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Il segno della tempesta
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E-book384 pagine5 ore

Il segno della tempesta

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Info su questo ebook

Cosa faresti, se riuscissi a sentire le emozioni degli altri come se fossero le tue? Questa è la capacità di Lea Schneider, per lei spaventosa e che le trasforma l'adolescenza in un incubo. Ma quando credeva ormai di essersi lasciata alle spalle quel periodo difficile, la sua empatia torna a manifestarsi con forza. Lea sceglie allora di reagire con un viaggio alla ricerca della verità sul suo conto.
Ciò che non sa è che quel viaggio ‒ come il suo dono ‒ fa parte di un disegno più grande. Chi è Sven, il ragazzo senza passato dotato di capacità ben più potenti delle sue? Nuove forze scoprono le carte di una partita antica, di cui i due giovani sono il fulcro. Mentre un portale tra i mondi rischia di essere profanato, Lea e Sven dovranno trovare il coraggio di affrontare le proprie paure e fare la scelta giusta. Perché Ragnarök, il crepuscolo del mondo, si avvicina.

“Chi legge questo romanzo viene catapultato altrove, in un mondo fantastico che nessuno ha mai osato avvicinare alla nostra realtà. Leggendolo mi sono ritrovata a vivere le emozioni dei miei 20 anni.” (Sale & Pepe, letture da gustare)

“Francesca Noto è una professionista della scrittura e questo si capisce immediatamente leggendo il suo romanzo d’esordio.” (Italnews)

“Per chi ama il genere fantasy questo romanzo ha tutti gli ingredienti per essere apprezzato. Benché sia un’opera autoconclusiva, rimane il desiderio di scoprire altro su questi personaggi che sicuramente potrebbero avere intriganti avventure che possano ancora lasciare i lettori con il fiato sospeso.” (Les Fleurs du Mal)

“Francesca Noto è insieme scrittrice ma anche pittrice in questo romanzo, riuscendo con le parole a dipingere paesaggi, soggetti, emozioni, stati d’animo, riflessioni e gesti in modo da renderli lentamente ma inesorabilmente reali agli occhi del lettore.” (Recensioniamo)
LinguaItaliano
Data di uscita18 apr 2016
ISBN9788899768096
Il segno della tempesta

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    Anteprima del libro

    Il segno della tempesta - Francesca Noto

    Francesca Noto

    Il segno della tempesta

    Fantasy romance

    I Edizione aprile 2016

    ©2016 Astro edizioni Srls, Roma

    www.astroedizioni.it

    info@astroedizioni.it

    ISBN: 978-88-99768-09-6

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Pierluigi Guerrucci

    Supervisione editoriale:

    Stefano Mancini

    Copertina:

    Livia De Simone

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione,

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    A Mila, il mio Angelo

    "Ed ecco, Valoisa e Valkea daranno alla luce un figlio, che sarà la rovina dell’Antico.

    Guardati da loro, ché non sia minato il trionfo finale di Thurs, nella gloria della sua rinascita.

    Risveglia i nodi. Temi la tempesta, e il suo guerriero".

    Hyle Sonder, frammento della Profezia del Nero.

    "Sotto l’ultimo sole, essi alfine si riuniranno.

    Il freddo strale degli antichi dei e la lama spezzata che attinse dal fiume del caos.

    Il lupo del Nord si farà muto e la notte giorno;

    il sangue si riverserà sui padroni, e ogni crimine verrà vendicato".

    Mathyas Winterbaar, La Guerra Eterna, IV Tomo.

    Prologo

    Il cielo aveva la tonalità opaca e polverosa di una tavola d’ardesia. Non c’era luce che potesse filtrare attraverso quel nero lavagna, sporco come l’anima di un peccatore, denso di nuvole di tempesta. Tranne che per i lampi. O erano soltanto i riflessi sconvolti delle luci della città? Gli sembrò strano riuscire a vedere quei particolari, attraverso la consapevolezza dolente di quelli che potevano essere i suoi ultimi istanti nel mondo dei vivi.

    Non riusciva più a muoversi. Aveva tentato, aveva lottato. Ma erano in troppi. Non c’era stata fuga possibile, fin dal primo istante. Fin da quando lui l’aveva fissato dritto in volto, con quei suoi occhi freddi, gli occhi di un cobra conscio del proprio veleno mortale, e gli aveva intimato di scegliere.

    «O lei, o te. Decidi». Le parole che nessuno vorrebbe mai sentir pronunciare nella propria vita.

    Sarebbe potuto fuggire, a quel punto. Ne aveva avuto la possibilità. Aveva capito, con la certezza nitida e chiara di un’immagine su uno schermo ad alta risoluzione, che sarebbe stato in grado di dileguarsi, di far perdere ancora una volta le sue tracce. In fondo, era conscio che non era lei la ragazza che stava cercando. Forse era così che sarebbe dovuta andare. Ma lo sapevano entrambi che era già finita, a quel punto. Non era fuggito.

    «Lasciala stare, non è lei che vuoi». Così, aveva decretato la propria fine.

    Il dolore era qualcosa di profondo, denso, concreto. Piombo fuso nelle sue vene, pesante, lacerante. Ogni respiro era come una fiammata di ritorno nei suoi polmoni. Intorno a lui quelle sagome immobili, svettanti, intabarrate di nero. Le sbarre della sua ultima prigione, fantasmi oscuri, uniti da un’energia vibrante che contribuiva al suo tormento. Il suo sangue sulla neve, in quella notte illuminata soltanto dal rosso cupo delle torce piantate nella radura, sembrava macchiarla di vernice densa, come fosse una finzione, la scena costruita di un film.

    Ma non era un film. Era la realtà, una realtà distorta dalla sofferenza che stava provando. Dalla consapevolezza di aver fallito. Lo vide incombere su di lui, schiacciarlo con il proprio peso, insaccandogli le ossa rotte. Schiuse le labbra in un gemito, rauco come il sibilo di un mantice rotto, troppo stremato, credeva, per urlare ancora.

    «È finita. Avresti dovuto pensarci prima. Avresti dovuto scegliere con più astuzia da che parte stare, e non puoi dire che non ti abbia avvertito. Ma sei solo... e morirai da solo, Valoisa, con la runa di Thurs incisa sul cuore. Questo è il tuo wyrd». La sua voce era come mercurio, liquida, cromata, veleno concentrato in ogni sillaba che pronunciava.

    «Vai all’inferno...», ebbe la forza di pronunciare, inghiottendo una boccata di sangue. Parole appena udibili, che si persero in un debole rantolo. «Questo è il tuo wyrd, figlio di puttana!».

    «Certo, tu comincia pure a mostrarmi la strada, intanto», ribatté l’altro, con una bassa risata malevola. «Perché Valoisa muore stanotte».

    L’uomo sollevò la mano. Stringeva qualcosa nel pugno, qualcosa di allungato e scintillante. Era il bagliore dei lampi, o la sua mano a brillare di una sinistra aura opalina? Non ebbe il tempo di chiederselo. Vide il braccio di lui fermarsi all’apice, e poi calare in un affondo violento. Sentì la punta metallica piantarglisi nel petto, penetrare sopra la clavicola sinistra, inchiodandolo al suolo. Sgranò gli occhi, inarcando la schiena in un movimento convulso, mentre quello che aveva creduto il limite massimo del dolore raggiungeva un livello nuovo, proiettandolo in un baratro ancora più profondo. Fu allora, fissando con i propri occhi sconvolti quelli del suo avversario, che comprese che, per quanto potesse sembrare impossibile, la sua sofferenza era soltanto all’inizio.

    Scoprì in quel momento che era ancora in grado di urlare.

    1

    Sul muro campeggiava un graffito azzurro. Sky, diceva, anche se le lettere alte mezzo metro non erano ben riconoscibili. Avevano gli orli blu, arricciati in modo strano, e stelle bianche ai bordi, come a far intendere che la scritta avrebbe dovuto scintillare sotto la luce.

    Sarebbe bello vederlo sotto il sole, pensò Lea, fissandolo. Ma non avrebbe mai visto il sole, quella scritta; era graffita sulla parete di una fermata della metro. La luce al neon sembrava sporca.

    Venerdì sera, a mezz’ora da casa, più o meno. E quel maledetto treno non partiva. Il vecchio scooter era un’altra volta dal meccanico. Avrebbe fatto a meno dei mezzi pubblici, altrimenti. Voleva evitare il rumore di fondo di tutte quelle emozioni sconosciute. Cercò di non pensarci, mentre le porte automatiche della vettura si chiudevano con uno sbuffo metallico, e il treno si metteva in moto. Lea sospirò di sollievo.

    Il quadrante dell’orologio segnava le 18:35. Poteva sperare di essere a casa intorno alle sette. Una prospettiva allettante, dopo aver passato un giorno intero in una biblioteca, ad ascoltare emozioni attutite, come un brusio di sottofondo che non taceva mai. Gente di cui non le importava nulla.

    Zoe le aveva lasciato un messaggio, che lampeggiava sullo schermo del cellulare. La chiamò dopo una doccia bollente.

    «Ehi, tu».

    «Schneider! Sei libera stasera? Scommetto che te ne stai rintanata in quella mansarda da un secolo! Deve venire a prenderti David Tennant col tardis?».

    «Vuoi scherzare? Non che mi dispiacerebbe, intendiamoci», rise lei. «Comunque, niente Tennant. Sono libera. Che proponi?».

    «Cena giapponese e dopocena a Campo dei Fiori, ti va?».

    «Okay», approvò, annuendo. «Ma non Campo dei Fiori. Andiamo da qualche parte senza la folla, ci stai?». Sapeva che era una causa persa già mentre le faceva quella richiesta, conoscendola. Ma ci provò comunque. «Facciamo alle nove?».

    «Certo! A dopo».

    Zoe la aspettava nella sua vecchia Ford Fiesta blu, allegra e sorridente come al solito. In un flusso costante, le emozioni positive dell’amica riuscivano sempre a risollevare l’animo di Lea. Energia pura, di quelle che non potevano non lasciare il segno. O almeno, non lasciarlo in lei. Le emozioni della gente erano sempre state un libro aperto. Quando era piccola, si era convinta di poter leggere nel pensiero. Di essere una telepate, come quelli dei fumetti. Poi aveva capito che doveva essere solo un fatto di particolare sensibilità. O di una qualche forma di psicosi latente e mai diagnosticata. Con Zoe, e con la gente come lei, si sentiva quasi una specie di vampiro, talvolta, un vampiro di emozioni. Pronta a usare quelle degli altri per sentirsi meglio. Adesso meno che negli anni precedenti, ma succedeva. Continuava a succedere.

    «Come scotti!», esclamò Zoe, rimettendo le mani sul volante, dopo averla baciata sulle guance.

    Lea sorrise, guardandola. Era sempre la stessa, i capelli corti e neri sparati in tutte le direzioni, il trucco appena accennato, il piccolo tatuaggio con la scritta Tomboy dietro un orecchio, in parte nascosto dalle ciocche corvine. E i pomelli rossi come le mele della Regina cattiva, per il freddo di fuori.

    Il locale dove avevano deciso di cenare era al centro, in un vicoletto interno.

    «Ti va di fare due passi?», propose l’amica, facendo per svoltare in un parcheggio a pagamento. «Siamo un po’ lontane, se mi fermo qui».

    «No, va benissimo. Ho bisogno di muovermi», replicò Lea. E se la sentiva addosso, quella necessità. Era dal pomeriggio, che quelle sensazioni l’avevano attanagliata senza più mollare la presa. Pensieri che non riusciva ad afferrare, emozioni che non riusciva a capire. Un senso di vago disagio, che le era piombato addosso come un’insoddisfazione pesante, un’irrequietezza che le faceva riverberare addosso le emozioni altrui come non le succedeva da anni. Non riusciva a capire cosa stava succedendo, ma pensò che una passeggiata nell’aria frizzante dell’inverno le avrebbe dato una mano a schiarirsi le idee.

    Faceva freddo, e il tratto da coprire a piedi era abbastanza lungo. Le due ragazze camminavano veloci, fianco a fianco. I tacchi risuonavano sul selciato, intorno a loro la gente passava a gruppi. Era una bella serata, una limpida sera invernale. Si respirava un’aria di felicità, di bizzarra speranza. Gli alberi ancora senza foglie avevano profili netti e precisi contro il cielo nero, mentre le luci calde dei negozi e dei ristoranti risplendevano a contrasto nella strada piena di vita.

    "Perché non ci si può accontentare di vivere?", si domandò Lea, sorridendo a Zoe che continuava a chiacchierare senza sosta, riversandole addosso la sua energia positiva, come un invisibile flusso rigenerante. Perché è giusto dare ascolto a quello che senti, e compiere la missione a cui sei stata chiamata, non solo vivere, le diede la risposta una voce calma, dentro di sé. La voce che c’era sempre stata. E che aveva voluto dimenticare.

    Si chiese se fosse giusto esprimerli, certi pensieri, perché nel momento in cui l’avesse fatto, avrebbe dato loro un nome, invitandoli nella realtà delle cose, tramutandoli in verità concreta, da semplice fumo latente che erano. Si chiese se avessero il diritto di diventare veri e cambiare tutto, o se dovesse continuare a vivere la sua vita al solito, una vita che, se l’era sempre sentito dentro, alla fine restava a metà, come un salto non compiuto. Un volo spezzato per timore di cadere prima di raggiungere il cielo.

    Non credeva che avrebbe mai dato loro quel diritto.

    Invece fu in quella notte d’inverno.

    Decise di lasciare che fossero reali, e prese la strada difficile.

    2

    L’orologio segnava le 02:10 del sabato mattina, quando si chiuse alle spalle la porta della mansarda, facendo tintinnare le chiavi nella borsa. Non aveva sonno. Si chiese se non fosse per tutta la gente che affollava il locale dove alla fine Zoe l’aveva trascinata, e per il modo in cui avvertiva, sempre di più, l’influenza diretta dei loro stati d’animo.

    Le sembrava di essere tornata ai tempi strani e terribili dell’adolescenza, quando quella sua particolare sensibilità era diventata un incubo. Gli anni che ricordava come i peggiori della sua vita. Gli anni bui, li chiamava, le poche volte in cui si sentiva così masochista da volerli rievocare. Erano gli anni in cui lei e sua madre si erano trasferite a Roma da Sterzing, gli anni del passaggio, quello concreto del trasloco e quello tumultuoso della crescita, di un corpo che cambiava ogni giorno e di un riflesso allo specchio che non le sembrava più il suo. Quando le solitudini serene di un paesino di montagna erano diventate il caos di troppa gente intorno. Bastava un insegnante di cattivo umore per gettarla nel panico, o il litigio con una compagna di classe per farle provare una rabbia così violenta da farle temere che sarebbe impazzita.

    Per un po’, aveva creduto davvero di avere problemi mentali. Ma tutti avevano sempre pensato che fosse una reazione normale, dovuta alla morte prematura di suo padre, stroncato da una malattia che l’aveva consumato come un incendio tra le stoppie, in pochi mesi, quando lei aveva appena dodici anni. E nel terrore che si accorgessero che il suo disagio era ancora più profondo di quanto non sembrasse, aveva sopportato in silenzio, lottando per chiudere fuori quelle emozioni esterne, quelle sensazioni che troppo spesso finivano per diventare le sue. Alla fine, dopo il fuoco violento dell’adolescenza, il fenomeno si era attutito, così come il suo dolore. All’accettazione di quella perdita, alla vera e totale elaborazione di quel lutto, non riteneva di essere mai giunta. Ma aveva raggiunto un equilibrio, e se l’era tenuto stretto.

    Ora, quell’equilibrio sembrava sul punto di incrinarsi ancora. Come se quel qualcosa l’avesse lasciata in pace per qualche anno solo per venire infine a riscuotere il conto. Emozioni non sue, pensieri che coglieva, casuali e incomprensibili. Ecco come si sentiva, a volte. Come una radio non sintonizzata, che riusciva a percepire soltanto spezzoni di musica e parole, in mezzo a un mare di statica.

    Aprì il frigorifero senza neanche accendere la luce nella minuscola cucina della mansarda, socchiudendo gli occhi quando la lama di luce fredda li colpì, e pescò una lattina di Burn, aprendola con un click metallico, mentre scalciava via gli stivali e andava a sprofondarsi sul divano. Niente luce, tranne quella che proveniva dalla vetrata del soggiorno. La pressione delle emozioni altrui cedeva, in quella solitudine malinconica e perfetta. Era fatta per restare da sola? Non una delle sue relazioni aveva mai funzionato, fino a quel momento, dalle prime, imbarazzanti scuffie adolescenziali ai tentativi più maturi, ma non meno disastrosi, dei tempi dell’università. Era arrivata alla conclusione che forse era meglio aspettare. Che cosa, chi... non lo sapeva neanche lei.

    Posò sul pavimento la lattina finita a metà, in bocca ancora quel sapore dolciastro, frizzante, tra fragola e chissà cosa. Restò in ascolto. Si perse. Ma dopo un po’, come attirata da un magnete, la mente tornò al centro, a focalizzare quel criceto affannato che si agitava all’altezza del plesso solare, là dentro, tra lo stomaco e il petto.

    Lo stato d’animo che le aveva permeato i sensi per tutta la serata non cambiava. Ingigantiva, anzi, di minuto in minuto. Credette di soffocare. Si raddrizzò sul vecchio divano, le cui molle cigolarono in un principio di protesta. Inspirò, con la sensazione che l’aria si bloccasse da qualche parte a metà strada, senza permetterle di riempire i polmoni a dovere. Non poteva andare avanti così.

    E fu la domanda più semplice e istintiva ad affacciarsi nella mente che girava a vuoto. Era un piccolissimo punto interrogativo, in fondo, quella domanda. Sei felice?.

    E di colpo, fu come se tutto il castello di carte le crollasse addosso.

    No.

    Certo che non lo era.

    Era così semplice far crollare tutto?

    Una voce calma e dolce, dentro di lei, lo diceva a chiare parole: C’è qualcos’altro che devi fare, prima che la vita si consumi e sia troppo tardi. C’è qualcos’altro.

    La soluzione, di colpo, sembrava ancora più semplice: cambiare. Cambiare strada. Cambiare tutto.

    Un brivido le partì dalla base della schiena, invadendola, arrampicandosi su fino alla nuca con gelide zampette di ragno.

    Ci pensò. In apparenza, nessuno dei tasselli che componevano il puzzle della sua vita era brutto, o triste, o così sbagliato. Poi ci pensò meglio. E vide la sua consapevole chiusura nei confronti del mondo. Il modo in cui la pressione esterna la stava logorando. Come tutte quelle emozioni, tutti quei pensieri non suoi, prima o poi sarebbero riusciti a sfondare la sua barriera di costruita indifferenza, mandandola in pezzi. E allora, ogni cosa sarebbe crollata davvero, per sempre. E della Lea Schneider che conosceva, o che credeva di conoscere, non sarebbe rimasto più niente.

    Non era una decisione improvvisa, capiva anche questo. Era quasi arrivata al punto di non ritorno, lo aveva oltrepassato, aveva cercato di andare ancora avanti, e poi bang, all’improvviso si era resa conto che non andava più bene niente. Che non era quella la vita che doveva vivere. Non è il destino a cui dovevi andare incontro, questo diceva la voce, da qualche parte dentro la sua testa.

    Si era illusa di poter resistere e anestetizzare per sempre la mente, ma non funzionava. Quindi...

    basta!

    Ecco, la sua mente aveva gridato basta. Non voleva più continuare a costruirsi degli alibi, intorno a un castello di carte che pretendeva di essere un bunker indistruttibile. Non aveva fatto altro che costruire un castello di carte, in tutti quegli anni. Aveva ammassato carte da gioco l’una sull’altra, fragili cartoncini che si tenevano su per miracolo, e aveva finto che fossero pilastri di cemento armato. Invece, per farlo crollare era bastata la piccola domanda innocente che avrebbe potuto farle un qualsiasi bambino per strada, guardandola in faccia.

    Sei felice?.

    No.

    Era così ovvio che le venne da ridere, e poi subito pensò che sarebbe scoppiata in lacrime. Che cosa avrebbe fatto? In quel momento fu facile pensare che forse non avrebbe fatto niente. Non avere coraggio era più semplice. Ed era più spaventoso.

    Si svegliò verso le cinque del mattino, lucida e con una fame terribile. Si trascinò in cucina a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. In frigo c’era un cartone di latte, a cui si attaccò senza neanche prendersi la briga di cercare un bicchiere. E poi c’era una fetta di torta alla crema che le aveva portato qualche giorno prima sua madre, di passaggio.

    Fu mangiando quella torta mentre guardava distratta il notiziario alla tv che le venne da pensare a sua madre. Per la torta, o forse perché l’aveva sognata. Era certa di aver sognato qualcosa, uno di quei sogni che sul momento sono nitidi e chiari, ma che iniziano a sbiadire pochi secondi dopo aver aperto gli occhi. Non ricordava più. Aggrottò la fronte, prendendo un altro sorso di latte e mollando un morso alla fetta di torta, ormai quasi ridotta in briciole su un piatto di plastica rossa. Sullo schermo passavano le immagini di una foresta pluviale vista dall’alto. Le innescarono qualcosa dentro.

    Everglades.

    Un flash vago, forse collegato al sogno dell’alba. Sua madre che raccontava di un viaggio: «Lea, sei stata concepita in Florida. Papà voleva tanto vedere le Everglades...».

    Un viaggio. Molla tutto e parti.

    Quella voce le sembrò arrivare dal nulla. O da qualche punto profondo dentro di lei. Non aveva molto senso, ma se ne rimase lì a masticare, con un’espressione pensierosa sul viso spruzzato di efelidi chiare. Con la sensazione di dover ascoltare quella voce. E che la soluzione dei suoi problemi, di tutte quelle riflessioni che l’avevano tenuta sveglia per ore, si concentrasse lì, in quel semplice pensiero rivoluzionario.

    Un viaggio. Molla tutto e parti.

    Il verde delle foglie, nelle immagini sullo schermo, era vivido e brillante. Faceva venire voglia di toccarlo, di sentirne la lucida, serica consistenza sotto le dita. Nere mangrovie luccicanti si aggrovigliavano a pelo d’acqua...

    Everglades.

    3

    Il vicolo era illuminato soltanto da un neon crepitante sul punto di tirare le cuoia, che gettava una luce fredda sulla scena. L’alto uomo biondo se ne stava nell’ombra, in silenziosa attesa, le spalle larghe appoggiate al muro di mattoni pieno di graffiti sbiaditi, un ginocchio sollevato e la suola isolante di un anfibio pieno di borchie premuta contro la parete. Aveva una posa di apparente relax. La luce incerta del neon rendeva ancora più chiari i ciuffi color platino che gli incorniciavano il volto scavato, dove ombre profonde si annidavano sotto agli occhi. La sottile spirale di fumo grigio che si dipartiva dal led rosso, bruciante nella semioscurità, mostrava il punto in cui il vento che si incuneava nel vicolo stava consumando, al posto delle sue labbra, una sigaretta accesa. Oltre l’imbocco del vicolo, le luci fioche di Opa Locka non rendevano più semplice distinguere i movimenti nel raggio di pochi metri dalla piccola isola, illuminata dal neon mezzo morto.

    Una figura si infilò rapida nello stretto passaggio, facendo fuggire via un grosso gatto da dietro un cassonetto, con un sordo clangore metallico. Per un attimo, l’animale si bloccò al centro del vicolo, il pelo arruffato e nero dritto sulla groppa, la coda gonfia che lo faceva sembrare più minaccioso e gli occhi simili a due smeraldi scintillanti nel buio. Poi saltò via, si arrampicò su una grondaia e sparì.

    «Rachel?», la voce dell’uomo era bassa, graffiata, come ghiaia smossa su un sentiero di montagna.

    La figura si avvicinò. Era esile, minuta, sul metro e sessanta di statura. E quando si lasciò scivolare sulle spalle il cappuccio della felpa troppo grande per lei, il volto che rivelò era quello tondeggiante di una ragazzina che non poteva avere più di sedici anni.

    «Ash». Una voce limpida, in totale contrasto con quella di lui. Si fece avanti di qualche altro passo, fermandosi di fronte all’altro, che la sovrastava di una buona trentina di centimetri. «Stai bene? Kenneth mi ha detto che hai avuto problemi con i Fjandar. Allora è vero che si stanno muovendo?».

    L’uomo si strinse nelle spalle ampie.

    «Stronzate. Non ho avuto problemi. È stato solo uno scontro di confine, e non credo che ci sia così tanto da allarmarsi. Ken si preoccupa sempre troppo».

    «Lo sai che di solito quello che vede non sono stronzate, Ash. Comunque, sono contenta che tu stia bene».

    L’alto uomo biondo annuì. Nel movimento, fu ben visibile per un attimo la vecchia cicatrice sbiancata dal tempo che gli attraversava in verticale una guancia scavata, e l’accenno selvatico di barba biondastra sulle sue mascelle scintillò in controluce come un pulviscolo dorato.

    «Perché mi hai fatto venire fino a qui? Deve essere una cosa importante, o almeno, me lo auguro per te», commentò, dando alla sua voce un leggero tono più cupo, quasi volesse farle intendere che le aveva fatto un grosso favore, a presentarsi a quell’appuntamento.

    «Non ti avrei fatto schiodare da Hell’s Kitchen, altrimenti. Senti, lo so che ti sembrerà difficile crederlo, ma Ken è convinto che la Fenice sia ancora in giro. E che i movimenti dei Fjandar dalle tue parti lo confermino».

    «Sono passati quasi sei anni, Rachel», obiettò l’uomo, in tono piatto. «E non siamo arrivati in tempo, quella notte. Il wyrd ha girato. L’occasione è andata, per ora, e forse in assoluto. Sapete tutti come la penso, continuare a coltivare certe speranze è soltanto una perdita di tempo e di energie, mentre dovremmo concentrarci su...».

    «Ashur. Non è un’ipotesi priva di fondamento. Possiamo ancora trovarlo, e garantire che questo Punto nodale non venga attivato. Hai visto anche tu quanto ci eravamo andati vicini, grazie alle visioni di Ken. Se l’avessimo ascoltato prima...».

    «Ha delle prove, qualcosa da cui partire? O siamo alla solita caccia alle ombre? Vorrei che quelle sue maledette visioni fossero più precise, e scusa tanto se non mi accontento».

    La ragazzina si strinse nelle spalle, sbuffando. «Pensi che non lo vorrebbe anche lui? Però dice che è ancora a New York, per quello ti ho voluto incontrare. Lo sai che ci sono cose che è meglio dirsi di persona».

    «Quindi ci sarebbe rimasto sotto il naso per più di cinque anni, senza che ce ne accorgessimo?», borbottò lui, scuotendo la testa. «Senti, Rachel, mi sembra la più grande idiozia che...».

    «Neanche loro se ne sono accorti. Sono convinti che sia morto. C’è qualcosa che ci impedisce di individuarlo. Ma se Ken ha ragione, non possiamo lasciare niente di intentato».

    «Quindi, cosa propongono di fare?».

    «Di tenere gli occhi aperti, per adesso. Potrebbero esserci sviluppi ulteriori, e non dobbiamo permettere che arrivino a lui prima di noi, questa volta. Se davvero è nella tua zona, puoi intercettarlo in tempo. Credo che dovremmo ripercorrere le indagini, ancora una volta». Dal tascapane di tela grigia che portava a tracolla, tirò fuori una chiavetta usb di un improbabile viola fluorescente. «Ho raccolto per te le ultime ricerche che Ken ha inserito nel database».

    Lui prese il piccolo oggetto, inarcando un sopracciglio, perplesso mentre se lo rigirava tra le dita, prima di farlo sparire nella tasca del giubbotto di cuoio imbottito. «C’è qualcosa che già non so, qua dentro?», mugugnò, scettico. «Io credo che non vi siate ancora rassegnati all’evidenza. Lo scontro per il Punto modale non...».

    «E io credo che tu sia il solito dannato pessimista, Ash», lo rimbeccò la ragazzina, interrompendolo prima che potesse concludere la frase. «E comunque, non è tutto».

    «Che c’è, ti sei tenuta la notizia bomba per il gran finale? Iniziavo a pensare che sarei potuto restarmene nel mio buco di Hell’s Kitchen».

    «Kenneth ha visto la Runa bianca».

    Tra i due cadde un lungo silenzio carico di significati, rotto soltanto dal crepitio del neon crepitante sopra di loro.

    «Stai dicendo sul serio?», mormorò infine Ashur, questa volta in tono di sincero stupore. E c’era un tremito diverso, in fondo alla ghiaia smossa della sua voce. Un tremito che sapeva di speranza. «Quindi possiamo ancora proteggerla? Forse allora...».

    «L’ha vista in uno dei suoi sogni, ha detto. E ha cercato di mandarle un segnale. Dice che è lontana, e che se vuole tentare di stabilire un contatto più profondo, non sarà facile. Non si fida a tentare troppo, perché teme che Julma possa percepirlo, e non è il caso. Non è bene che sappiano che l’abbiamo individuata. E poi l’altro giorno è svenuto perché si era sforzato, e Charlie si è preoccupata parecchio. Ma ci proverà, comunque. Lo sai com’è fatto». Fece una pausa, poi sospirò piano e riprese, con una decisione che trascendeva quel visetto adolescenziale: «Forse non tutto è perduto, in questa partita, Ash. Trova la Fenice, se davvero è ancora a New York. Le cose possono ancora andare come avevamo sperato. Il Punto nodale non è ancora stato risvegliato. Possiamo fermarli».

    La ragazzina lo guardò. E quello che vide le sembrò un improvviso miracolo. Ashur stava sorridendo.

    4

    Il freddo umido della sera che calava sulle strade di Roma penetrava sotto il cappotto di Lea, mentre un velo di pioggia gelida cadeva costante, increspando la superficie delle pozzanghere. L’idea di accoccolarsi sul divano, con una tazza di Earl Grey fumante accanto e il laptop sulle ginocchia, in quel momento, le sorrideva parecchio.

    Passò una decina di minuti prima che potesse togliersi dai piedi gli stivali fradici, chiudendosi alle spalle la porta della mansarda. Lasciò l’ombrello gocciolante nella doccia e mise a scaldare l’acqua del tè, aggirandosi scalza sul vecchio parquet malandato. Accese il laptop lasciato sul tavolo del soggiorno, lanciando uno sguardo annoiato alle vetrate schizzate di pioggia, coperte di gocce che scivolavano via. La luce calda e soffusa del suo piccolo rifugio rendeva più buia ancora la notte che si asserragliava all’esterno.

    Pochi minuti dopo, sprofondò nel divano, con un blando cigolio di vecchie molle. Il computer portatile sulle ginocchia e la tazza di tè ancora bollente appoggiata sul basso tavolino davanti a sé, a portata di mano. Il tipico sentore di bergamotto che si spandeva per la stanza, suggerendo un’ipotesi di relax. Provò a fare una ricerca, lasciandosi guidare dalle sensazioni del momento. Foto dai colori vividi e una serie di associazioni poco chiare. Uno stream of consciousness che cercò di seguire senza perdersi. Le foglie scintillanti e verdi delle mangrovie. Everglades. Era davvero quello il luogo che le stava suggerendo l’istinto, da giorni? Un onirico ritorno alle origini?

    Ma finì soltanto per scivolare in un sonno leggero, la testa reclinata sul bracciolo del divano.

    C’era qualcuno che la chiamava. Si guardò intorno, in mezzo a un fitto d’alberi che sembravano starsene lì da millenni, senza che nessuno potesse disturbarli. Non riusciva a capire da che parte provenisse quella voce. Maschile, calda e vibrante. Una voce che non avrebbe esitato a definire carismatica.

    «Ehi!», chiamò, muovendo qualche passo. Le suole delle sue scarpe da ginnastica affondarono nel terreno soffice e ricco del sottobosco.

    Intorno si avvertiva un sentore antico, di terra fertile e umida, di muschio.

    «Sono qui. Vieni», si sentì dire in risposta.

    E poi lo vide, oltre il tronco di un albero immenso. Un giovane sui trent’anni, capelli castani corti e arruffati, un volto piacevole, dai lineamenti affilati. I suoi occhi d’ambra chiara avevano in sé una quiete luminosa, che attirò la sua attenzione. La calma che proveniva da lui le riverberava dentro in onde placide, piacevoli. Era bello, quando incontrava persone così. Potersi abbeverare a una fonte immobile, sintonizzare su quelle sensazioni la propria lunghezza d’onda. Si beò di quelle emozioni, per lunghi istanti. Desiderando di poter restare lì a lungo, ancora.

    «Chi sei?», le venne spontaneo chiedergli. «Ci conosciamo?». Aveva l’impressione d’averlo già visto. Quando e dove, le sfuggiva, tuttavia.

    «Sai che posto è questo?», sorrise lui di rimando.

    Lea sembrò pensarci su, mentre di nuovo si guardava intorno. «Everglades?».

    Il sorriso dell’altro si ampliò, riempiendogli gli occhi di luce. Era uno sguardo così intenso, che Lea fu costretta ad abbassare il suo. Fu allora che il buio divenne completo.

    Si svegliò di soprassalto, con l’impressione che dentro a quel buio qualcosa – qualcuno? – la stesse osservando. Qualcosa di inquietante, malevolo. Aggrottò la fronte, spostando di lato il portatile andato nel frattempo in standby, e posandolo sul tavolino basso davanti al divano. Quando chiuse gli occhi, le sembrò di avere un’immagine in negativo stampata sulle retine. Qualcosa che somigliava a una rosa stilizzata, sul cui gambo dritto sporgeva una singola spina triangolare. Sbuffò, sbattendo le palpebre un paio di volte per allontanare quella strana fotografia al contrario, colori acidi contro il buio dietro agli occhi.

    Allungò le gambe addormentate, arricciando il naso con una smorfia infastidita nell’accogliere il formicolio nelle piante dei piedi. Ma perlomeno, adesso, se serrava le palpebre, c’era soltanto un normalissimo buio.

    Quanto tempo aveva dormito? Un’occhiata allo schermo del

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