle facce smunte e dall’espressione truce, con sguardi torvi da far paura. Trassi un respiro e mi incamminai disinvolto, sperando d’aver imboccato il corridoio giusto. Un secondo, ancor più cavernoso suono del gong, mi intimò di affrettarmi, ma non passò molto tempo che rimpiansi di non aver prestato maggiore attenzione all’arrivo e mi fermai in preda alla più totale, sconfortante confusione.

    Stanze e corridoi sembravano creati apposta per far perdere l’orientamento. Inoltre, dopo un po’, si tendeva a vederli tutti uguali, privi di dettagli che potessero aiutare a comprendere dove ci si trovava. Lo scalone sembrava scomparso e avevo l’impressione di aggirarmi da ore in quell’inestricabile labirinto da cui non sapevo come uscire. I motivi del pavimento e della tappezzeria si ripetevano con ossessiva uniformità, creando nella mia mente agitata la spiacevole sensazione di essere intrappolato in una sola, immensa camera che per qualche maligno sortilegio si moltiplicava all’infinito. E le facce dei quadri avevano l’aria di farsi beffe dei miei maldestri tentativi di districarmi.

    Con mio grande disappunto mi resi conto di essere sul punto di cedere al panico, ma l’apparizione provvidenziale del maggiordomo mi salvò. Fui contento di vederlo come non avrei mai creduto possibile, ma il mio orgoglio era già abbastanza provato perché lo dessi a vedere.

    «Posso accompagnarla in sala da pranzo, signore? Forse non ha sentito, ma il gong è già suonato due volte.»

    «Davvero?» esclamai con la mia aria più innocente. «Stavo ammirando questi bellissimi ritratti e non vi ho fatto caso.»

    «Certo», annuì lui senza scomporsi. «Tuttavia, se mi posso permettere di darle un consiglio, credo che dovrebbe ammirarli domani e alla luce del giorno per poterli veramente apprezzare.»

    «Sì, lo penso anch’io», convenni seguendolo e cercando di memorizzare il percorso per non rischiare di perdermi di nuovo.

    La sala da pranzo era così grande che i candelieri disposti sulla lunga tavola apparecchiata e sui mobili austeri non riuscivano a illuminarne i punti più distanti, così che negli angoli si addensavano nere ombre, nicchie d’oscurità talmente fitta da apparire solida e impenetrabile. Faceva freddo anche lì, nonostante il fuoco ardesse nell’enorme camino di pietra, e notai che le composizioni floreali disposte sulla tavola erano appassite. Tuttavia, la mia attenzione fu attratta dalla presenza del giovane uomo che, interrotta la conversazione con la sorella, mi venne incontro sorridendo con inaspettato calore e la mano tesa.

    Giordano Ranieri non era come l’avevo immaginato e non somigliava affatto a Sofia. L’avvenenza maschile era una dote che di solito trovavo frivola e del tutto trascurabile, ma in quel caso fui costretto e rivedere la mia opinione, perché non vi era proprio alcunché di frivolo o effeminato nella bellezza del barone. Era virile e bello, atletico e di movenze scattanti che lasciavano intuire solidi muscoli, agile come un felino. Avrebbe potuto essere un antico guerriero, oppure posare da modello per una statua greca del periodo classico, ma senza l’ambiguità sessuale che ne era spesso la caratteristica. Gli occhi erano azzurro cupo. Il volto abbronzato aveva tratti eleganti e scolpiti, i capelli ondulati e piuttosto lunghi erano neri, lucenti come il pelo di una pantera, e indossava con naturalezza la marsina di velluto nero, sopra una camicia di un candore abbagliante e un gilet damascato dell’identico colore dei suoi occhi. Il sorriso mi rivelò una dentatura perfetta. La stretta della sua mano forte e decisa.

    «Benvenuto a Torre Pietra. Mi scuso per non essere stato presente ad accoglierla, ma immagino che Sofia abbia fatto gli onori di casa in mia vece.»

    «Naturalmente. La baronessa è stata affabile e gentile.»

    «La camera è di suo gradimento?»

    «Sì, grazie. Vi sono riconoscente per l’ospitalità.»

    «È il meno che possiamo fare per il fratello della cara Nadia. Siamo così addolorati per l’incidente…»

    «Nadia era dolce e sapeva farsi benvolere da tutti. Ancora non riesco a credere che sia morta.»

    «Infatti ci aveva conquistati con la sua allegria, la sua spontaneità. Aveva portato il sole in questa vecchia dimora. Ne sentiamo molto la mancanza.»

    «Vogliamo metterci a tavola?» intervenne Sofia, rimasta in disparte e silenziosa fino a quel momento.

    Era apparecchiato per tre, segno che il figlio del barone non avrebbe cenato insieme a noi. Nadia, nelle sue rare lettere, non mi aveva mai detto la sua età, ma supponevo non avesse più di otto o nove anni. Il che suggeriva che il barone, al tempo del suo matrimonio, fosse molto giovane. Ma che fine aveva fatto la moglie? Era morta, oppure si era stancata di vivere in quel mausoleo e se n’era andata?

    Il maggiordomo passò a versare del vino nei bicchieri di cristallo e si trasse in disparte per sorvegliare i due domestici, un uomo e una donna, che servirono le vivande. Scrutai ciò che avevo nel piatto con aria perplessa, incapace di identificarlo. Non aveva un aspetto appetitoso.

    «Spero che apprezzerà la nostra cucina», osservò Giordano come se mi avesse letto nel pensiero. «Abbiamo gusti semplici.»

    Sorrisi. «Anch’io non amo le pietanze elaborate.» Infilzando un bocconcino dell’indefinibile intruglio molliccio lo assaggiai con cautela. «Gustoso», commentai inghiottendolo. «Posso sapere che cos’è?»

    La baronessa sorrise compiaciuta. «Una specialità locale. Gli ingredienti principali sono le frattaglie di pecora.»

    Mi ci volle un buon sorso di vino per far scendere il boccone colloso e uno sforzo di volontà per fingere di gradire ciò che volentieri avrei gettato nella spazzatura. Mi augurai che il piatto seguente fosse migliore ma, quando fu servita la minestra, mi si torse lo stomaco. Feci buon viso per non urtare i padroni di casa, che peraltro sembravano apprezzare l’immangiabile brodaglia dal colore sospetto e dall’odore nauseante. C’era di che restare intossicati da quel cibo immondo, riflettei con amara ironia. La portata che seguì sembrò una lombata di vitello e preferii non indagare sulla natura dei globi gelatinosi che sguazzavano nel sugo. La carne era coriacea e sapeva di segatura, ma evidentemente i Ranieri non badavano a ciò che mangiavano. A casa mia, una cuoca di quel genere sarebbe stata licenziata subito.

    Cibo disgustoso a parte, anche la conversazione lasciava a desiderare.

    Dall’inizio della cena erano state scambiate solo poche parole e dedussi che la scarsa propensione dei miei anfitrioni per il dialogo non poteva che essere dovuta alla vita isolata che conducevano. Nonostante la loro ricchezza e le antiche origini non erano che montanari dai gusti discutibili, che nascondevano sotto la vernice delle buone maniere il rozzo modo di vivere. Mi riusciva sempre più difficile capire come mia sorella si fosse adattata a un ambiente così estraneo alla sua natura. A meno che il fascino tenebroso del barone non avesse giocato un ruolo determinante. Conoscendo il lato romantico del carattere di Nadia, avrei anche potuto avere ragione. Però proprio non riuscivo a immaginare un idillio fra i due, specie con quell’arpia sempre presente e quel suo sguardo da Medusa che pietrificava chiunque la guardasse. Mio malgrado, rabbrividii.

    A conclusione della cena fu servito il dessert; una sorta di budino tremolante color rosso sangue da cui sgorgò, appena fu tagliato, un liquido denso che del sangue aveva proprio l’aspetto. Ne avevo più che abbastanza e dichiarai che il mio medico mi aveva proibito di mangiare dolci. Mi scusai e rifiutai la porzione che stava per essermi servita.

    «Peccato», commentò la baronessa. «Non sa cosa perde. Lina prepara torte e budini deliziosi.»

    «Non ne dubito», mi affrettai a replicare con garbo. «Ma il mio medico è stato tassativo al riguardo.»

    «Nadia adorava questo budino», dichiarò Giordano affondando il cucchiaio nella gelatina flaccida. «Avrebbe voluto che Lina lo preparasse ogni giorno.»

    A stento riuscii a impedirmi di fare una smorfia. «Davvero?» chiesi invece, come se la rivelazione mi avesse deliziato. «Nadia era golosa, in effetti, e fortunata perché poteva mangiare a volontà senza ingrassare.»

    Mi venne il dubbio che i Ranieri stessero mentendo spudoratamente, ma perché avrebbero dovuto? In fondo io e Nadia non ci vedevamo da quasi due anni ed era possibile che fosse cambiata, in fatto di gusti e abitudini. Era tuttavia difficile credere che lo fosse al punto da impazzire per una simile schifezza.

    Fu con sollievo che accolsi l’invito della baronessa di passare in salotto a prendere il caffè. Varcai la soglia al seguito dei padroni di casa e venni a trovarmi davanti a un mostruoso, enorme orso bruno impagliato che con le fauci spalancate, le zanne in vista e le zampe protese sembrava pronto a saltarmi addosso. Mi sfuggì un’esclamazione di sorpresa e feci un balzo indietro.

    «Chiedo scusa. Non mi aspettavo di trovare un trofeo del genere.»

    Il barone sorrise. «È comprensibile.»

    «Terrificante, vero?» gli fece eco la sorella prendendo posto sul divano.

    «Doveva esserlo ancor più da vivo», dichiarai aggirando il mostro per raggiungere la poltrona.

    «Lo era, infatti», annuì lei. «Ha seminato il terrore nei dintorni per mesi, prima che Giordano lo uccidesse.»

    «Complimenti al suo coraggio», sorrisi ammirato. «Ho ucciso soltanto un lupo, una volta, e ancora mi vengono i brividi. Uccidere questo bestione deve aver richiesto una buona dose di sangue freddo.»

    Fratello e sorella si scambiarono un’occhiata indecifrabile.

    «Oh, non è stato facile. La bestia era astuta e ha sempre eluso le trappole, costringendomi ad affrontarla dopo svariati e inutili inseguimenti. È riuscito a sbranare due cani prima di cadere stecchito. Era un buon combattente. Per questo gli ho riservato un posto d’onore nel mio salotto.»

    Il maggiordomo servì caffè e cognac, poi Giordano aprì la scatola dei sigari e me la offrì.

    «Grazie, non fumo.»

    «Sana abitudine», convenne. «Il fumo è dannoso, ma ogni tanto ci si può concedere un piccolo piacere, non le pare?» Ne scelse uno e lo accese.

    «Sono d’accordo. La vita è troppo breve per rinunciare a tutto.»

    «Lei è sposato, Ottavio? Mi permette di chiamarla così, vero?» domandò Giordano sbuffando una nuvola di fumo.

    «Certamente. No, non sono sposato. Sto ancora aspettando la donna giusta.»

    «Le auguro di trovarla presto. Matrimonio, figli e famiglia sono importanti per un uomo, e anche per una donna. Lo dico sempre a Sofia che dovrebbe trovarsi un buon marito, ma lei mi è troppo devota per lasciarmi. D’altronde, non nego che sia un valido aiuto per crescere mio figlio, purtroppo rimasto orfano di madre. Avevo sperato che Nadia potesse alleviare questo gravoso compito, ma poi è accaduta la disgrazia… È stato un fulmine a ciel sereno e ancora non riesco ad accettarlo, anche se prima o poi mi dovrò rassegnare. Soprattutto adesso che lei è venuto a portarla via e renderà il distacco ancor più definitivo.» Spense il sigaro nel posacenere e si alzò. «Scusate se vi lascio, ma vado a dare la buonanotte a mio figlio. Non si addormenta se non gli rincalzo le coperte e gli do un bacio. Forse è un po’ viziato, ma è il mio tesoro più caro.»

    Ne approfittai e mi alzai anch’io. «Posso venire con lei? Sono stanco e desidero andare a dormire.»

    «Ma certo», acconsentì il barone. «Venga, andremo di sopra insieme.»

    Presi congedo dalla baronessa e uscii con lui. In realtà non ero poi così stanco, ma non avevo alcuna voglia di rimanere solo con l’arpia nel salotto dominato dal macabro trofeo di caccia, circondato dagli onnipresenti quadri di antenati segaligni e oppresso dall’atmosfera funerea che regnava ovunque.

    Giordano quasi non parlò mentre percorrevamo i meandri nei quali mi ero perso prima di cena e ne approfittai per guardare in giro alla ricerca di particolari che mi fornissero punti di riferimento. Scoprii altri trofei di caccia, molti dei quali erano animali esotici, segno che in passato i Ranieri avevano posseduto uno spirito avventuroso.

    Avvedendosi del mio interesse per quegli animali impagliati, il barone rallentò per darmi modo di ammirarli tutti. «Lei caccia soltanto lupi o anche altro?»

    «A dire il vero non amo la caccia così come viene intesa oggi. Considero una crudeltà uccidere animali soltanto per sport. Il lupo a cui ho sparato mi stava attaccando e non ho avuto scelta.»

    Il barone sorrise. «Mi sembra di sentir parlare sua sorella. Anche lei detestava la caccia.»

    «Lo so. Nadia amava gli animali e aveva trasformato casa nostra in una sorta di rifugio. Quasi non passava giorno senza che tornasse dalle sue escursioni con qualche bestiola bisognosa di cure. Immagino che non apprezzasse la presenza di questi trofei.»

    «Infatti. Ho dovuto spiegarle che li ho ereditati dai miei antenati e che non avevo il coraggio di disfarmene.»

    «Ho l’impressione che qui lo spazio non sia un problema. Potrebbe collocarli altrove, in modo che non spaventino i suoi ospiti», suggerii.

    «Ci penserò», annuì Giordano avviandosi.

    Lo seguii e poco dopo riconobbi il corridoio nel quale si trovava la mia stanza, che però non rammentai quale fosse.

    Fu il barone a venirmi in aiuto, indicando la porta laccata di rosso scuro che riprendeva il colore della tappezzeria. «Lei è arrivato, Ottavio. Le auguro una buona notte. A domani.»

    Ricambiai l’augurio ed entrai. Trovai la lampada accesa. Il letto era stato preparato; camicia e vestaglia ben ripiegati sul risvolto del lenzuolo. Le pantofole erano sullo scendiletto. Cominciai a spogliarmi, ma qualcosa sul guanciale attirò la mia attenzione. Era un foglietto su cui erano tracciate poche righe in una calligrafia incerta. Diceva: L’aspetto domani pomeriggio al Vecchio Mulino per rivelazioni importanti. Un amico.

    Rilessi il brevissimo messaggio con un certo turbamento, poi me ne disfeci gettandolo nelle braci del camino. Non avevo idea di quali fossero le rivelazioni a cui si riferiva l’ignoto autore del biglietto, ma senza dubbio era riuscito a destare la mia curiosità. In certo qual modo supportava la mia sensazione che i Ranieri non avessero detto tutta la verità riguardo a Nadia, benché escludessi qualsiasi loro responsabilità nella sua morte. Qualcosa, però, l’avevano nascosto. Qualcosa che la mia stessa sorellina mi aveva taciuto. Infatti, nelle sue lettere, non aveva mai fatto menzione ad alcunché di sinistro o anche solo vagamente inquietante. Si era sempre dichiarata contenta di quell’impiego ed entusiasta del bambino. Mai accenni, neanche in modo velato, a pericoli o minacce. C’era la possibilità che avesse taciuto per non mettermi in apprensione, oppure per ragioni diverse di cui ignoravo la natura. Ma ora non potevo negare che la sua morte mi apparisse in una luce più fosca e misteriosa.

    Poco dopo, attenuata la luminosità della lampada, mi infilai sotto le coperte. Il silenzio era così profondo che riuscivo a sentire il lavorio dei tarli nei vecchi mobili. Anche il più lieve scricchiolio risuonava ingigantito. In qualche punto lontano del castello un’imposta sbatteva. Si era levato il vento. Tesi l’orecchio e lo sentii gemere e sibilare attraverso le sconnessure delle antiche pietre, ma mi giunse anche un altro suono ben più agghiacciante: l’ululato di un lupo. Non mi sarei dovuto sorprendere, perché in quella zona remota, fra montagne selvagge i cui fianchi scoscesi erano ricoperti di fitti boschi, era naturale che dimorassero branchi di lupi. Eppure quel lungo, isolato e quasi straziante ululato mi diede i brividi. Sprofondai sotto le coperte e chiusi gli occhi, serrando con forza le palpebre per costringermi a dormire. Tuttavia li riaprii quasi subito quando mi giunsero degli scalpiccii di passi affrettati nel corridoio e bisbigli che aumentarono d’intensità nel passare davanti alla mia porta e poi svanirono in distanza.

    A che cosa era dovuta tanta agitazione?

    Fui tentato di alzarmi e andare a vedere, ma decisi di non muovermi. Restai però in ascolto per captare segni di attività insolita.

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