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Tempi difficili
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E-book429 pagine6 ore

Tempi difficili

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Info su questo ebook

Cura e traduzione di Mario Martino
Edizione integrale

Scritto intorno alla metà dell’Ottocento, Hard Times è uno dei romanzi più rappresentativi dei poderosi cambiamenti nel modo di produrre e di lavorare che vanno sotto il nome di rivoluzione industriale. Esso pone al centro di uno sfaccettato intreccio narrativo la vita di patimenti e di impotente ribellione di due operai, Stephen e Rachael, non più giovanissimi. La loro vita non-vita si consuma nella simbolica Coketown, una città fittizia dietro la quale occorre individuare però Preston, vicino Manchester, colta in un momento storico-sociale determinato, quello dei drammatici scioperi che vi ebbero luogo tra il 1853 e il 1854. Ma la rivoluzione industriale, di cui l’Inghilterra è protagonista e punta avanzata, non si limita alle modalità di produzione: i suoi effetti investono il modo di abitare e di divertirsi, di amare, di pensare, di educare, di organizzare e articolare lo Stato. In Hard Times, sullo sfondo ideologico dell’epoca (dall’utilitarismo, al pragmatismo, al liberalismo), si snoda così la vita dell’educatore Gradgrind e della sua famiglia, del banchiere e industriale Bounderby, dell’aristocratico e cinico Harthouse, e di Sissy e Sleary, appartenenti al mondo contrapposto ed emarginato del circo.

«Oberato da tali pensieri, fino al punto da avere la terribile sensazione di non riuscire più a contenerli, di trovarsi in una qualche nuova e corrotta relazione con le cose tra le quali passava e di vedere tingersi di rosso l’alone nebbioso d’ogni lampione, Stephen tornò a casa per trovarvi riparo.»


Charles Dickens

nacque a Portsmouth nel 1812. Trascorse l’infanzia a Chatham e poi seguì il padre nel traumatico trasferimento a Londra. Da allora la metropoli fu non solo la sua residenza abituale ma anche l’insostituibile centro ispiratore della sua arte. Morì nel 1870. Di Dickens la Newton Compton ha pubblicato David Copperfield, Il Circolo Pickwick, Le due città, Racconti di Natale e, nella collana GTE, Oliver Twist, Tempi difficili e Grandi speranze.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854130876
Tempi difficili
Autore

Charles Dickens

Charles Dickens (1812-1870) was an English writer and social critic. Regarded as the greatest novelist of the Victorian era, Dickens had a prolific collection of works including fifteen novels, five novellas, and hundreds of short stories and articles. The term “cliffhanger endings” was created because of his practice of ending his serial short stories with drama and suspense. Dickens’ political and social beliefs heavily shaped his literary work. He argued against capitalist beliefs, and advocated for children’s rights, education, and other social reforms. Dickens advocacy for such causes is apparent in his empathetic portrayal of lower classes in his famous works, such as The Christmas Carol and Hard Times.

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    Anteprima del libro

    Tempi difficili - Charles Dickens

    Libro primo. Semina

    Capitolo primo. La sola cosa necessaria

    «Dunque, voglio solo Fatti. Insegnate a questi ragazzi e ragazze soltanto Fatti. Solo di Fatti c’è bisogno nella vita. Piantate nient’altro, estirpate tutto il resto. Solo con i Fatti si educano le menti di animali razionali e nient’altro riuscirà mai loro di alcuna utilità. Questi sono i princìpi in base ai quali educo i miei propri figli, e questi sono i princìpi in base ai quali educo questi ragazzi. Perciò, signore, attenetevi ai fatti!».

    La scena era uno spoglio, freddo, sepolcrale stanzone d’una scuola, e il tozzo indice dell’oratore poneva in risalto queste osservazioni sottolineando ogni frase con un solco rettilineo sulla manica del maestro. E ancor più enfasi veniva dal quel muro squadrato che era la fronte dell’oratore, con le sopracciglia che fungevano da base, mentre gli occhi trovavano fresco ricetto nello scantinato delle due buie cavità sovrastate da quel muro; ancor più enfasi veniva dalla bocca dell’oratore, larga, sottile e dura; dalla sua voce inflessibile, secca e dittatoriale; dai suoi capelli, ispide setole ai margini di una zucca pelata, come un’abetaia piantata per riparare dal vento la sua lucida superficie, tutta bitorzoluta come la crosta di una torta di susine, come se la testa non avesse spazio a sufficienza per immagazzinare i tanti duri fatti lì ammucchiati.

    Il portamento ostinato dell’oratore, la sua giacca squadrata, le gambe e le spalle squadrate – e anzi il suo stesso fazzoletto da collo, educato ad afferrarlo per la gola con una poco accomodante stretta, ostinato come un fatto (e lo era), – tutto rafforzava quell’enfasi.

    «Nella vita, non abbiamo bisogno d’altro che Fatti, signore; nient’altro che Fatti!».

    L’oratore, il maestro e la terza persona adulta presente indietreggiarono un po’ e scrutarono con lo sguardo quei piccoli recipienti, là e allora disposti in file e righe sul piano inclinato dell’aula, pronti per essere riempiti fino all’orlo con una misura imperiale di fatti.

    Capitolo secondo. La strage degli innocenti

    Thomas Gradgrind, signore. Un uomo ancorato alla realtà. Un uomo di fatti e calcoli. Un uomo che si regola in base al principio che due e due fanno quattro, né di più né di meno, e che da niente e da nessuno potrebbe essere indotto a discostarsi da questo. Thomas Gradgrind, signore – perentoriamente Thomas

    – Thomas Gradgrind. Con righello, bilancino e regolo sempre in tasca, pronto a misurare ogni pacchetto d’umana natura e a

    dirvi esattamente a quanto ammonta. E solo questione di cifre, di semplice aritmetica. Potreste sperare d’inculcare altre insensate convinzioni in testa a un George Gradgrind, a un Augustus Gradgrind, a un John Gradgrind, a un Joseph Gradgrind (tutte persone inesistenti e ipotetiche), ma non in testa a Thomas Gradgrind, signore, no!

    Mentalmente, il signor Gradgrind si presentava sempre in tali termini tanto al suo ristretto cerchio di conoscenze quanto al pubblico in generale. E senza dubbio in tali termini, sostituendo le parole «ragazzi e ragazze» a «signore», Thomas Gradgrind presentava ora se stesso ai vaselli che gli stavano innanzi in attesa d’essere riempiti di fatti.

    In verità, mentre saettava su di loro dalle infossate orbite di cui sopra, sembrava una sorta di cannone caricato a fatti fino all’inverosimile, pronto a spazzarli via dai territori dell’infanzia d’un sol colpo. Sembrava anche una specie di apparato galvanico, dotato di un arcigno congegno da sostituirsi alle tenere e giovani immaginazioni sul punto d’essere spazzate via.

    «Ragazza numero venti», tuonò il signor Gradgrind, squadrando il tozzo dito all’indirizzo di lei. «Non conosco quella ragazza. Chi è quella ragazza?»

    «Sissy Jupe, signore», spiegò la numero venti, arrossendo mentre s’alzava e faceva una riverenza. «Sissy non è un nome», disse il signor Gradgrind. «Non devi chiamarti Sissy. Ti chiami Cecilia».

    E papà che mi chiama Sissy, signore», rispose la bambina con voce tremante e con un’altra riverenza.

    «Ma non è autorizzato a farlo», obbiettò il signor Gradgrind. «Digli che non deve. Cecilia Jupe. Vediamo. Qual è il mestiere di tuo padre?»

    «Col vostro permesso, signore, fa il domatore di cavalli al circo». Il signor Gradgrind si accigliò e con un gesto della mano fece come per scansare quel disdicevole mestiere.

    «Non ne vogliamo sapere niente qui. Non dirci queste cose qui. Tuo padre è un domatore di cavalli, non è vero?»

    «Col vostro permesso, signore, quando ce n’è qualcuno da domare è nell’arena che si domano».

    «Di questo non ci interessa nulla, e non parlarcene. Dunque, perciò. Dacci una descrizione di tuo padre come domatore. Se i cavalli s’ammalano li cura anche, suppongo?»

    «Oh, sì, signore».

    «Molto bene, allora. E veterinario, maniscalco e domatore di cavalli. Dammi un po’ una definizione di cavallo».

    (Sissy Jupe gettata nello sgomento da questa domanda).

    «La ragazza numero venti non sa definire un cavallo!», concluse il signor Gradgrind, a generale edificazione dei piccoli vaselli. «La ragazza numero venti non sa darci fatti in relazione a uno degli animali più comuni! Qualcuno mi definisca un cavallo. Bitzer, tu!».

    Il tozzo dito, muovendosi di qua e di là, si arrestò all’improvviso su Bitzer, forse perché stava seduto nello stesso raggio di luce che, penetrando da una delle nude finestre del ben imbiancato stanzone, toccava anche Sissy. Infatti, ragazzi e ragazze erano disposti seduti sul piano inclinato in due corpi distinti, divisi al centro da uno stretto corridoio; e Sissy, trovandosi all’estremo di una fila dalla parte soleggiata, riceveva per prima il raggio di luce dal quale Bitzer, trovandosi all’estremo di un’altra fila dal lato opposto, era da ultimo investito, due o tre posti più giù. Ma mentre la ragazza aveva occhi e capelli così scuri che il sole che l’illuminava sembrava renderli più vivi e intensi, il ragazzo aveva occhi e capelli così chiari che, quegli stessi raggi, sembravano portargli via anche quel poco di colore. Quegli occhi freddi a malapena sarebbero parsi occhi se non fosse stato per le corte ciglia che, ponendoli in immediato contrasto con qualcosa di più pallido, ne rivelavano la forma. I capelli tagliati corti sarebbero potuti essere semplicemente la prosecuzione delle efelidi color sabbia del volto e della fronte e la carnagione, malsana a vedersi, era così carente del colore naturale da dare l’impressione che un taglio dovesse far scaturire sangue bianco.

    «Bitzer», disse Thomas Gradgrind, «definiscimi un cavallo».

    «Quadrupede. Erbivoro. Quaranta denti, e precisamente ventiquattro molari, quattro canini e dodici incisivi. Cambia il mantello a primavera; nelle zone acquitrinose cambia anche gli zoccoli. Gli zoccoli sono duri, ma abbisognano di ferratura. Età determinabile da segni nella cavità orale». Questo, e molto altro ancora, enunciò Bitzer.

    «Dunque, ragazza numero venti», disse il signor Gradgrind. «Ora sai cos’è un cavallo».

    Lei fece un’altra riverenza, e sarebbe arrossita ancora di più di come era arrossita fino ad allora. Bitzer dopo aver strizzato entrambi gli occhi a Thomas Gradgrind, catturando in tal maniera la luce sulle tremule estremità delle ciglia da farle sembrare come le antenne di insetti affaccendati, si toccò con le nocche delle dita la fronte punteggiata di efelidi e si rimise a sedere.

    Si fece allora avanti di qualche passo il terzo signore, un uomo di peso, mordace e seccante, una propaggine del governo. A suo modo (e anche al modo di tanti altri), votato al pugilismo, sempre in guardia e sempre con qualche sistema da fare ingoiare agli altri come una grossa pillola, sempre ad ammannire direttive dalla postazione del suo piccolo incarico ufficiale, pronto a sfidare l’Inghilterra intera. Era dotato d’un vero talento – per dirla ancora in gergo pugilistico – per farsi trovare sempre al centro del quadrato ovunque fosse, ogni volta dimostrando a tutti che razza di brutto cliente fosse. Attaccava, qualsiasi fosse l’avversario: partiva col destro, rincalzava col sinistro, parava, poi uno scambio ravvicinato, un colpo d’incontro e (il bersaglio era sempre l’Inghilterra intera) costringeva l’avversario alle corde e lì lo riduceva a zero. Era sicuro di sfiancare il buon senso e rendere quello sventurato avversario insensibile persino al suono della campanella. E aveva avuto incarico dall’alto di realizzare il Millennio burocratico, allorché la macchina governativa avrebbe avuto il dominio assoluto della terra.

    «Molto bene», disse questo, con un sorriso soddisfatto e incrociando le braccia. «Questo è un cavallo. Ma vorrei ancora chiedervi questo, ragazzi e ragazze: tappezzereste una stanza con della carta disegnata a cavalli?».

    Dopo un momento di perplessità, metà della scolaresca gridò in coro: «Sì, signore!», mentre l’altra metà, leggendo sul volto di quel signore che «Sì» era la risposta sbagliata, gridò in coro «No, signore!», come di solito accade in questo tipo di interrogazioni.

    «Certo che no. E perché no?».

    Momento di perplessità. Un ragazzo cicciottello e col fiato corto, arrischiò una risposta: perché non avrebbe messo affatto la carta da parati ma avrebbe dipinto la stanza.

    «Ma devi mettere la carta», rimbrottò il signore con una certa foga.

    «Devi mettere la carta», ribadì Thomas Gradgrind, «per forza.

    Non puoi rispondere che non vuoi metterla. Che dici, ragazzo?»

    «Dunque, vi spiego io», riprese l’ufficiale dopo un’altra pausa raggelante, «perché una stanza non va tappezzata con una carta disegnata a cavalli. Si vedono forse nella realtà – nella realtà dei fatti – cavalli che se ne vanno a spasso sulle pareti di una stanza? Ne avete mai veduti?»

    «Sì, signore!», da metà classe. «No, signore!», dall’altra metà.

    «Certo che no», disse il funzionario con un’occhiataccia alla metà che aveva dato la risposta errata. «Ma proprio per questo non s’ha da vedere da nessun’altra parte ciò che non si vede nei fatti. Il Buon Gusto non è che un altro modo di chiamare i Fatti».

    Thomas Gradgrind assentì con la testa.

    «Questo è un nuovo principio; una scoperta, una grande scoperta», continuò. «Vi metterò ancora alla prova. Poniamo il caso che doveste mettere la moquette a una stanza. Ci mettereste una moquette decorata a fiori?».

    Essendosi diffusa, a questo punto, l’impressione che «No, Signore!» fosse regolarmente la risposta giusta, ci fu un coro di No piuttosto forte. Solo sparute unità risposero Sì; e tra queste Sissy Jupe.

    «Ragazza numero venti», disse il burocrate col sorriso sicuro e placido di chi sa.

    Sissy arrossì e si alzò in piedi.

    «E così tappezzeresti la tua stanza – o la stanza di tuo marito, se tu fossi adulta e maritata – con immagini di fiori, non è vero?», chiese. «E perché?»

    «Col vostro permesso, signore, i fiori mi piacciono tantissimo», rispose la ragazza.

    «Ed è per questo che li schiacceresti con tavoli e sedie, e permetteresti che la gente li calpestasse con pesanti stivali?»

    «Ma non sentirebbero male, signore. Col vostro permesso, né sarebbero schiacciati né appassirebbero. Sarebbero soltanto la raffigurazione di ciò che è grazioso e piacevole, e immagino che...».

    «Appunto, appunto, appunto! Tu non devi immaginare», gridò l’uomo, soddisfattissimo d’esser giunto così felicemente al dunque. «Appunto! Non devi mai immaginare!».

    «Mai fare una cosa del genere, Cecilia Jupe», ripeté solennemente Thomas Gradgrind. «Non devi!».

    «Fatti, fatti, fatti!», disse l’ufficiale.

    «Fatti, fatti, fatti!», fece eco Thomas Gradgrind.

    «In ogni cosa dovrai condurti e regolarti, in base ai fatti», continuò il primo, «e speriamo di avere, tra non molto, un Direttivo dei Fatti, composto da Assessori ai Fatti, che costringano la gente a badare ai fatti e a nient’altro. Devi liberarti per sempre della parola Immaginazione. Non ha niente a che fare con te. In nessun oggetto pratico od ornamentale dovrà esserci alcunché di incompatibile coi fatti. Se, di fatto, non cammini sui fiori, non ti sarà permesso di camminare sui fiori d’un tappeto; se, di fatto, non vedi mai strani uccelli e farfalle prendere dimora sulle nostre suppellettili, non ti sarà permesso di dipingerli lì; se, di fatto, non incontri mai quadrupedi che se ne vanno a spasso sui muri; non li si dovrà rappresentare su quegli stessi muri. Per tutti questi scopi dovrai invece usare», concluse l’uomo, «combinazioni e variazioni, nei colori fondamentali, di rapporti matematici suscettibili di prova e dimostrazione. Questa è la nuova scoperta. Questi sono fatti. Questo è il Buon Gusto».

    La ragazza fece una riverenza e sedette. Era ancora una bambina e sembrava come spaventata da quella prospettiva di fattività del mondo che le si offriva.

    «Ora, signor Gradgrind, se il signor M’Choakumchild vuole continuare con la sua prima lezione», riprese, «sarò ben lieto, se volete, di osservarne il metodo».

    Il signor Gradgrind gli si dichiarò obbligatissimo. «Signor M’Choakumchild, aspettiamo solo voi».

    Così, meglio che poteva, il signor M’Choakumchild cominciò. Assieme ad altri centoquaranta maestri, o giù di lì, era da poco giunto alla fine di un processo di tornitura simultanea, nella stessa fabbrica e in base ai medesimi princìpi, come fossero state tante gambe di pianoforte. Aveva sostenuto un numero incredibile di esami e aveva risposto a volumi di domande spaccacervello. Conosceva a menadito l’ortografia, l’etimologia, la sintassi e la prosodia, la biografia, l’astronomia, la geografia, la cosmografia generale, le scienze delle proporzioni composte, l’algebra, la topografia e l’agrimensura, la musica vocale e il disegno dal vero. Aveva percorso un lungo cammino per la strada impervia del Curriculum B dell’Onorevolissimo Consiglio di Gabinetto di Sua Maestà, suggendo il fior fiore dei rami più elevati della matematica e della fisica, del francese, del tedesco, del latino e del greco. Sapeva tutto sugli spartiacque dell’intero globo (qualunque cosa essi siano), sapeva la storia universale, e i nomi di tutti i fiumi e di tutti i monti, i prodotti, gli usi e i costumi, e tutti i confini delle nazioni considerati da tutti e trentadue i punti della bussola. Ah! Forse è troppo, signor M’Choakumchild. Se solo avesse imparato un po’ meno, quanto infinitamente meglio, e più, avrebbe potuto insegnare!

    In questa lezione preliminare, procedette non diversamente da Morgiana in Alì Babà e i quaranta ladroni, esaminando i vaselli schierati innanzi a lui, per vedere, uno dopo l’altro, cosa contenessero. Dite, signor M’Choakumchild. Quando fra non molto avrete riempito del vostro bollente sapere ciascuna di quelle giare fino all’orlo penserete di aver definitivamente ucciso l’Immaginazione che vi è nascosta – quasi fosse un ladro –

    o non vi capiterà di pensare invece, di averla soltanto mutilata e storpiata?

    Capitolo terzo. Uno spiraglio

    Il signor Gradgrind s’incamminò dalla scuola verso casa in uno stato di notevole soddisfazione. Era la sua scuola e voleva che fosse un modello; voleva che ogni suo alunno fosse un modello – proprio come i giovani Gradgrind.

    Cinque erano i piccoli Gradgrind, e ciascuno era un bambino modello. Fin dalla loro più tenera età erano stati messi a studia-re e, come leprotti braccati, non avevano avuto respiro. Non appena erano stati in grado di correre da soli, avevano dovuto correre in aula. Il primo oggetto a cui associassero qualcosa o che in qualche modo ricordassero era una grande lavagna nera e l’Orco rinsecchito che vi tracciava su col gesso spettrali cifre bianche.

    Non che sapessero alcunché né del nome né della natura di un Orco. Sono nozioni che esulano dai Fatti! Uso la parola sem-plicemente per indicare un mostro in una scolastica spelonca, con Dio solo sa quante teste ridotte ad una sola, che trascini per i capelli l’infanzia in cattività nei bui antri della statistica.

    Nessun piccolo Gradgrind aveva mai intravisto, sulla faccia della luna, un viso; della luna sapeva tutto già prima che riuscisse a parlare. Nessuno di loro aveva mai imparato quella sciocca filastrocca: «Stella stellina, la notte si avvicina...». Mai i piccoli Gradgrind avevano provato per esse meraviglia, dal momento che a cinque anni ciascuno di loro aveva notomizzato l’Orsa Maggiore come già il professor Owen e manovrava col Gran Carro come un macchinista con la sua locomotiva. Nessun piccolo Gradgrind aveva mai associato una mucca al pascolo con la famosa mucca della ballata, la mucca dalle corna ritorte, che scaraventò in aria il cane che tormentava il gatto che uccise il topo che mangiava il grano, o con l’ancora più famosa mucca che aveva inghiottito Tom Thumb: non aveva mai sentito di quelle celebrità, e della mucca sapeva solo che era un quadrupede, ruminante, erbivoro, con più di uno stomaco.

    Alla sua solida e concreta dimora, chiamata Stone Lodge, il signor Gradgrind volgeva ora i suoi passi. Egli s’era praticamente ritirato dal commercio all’ingrosso di macchinari prima di costruirsi Stone Lodge, e ora aspettava l’occasione buona per ottenere in qualche modo un posto nel Parlamento nazionale. Stone Lodge s’ergeva in mezzo a una nuda brughiera, a un miglio o due da una grande città, rispondente al nome di Coketown in questa nostra fedelissima guida.

    Stone Lodge era come un tratto regolarissimo sul volto di quella regolarissima campagna, né vi si scorgeva il minimo accenno ad attenuare o velare quell’incontrovertibile fatto del paesaggio. Una grande dimora squadrata, con un pesante colonnato che abbuiava le finestre principali, così come le cispose sopracciglia del suo proprietario ne incavavano ancor più gli occhi. Una dimora interamente frutto del calcolo, sistemata, equilibrata e collaudata. Sei finestre da un lato del portone, sei dall’altro, per un totale di dodici finestre in un’ala e dodici nell’altra, a cui altrettante ne corrispondevano sul retro. Un prato, un giardino, un viale di alberi giovani, tutto allineato e squadrato come in un libro mastro a carattere botanico. L’impianto a gas e di ventilazione, dello scolo e dell’acqua corrente, tutto di primissima qualità. Tiranti e putrelle a prova d’incendio dal tetto alle fondamenta; montacarichi per la servitù, di spazzole e scopettoni armata; e insomma, tutto quello che il cuore può desiderare.

    Tutto? Beh! Almeno sembrerebbe. I piccoli Gradgrind possedevano vetrinette dedicate ai diversi settori scientifici: una per la concologia, una per la metallurgia e una per la mineralogia. Tutti i campioni erano disposti in ordine ed etichettati, e sembrava che quei frammenti di metallici composti fossero stati scalzati dalle rocce originarie per mezzo dei durissimi e tremendi arnesi che erano i loro stessi nomi. Per parafrasare la filastrocca di Peter Piper, che mai, peraltro, era stata recitata nelle loro stanze: se mai i piccoli voraci Gradgrind avessero desiderato di più oltre a questo, cos’altro mai, in nome del cielo, avrebbero potuto desiderare?

    Papà Gradgrind camminava sentendosi fiducioso e soddisfatto. Era un padre affezionato, a modo suo ma se gli fosse stata chiesta, come a Sissy Jupe, una definizione, egli si sarebbe definito piuttosto come un padre «eminentemente pratico». Andava molto orgoglioso dell’espressione «eminentemente pratico», che riteneva avesse, in relazione a se medesimo, una particolare rilevanza. Qualsiasi assemblea pubblica si tenesse a Coketown, qualunque ne fosse l’oggetto, immancabilmente qualche suo benemerito cittadino coglieva al balzo la prima occasione buona per alludere all’eminentemente pratico amico Gradgrind. E questo faceva sempre piacere all’eminentemente pratico amico. Sapeva che questo gli era dovuto, e per tale l’accettava.

    Il signor Gradgrind aveva raggiunto quell’indefinibile territorio alla periferia della città che non era né città né campagna, prendendo però gli aspetti peggiori di entrambe, quando il suo orecchio fu colpito dal suono di una musica. Nello strepito e clamore degli strumenti la banda di un circo equestre, che s’era accampata lì in un padiglione di legno, era in piena azione. Una bandiera sventolava sulla sommità di quel tempio, proclamando al mondo intero che il «Circo Sleary» li invitava allo spettacolo. Sleary in persona, ben piantato e come una vera statua dei nostri tempi, faceva da cassiere con la cassetta del denaro ad un fianco, in una nicchia di gotica architettura ecclesiale. La signorina Josephine Sleary, come annunciavano manifesti di foggia curiosamente lunga e stretta, proprio allora apriva lo spettacolo con la scenetta della piccola fioraia alpigiana. Tra le altre meraviglie, divertenti eppure d’irreprensibile moralità – e bisognava vederle per crederci – il Signor Jupe avrebbe «dato un saggio delle stupende doti del suo addestratissimo cane Merrylegs», quello stesso pomeriggio. Si sarebbe anche cimentato nello «stupendo numero del lancio in rapida successione e a rovescio di settantacinque pesi da cinquanta chili ciascuno, formando così sopra la propria testa una fontana di solido ferro: un numero mai tentato prima né in questo né in altri paesi, e che, salutato dagli sperticati applausi di folle entusiaste, era giocoforza riproporre al pubblico». Il medesimo Signor Jupe avrebbe poi ravvivato lo spettacolo con frequenti intervalli di morigerate «battute ed epigrammi tratti da Shakespeare».

    Infine, avrebbe concluso il tutto nei panni del suo personaggio favorito, William Button di Tooley Street, nella «nuovissima e divertentissima ippocommedietta de Il galoppo del sarto di Brentford».

    Thomas Gradgrind, naturalmente, non badò affatto a queste sciocchezze ma continuò sulla sua strada come un uomo eminentemente pratico deve fare dopo aver scacciato tali insetti fastidiosi dai suoi pensieri o dopo averli confinati in un Istituto di Correzione. Tuttavia la curva della strada lo condusse sul retro del padiglione, dove s’era raggruppato un certo numero di ragazzi che, in svariate pose furtive, s’adoprava in ogni modo di sbirciare le nascoste glorie di quel luogo.

    Questo l’indusse a fermarsi. «E pensare che questi vagabondi», disse, «allettando quella giovane marmaglia la distolgono da una scuola modello».

    Dal momento che tra lui e quella giovane marmaglia s’estendeva ancora un tratto di erba rinsecchita e di rifiuti, tirò fuori gli occhiali dal panciotto per vedere se, riconoscendo qualcuno, potesse scacciarlo via. Ma, fenomeno quasi incredibile benché l’avesse sotto gli occhi, cosa vide allora se non la sua metallurgica Luisa che sbirciava assorta attraverso il buco di una tavola, e il suo matematico Thomas quasi sdraiato a terra per poter scorgere almeno uno zoccolo della graziosa scenetta equestre della piccola fioraia alpigiana!

    Ammutolito dalla sorpresa, il signor Gradgrind avanzò sul luogo dove si consumava la vergogna della sua famiglia, e afferrando entrambi quei figli traviati esclamò:

    «Luisa! Thomas!».

    Quelli si rialzarono, rossi e confusi, ma Luisa sostenne lo sguardo del padre con più fermezza di Thomas. Per la verità, Thomas non lo guardò affatto, il padre, rassegnato a farsi ricondurre a casa come un oggetto.

    «Per tutti i capricci e le fanfaluche generati dall’ozio!», sbottò il signor Gradgrind trascinandoli via per mano; «cosa ci fate qua?»

    «Volevamo vedere com’era», rispose indomita Luisa.

    «Com’era?!».

    «Sì papà».

    Avevano entrambi un’espressione di tristezza e abbattimento, Luisa in modo particolare. E tuttavia, su quel volto insoddisfatto traspariva, ad illuminarlo, una luce di desiderio, un fuoco che voleva ardere di qualcosa, una immaginazione che, pure alla fame, restava viva. Non era la luce di una gioventù allegra e spensierata ma piuttosto quella di lampi incerti, vividi e dubbiosi, commisti a un che di doloroso, simile ai rapidi trapassi d’espressione sul volto di un cieco che cerchi a tentoni la sua strada.

    Era adesso una ragazza di quindici o sedici anni, ma un giorno abbastanza prossimo d’un tratto sarebbe diventata donna. Questo pensava il padre mentre la osservava. Graziosa lo era, e sarebbe stata anche di carattere indipendente (così pensava nella sua eminente praticità il padre), se non fosse stato per l’educazione ricevuta.

    «Thomas, benché sia un fatto evidente, stento a credere che tu, con la tua educazione e le tue qualità, abbia potuto condurre tua sorella in un luogo simile».

    «Io l’ho portato qui, papà», interloquì Luisa. «Gli ho chiesto io di venire».

    «Mi addolora sentirtelo dire. Mi addolora veramente sentirtelo dire. Non migliora la situazione di Thomas e peggiora la tua, Luisa».

    Guardò di nuovo suo padre ma nessuna lacrima le scivolò sulle guance.

    «Tu! Tu e Thomas, avviati sulla strada delle scienze; tu e Thomas, nutriti di fatti, si può dire; tu e Thomas, educati all’esattezza matematica; tu e Thomas qui! In una situazione così degradante!», gridò il signor Gradgrind. «Sono esterrefatto».

    `

    E che sono esausta, papà. E già da tanto che mi sento esausta», disse Luisa.

    «Esausta? E perché?», domandò sorpreso il padre.

    «Non lo so neanch’io... per tutto, forse».

    «Non una parola di più», replicò il signor Gradgrind. «Sei una sciocca. Non voglio sentire altro». E non aggiunse altro, camminando in silenzio per un mezzo miglio circa, per poi prorompere gravemente: «Che cosa direbbero le tue migliori amiche, Luisa? Non te ne importa niente? E cosa direbbe il signor Bounderby?».

    Sentendo quel nome, la figlia gli lanciò un’occhiata in tralice, strana nella sua intensità scrutatrice. Lui non se ne accorse, giacché prima che la guardasse lei aveva già riabbassato lo sguardo!

    «Cosa direbbe il signor Bounderby!», replicò ancora. E scortando a casa indignatissimo quei due reprobi, per tutta la strada fino a Stone Lodge continuò a ripetere a intervalli: «Cosa direbbe il signor Bounderby!», come se il signor Bounderby fosse stato la malalingua per antonomasia.

    Capitolo quarto. Il signor Bounderby

    Ma, se non era proprio una malalingua, chi era allora il signor Bounderby?

    Beh, il signor Bounderby era tanto vicino all’essere l’amico del cuore del signor Gradgrind quanto un uomo perfettamente privo di sentimenti può accostarsi a quella relazione spirituale con un uomo altrettanto perfettamente privo di sentimenti. Tanto il signor Bounderby era vicino al signor Gradgrind, o, se il lettore preferisce, ne era lontano.

    Era un uomo ricco: un banchiere, un mercante e quant’altro. Era un uomo grande e grosso, dalla voce stentorea, occhi in fuori e risata metallica; un uomo fatto di panno grezzo, che pareva aver raggiunto quell’aspetto come effetto di tiraggi; uno dal testone enorme, con le vene in rilievo sulle tempie e la pelle del viso così tirata che sembrava tenergli a viva forza aperti gli occhi e sollevate le sopracciglia; uno dall’aspetto enfiato, come un pallone aerostatico prima della partenza e lì lì per sganciarsi; uno che non ne aveva mai abbastanza di vantarsi di essersi fatto da sé; uno che, usando la sua voce come un trombone, proclamava in continuazione quant’era stato ignorante e povero un tempo. Insomma, il Campione dell’Umiltà.

    Di un anno o due più giovane del suo eminentemente pratico amico, il signor Bounderby sembrava più vecchio. Ai suoi quarantasette o quarantotto anni altri sette o otto se ne sarebbero potuti aggiungere senza destare la sorpresa di nessuno. Non aveva molti capelli. Si poteva immaginare che gli fossero caduti a forza di parlare, e che i pochi residui, dritti e arruffati, si trovassero in quella condizione perché investiti di continuo dai turbini delle sue vanterie.

    Nel salotto di rappresentanza di Stone Lodge, in piedi davanti al camino e scaldandosi al fuoco, il signor Bounderby partecipava alla signora Gradgrind alcune considerazioni in merito all’essere, quel giorno, anche il suo compleanno. Stava in piedi davanti al fuoco un po’ perché, in quel pomeriggio di primavera, faceva piuttosto fresco, nonostante il sole; un po’ perché l’ombra di Stone Lodge era tormentata dai soffi della calce ancora umida; un po’ perché assumeva così rispetto alla signora Gradgrind una posizione dominante, da cui poteva tenerla in soggezione.

    «Non avevo una scarpa che è una. E quanto ai calzini, non sapevo neanche cosa fossero. Passai quel giorno in un fosso e la notte in un porcile. Ecco come passai il mio decimo compleanno. Ma il fosso non era per me una novità, dal momento che ci sono nato».

    La signora Gradgrind, una donnina esile, pallida, con gli occhi arrossati, avvolta in un mucchio di scialli, eccezionalmente debole sia nel corpo che nella mente, che prendeva medicine in continuazione senza alcun risultato e che veniva sistematicamente stordita, ogniqualvolta accennava a scuotersi, da una pesante scarica di fatti che le si rovesciava addosso; la signora Gradgrind sperava almeno che si trattasse di un fosso

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