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I Figli della Tempesta
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I Figli della Tempesta
E-book329 pagine4 ore

I Figli della Tempesta

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Info su questo ebook

Avere diciassette anni è complicato, se sei nato all’ombra di un’ingombrante profezia e la tua famiglia si aspetta che riveli capacità straordinarie. Questo pensa Nathaniel Gordon, quando guarda allo specchio i suoi strani occhi spaiati, che gli ricordano ogni giorno una scomoda eredità: discendente dei norreni, nato per mettere fine a una minaccia proveniente da un altro piano d’esistenza, Nate è sempre più convinto che qualcuno si sia sbagliato sul suo conto.
Ma quando Winter, un violento e misterioso ragazzo albino, irrompe nella sua vita e la stravolge, non c’è più tempo per i dubbi. Tra fughe precipitose, scontri mortali e decisioni laceranti, Nathaniel dovrà combattere una guerra più grande di lui e sopravvivere in un mondo che non è il suo. Chi è l’inarrestabile gigante dal cuore di ghiaccio pronto a tutto per allagare di sangue la nostra dimensione terrena, e qual è la verità sul conto di Winter? Per saperlo, dovrà abbracciare il destino e scoprire cosa è riservato ai figli della tempesta...
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2017
ISBN9788899768997
I Figli della Tempesta

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    Anteprima del libro

    I Figli della Tempesta - Francesca Noto

    spiaggia

    Prologo

    Richard guarda fuori dall’ampia finestra del loft, all’ultimo piano di un edificio storico dell’UWS. La vetrata occupa la parete rivolta a Est. A quest’ora del giorno, quando il sole comincia a compiere la sua parabola discendente nel cielo, l’esposizione alla luce è ancora forte; non la gloria calda e maestosa che avvolge quella stanza poco dopo l’alba, ma a lui piace lo stesso. Se ne sta lì, a fissare lo skyline avvolto di foschia estiva, oltre il verde di Central Park. E un lieve sorriso gli sfiora le labbra sottili, offrendo uno spettacolo di gentilezza inaspettata tra i calanchi di un volto antico, molto più di quanto potrebbero a prima vista far sembrare quei tratti segnati ma sicuri, quei capelli brizzolati ma non poi così tanto, quegli occhi limpidi e carichi di una consapevolezza profonda. Forse potrebbero essere loro, gli occhi, a tradirlo. Così intensi che pochi riescono a sostenerne lo sguardo.

    Lui attende. Attende e ricorda. Un norreno con una vita lunga come la sua non può che vivere di ricordi, del resto.

    Inizia a pensare di essere rimasto l’ultimo della sua stirpe, in quel mondo che forse non ha più bisogno di lui. È stato il primo a mettervi piede, pioniere per puro caso, e di secoli, da allora, se ne sono accavallati fin troppi. Di conflitti, ne ha visti esplodere e risolversene altrettanti.

    È forse venuto il momento di chiudere la partita? No. Non sarebbe da lui. E poi lo sa. Sa che non ha ancora finito. Sa che c’è ancora qualcuno che porta avanti il suo sangue norreno, e quel qualcuno si sta affidando a lui più di quanto avesse potuto prevedere.

    Quel pensiero gli stiracchia un sorriso divertito sulle labbra, arricciandole e scoprendo il lampo bianco di denti allineati e candidi. Osserva il paesaggio. E attende. Perché ormai non deve mancare molto. Si è così affezionato a quel suo discendente mezzosangue da non vedere l’ora di ritrovarselo tra i piedi? E dire che pensava d’essersi già compromesso abbastanza con il padre di quel giovane, promettente virgulto. Ma, dopotutto, ci sono grandi aspettative su di lui: non capita in tutte le epoche, di veder crescere il primogenito della Fenice e della Runa bianca. E poi c’è quell’altro motivo. Quella consapevolezza fatta di incredibili coincidenze mai casuali, nel suo nome e nel suo volto all’incrocio del Punto nodale primigenio, dove tutto è cominciato. Anche se il ragazzo non sa nulla, e chissà per quanto ancora resterà all’oscuro del suo effettivo ruolo nella partita.

    Distoglie lo sguardo dalla vista che ha di fronte, occhieggiando verso la porta del loft, alle sue spalle. Un abisso di tempo li divide, eppure quando sono insieme non sembra. Diciassette anni. Se lo ricorda ancora, nonostante tutto, cosa significa. Il periodo tumultuoso in cui ogni cosa sembra possibile, e al tempo stesso tutto sembra troppo lontano. Il momento delle passioni impetuose, e degli amori ancora più impetuosi. Lui ricorda. Ricorda come fosse il giorno prima, e non mille anni, il sorriso e lo sguardo di Cressida dopo la notte del Solstizio, e il fuoco che sapeva accendergli dentro.

    Lo squillo del cellulare lo distoglie di colpo da quei pensieri. Una blanda risata, rivolta a se stesso, mentre raggiunge il tavolo di mogano antico e recupera l’apparecchio, ricevendo la chiamata.

    «Dick? Sono uscito, finalmente. Non ne potevo più». Una voce piacevole e calda, da giovane uomo, ancora vibrante di qualche tonalità più limpida e adolescenziale, si fa sentire dall’altro capo della linea.

    «Nate, eccoti. Mi chiedevo quando ti avrebbero lasciato libero. E così, un altro anno si chiude… Soddisfatto?».

    «Che sia finito? Immensamente». La voce del ragazzo si scioglie in una risata. «Posso passare? Appena finiscono i saluti. Interminabili».

    Sembra esasperato. Come un lupo alla catena. E Richard sorride tra sé, comprensivo. «Credevo volessi partire subito. I tuoi non sono già a Maple Tree?».

    «Da una settimana. Ma anche se mi metto in viaggio tra un paio d’ore, non cambierà molto. Domani notte sarò lì».

    «Mi chiedo perché ti ostini a farti un viaggio di quindici ore in macchina, quando te ne basterebbero tre con l’aereo… E poi, Rachel non ha forse voglia di darti un passaggio rapido?». Ride piano, già conosce la risposta.

    «Lo sai che mi piace il fascino del viaggio su strada. Anche mamma e papà si sono rassegnati, da quando ho la vecchia Mustang. E comunque non te lo dico dove può metterselo, Rachel, il suo passaggio rapido, per rispetto alla tua veneranda età. Ci tengo a evitare di vomitarmi anche l’anima senza un valido motivo. Allora, posso passare, ti trovo a casa?».

    «Puoi passare. Sono a casa», concede lui, bonario. Quel sorriso che non ne vuole proprio sapere di staccarglisi dalle labbra.

    1

    «Nathaniel Gordon, non hai ancora firmato il mio annuario!». Una voce allegra lo raggiunse alle spalle come le squillanti trombe del giudizio universale.

    Merda, pensò il ragazzo, roteando gli occhi chiari e spaiati e affrettandosi a intascare il cellulare che teneva ancora in mano. Come previsto, Kimberly Breckenridge era lì, a una ventina di passi di distanza, in rapido avvicinamento. Attraversò quasi di corsa il cortile ancora piuttosto affollato del Trinity, zigzagando tra gruppetti di studenti vocianti.

    Con quei capelli biondi che brillavano sotto al sole di giugno, a incorniciare un ovale grazioso e grandi occhi verdi, era ovvio che Kim fosse una delle ragazze più popolari della scuola. Nathaniel pensava che sarebbe potuta uscire con chiunque, lì dentro, compreso Sean Davenport, il campione in carica della squadra maschile di nuoto, che poche settimane prima aveva annunciato in pompa magna la sua ammissione a Stanford. Ma no, era tutto l’anno che stava dietro a lui. Al ragazzo schivo e solitario con pochi amici fidati, al ragazzo con gli occhi diversi. Ed era tutto l’anno che lui la teneva a distanza, tra lo stupore generale. Non era facile essere preso sul serio, quando spiegava che lei non era quella giusta. Che voleva aspettare la persona che davvero gli avrebbe fatto provare qualcosa di speciale. A quanto pareva, facevano tutti fatica a credergli. Quando non si lanciavano in insinuazioni più sarcastiche e maligne.

    «Stai già andando via?», gli domandò lei, fermandosi davanti a lui. Si stringeva l’annuario contro il seno prominente sotto la maglietta blu con lo stemma giallo della scuola, Labore et Virtute.

    Nathaniel annuì. «Ho un viaggio di quindici ore davanti, e se voglio arrivare a Ocala entro domani notte, devo partire subito». In realtà, aveva tutta l’intenzione di passare a casa per recuperare i bagagli e mettersi in marcia dopo aver salutato Dick. Ma lei non doveva saperlo per forza, giusto?

    «Il tempo di prenderci qualcosa insieme in caffetteria per salutare anche gli altri e firmarmi l’annuario ce l’hai, però, vero?», incalzò la ragazza, piegando la testa di lato, con un sorriso irresistibile e convinto.

    Nathaniel sospirò. E annuì rassegnato, per poi seguirla verso la caffetteria, dove gruppetti di studenti si attardavano berciando allegri intorno ai tavoli.

    «Ehi, guardate un po’ chi si rivede. Bellosguardo, ma non dovevi partire subito, tu?». Una voce gioviale, proveniente dalla fila al bancone, si alzò sopra al brusio delle conversazioni. Alto abbastanza da svettare sopra la maggior parte degli altri ragazzi, con una zazzera ribelle color della stoppa, gli occhi di un azzurro slavato e il viso largo che faceva pensare a latenti origini russe, Marcus Lerman era uno dei pochi amici di Nathaniel. In teoria si erano già salutati, ma lui sembrò capire al volo cos’era successo, quando vide Kimberly. E Nathaniel si ritrovò a lanciargli un’occhiataccia infastidita, quando lo vide sbuffare fuori una sommessa risata.

    Marcus non era da solo. Con lui c’erano un altro ragazzo con cui Nathaniel frequentava diverse lezioni dall’inizio delle superiori. Sembrò anche lui piuttosto sorpreso di vederlo.

    «Ma tu non dovevi…», fece per dire.

    «No, Bellosguardo resta un altro po’ con noi, Zach. Non sei contento?», lo interruppe Marcus, con aria divertita. L’altro ridacchiò a sua volta, vedendo con chi era Nathaniel.

    Quando raggiunsero uno dei pochi tavoli liberi, Kim posò l’annuario sul pianale e glielo spinse davanti, con un sorriso mellifluo di quelli che di solito le facevano ottenere tutto ciò che voleva. Anche se non erano bastati a convincere Nathaniel a uscire con lei.

    Lui si strinse nelle spalle, aprendo l’album e cercando una penna nella vecchia borsa di cuoio un po’ logora che si portava a tracolla.

    «Allora, Nate?». Zach piegò la testa di lato, osservandolo mentre scribacchiava qualcosa. «Anche quest’anno passerai l’estate in quel ranch in Florida con i tuoi? Quand’è che ti stancherai di spalare merda di cavallo e organizzeremo un coast to coast? È dal primo anno che continuiamo a dirlo…».

    «Sei solo tu che continui a dirlo, Zach», sghignazzò Marcus, addentando un bagel. «Nate preferisce passare l’estate tra pomposi concorsi di equitazione per discendenti di nobili britannici decaduti, che pianificare un coast to coast cazzuto con noi».

    Nathaniel sospirò, rialzando gli occhi dall’annuario mentre già lo richiudeva, spingendolo verso Kimberly. Lei lo fissò per un attimo con aria sognante. Il ragazzo aveva, in effetti, uno sguardo inquietante quanto intenso: per una rara e bizzarra eterocromia congenita, l’iride sinistra era verde, la destra azzurra.

    «Non è che non voglio», rispose, esitante. «Ma per quest’anno era già tutto organizzato con la mia famiglia. Sarà per il prossimo…».

    «E vorrei vedere!», commentò Marcus, fingendosi indignato. «L’anno prossimo sarà quello del college. Potremmo finire a centinaia di miglia di distanza, e rivederci solo durante le vacanze. Mi pare il minimo, che quei mesi ce li passiamo insieme da qualche parte».

    Nathaniel accennò un sorriso e fece per alzarsi. «Vorrei rimanere ancora un po’, giuro, ma se non mi muovo, non partirò mai in tempo».

    «Rieccolo che fa il bel tenebroso. Ragazzi, ditegli qualcosa…», si lamentò Kimberly, con un melodrammatico sospiro.

    «Qualcosa!», sbottarono in coro Marcus e Zach, prima di scoppiare a ridere.

    «Dementi», protestò lei, imbronciandosi.

    «Ha ragione», ridacchiò Nathaniel. A quel punto, si scambiò un saluto con i due amici, rivolse un sorriso piuttosto impacciato a Kim e si allontanò, imboccando l’uscita della caffetteria.

    *

    Parcheggiò la Mustang sotto il palazzetto elegante dell’Upper West Side dove viveva Richard e ne uscì, chiudendosi lo sportello alle spalle e attivando l’antifurto. Fermandosi davanti al cancello in ferro battuto in cima ai gradini, premette il pulsante del vecchio citofono per farsi aprire.

    «Dick, sono io, ce l’ho fatta», fece sapere, quando quello che poteva considerare come suo nonno paterno gli rispose, aprendogli subito dopo.

    Non che avesse l’aria di un nonno, Richard. Da quando lo conosceva, era sempre rimasto uguale. E poi, lui era solo Dick. Come, del resto, l’aveva sempre chiamato anche suo padre, che da lui era stato adottato diversi anni prima, prendendo il suo cognome.

    Quando le porte del vecchio, elegante ascensore gli si aprirono davanti, il ragazzo entrò nell’abitacolo rivestito di pannelli di legno lucido. Premette il pulsante dell’ultimo piano, sbirciando verso il riflesso che gli rimandava lo specchio sulla parete in fondo. E si trovò davanti un adolescente alto e longilineo, dai lineamenti regolari e un po’ spigolosi, incorniciati da una zazzera corta e arruffata di un nero corvino. Sulla carnagione eburnea di suo padre, il primo sole di giugno aveva fatto comparire una spruzzata di efelidi. Due occhi spaiati lo fissavano pensierosi.

    Distolse lo sguardo quando l’ascensore si fermò al piano con un dondolio dolce di meccanismi idraulici, aprendo le porte automatiche. Richard lo aspettava sul pianerottolo, un sorriso divertito sulle labbra sottili.

    «Ti hanno trattenuto più del previsto, i tuoi amici», esordì, battendogli una pacca amichevole sulla spalla, e precedendolo all’interno del loft. «Vieni, entra».

    Gli aveva parlato, come spesso faceva quando erano da soli, nella sua lingua d’origine. Quella lingua norrena che non esisteva in altri luoghi del mondo, segreta e sconosciuta, parlata soltanto tra le coven, i gruppi territoriali o familiari dei Waerne, e che Nathaniel aveva imparato sin da piccolo.

    «Kim Breckenridge non si rassegna all’evidenza. E i ragazzi vorrebbero fare un coast to coast», sospirò Nathaniel, rispondendogli nella stessa lingua. Seguì Dick in cucina e si sistemò su un alto sgabello di fronte al bancone della colazione.

    Richard si versò una tazza di caffè nero da una caraffa lasciata a scaldare, e si girò a guardarlo, un lampo di bonario divertimento negli occhi azzurri. «Non mi sembrano notizie così tragiche da giustificare quell’aria desolata, Nate…», commentò, dopo un attimo. «Forse, tutto sommato, dovresti concedere una possibilità a quella ragazza, se non altro per la determinazione che ha dimostrato». Ridacchiò, vedendo il nipote adottivo roteare gli occhi, esasperato. «E non vedo cosa ci sia di tanto sbagliato in un viaggio con i tuoi amici. Potresti farlo e basta, senza metterti in testa tante domande».

    Il ragazzo sospirò, seguendo con la punta dell’indice la linea sinuosa di una marezzatura sul legno lucido del bancone. «Non c’è niente di sbagliato. Sono io, forse, a essere sbagliato», mugugnò infine.

    Richard prese un sorso di caffè, appoggiandosi al pianale dell’isola al centro dell’ampia cucina. «E cosa ci sarebbe che non va in te, sentiamo un po’?».

    Nathaniel sembrò imbronciarsi, mentre incrociava le braccia sul petto. «Lo sai, cos’è che non va. È passato un altro anno e non è successo niente». Si strinse nelle spalle. «E comunque, non voglio perdermi tre mesi di allenamento al ranch, magari con qualcuno dei maestri europei di passaggio, per fare uno stupido coast to coast».

    «Hai diciassette anni, Nate», ribatté Richard dopo un po’, in tono gentile. Non c’era paternalismo, in quella voce, né lo stava trattando con sufficienza. Era la consapevolezza di qualcuno che conosceva bene il valore del tempo. «So che vorresti bruciare le tappe e avere delle risposte sicure, ma in queste cose non ci sono certezze. Tuo padre di anni ne aveva ventisei, quando ha raggiunto la consapevolezza massima delle sue potenzialità».

    «Ma mia madre era empatica fin da bambina, e il suo potere si è manifestato in modo spontaneo», obiettò il ragazzo.

    «Tuttavia, soltanto quando è stato necessario, si è rivelato per ciò che era davvero», gli fece notare Richard, con un sorriso consapevole. «Ogni circostanza si verifica quando deve, e puoi credermi, se te lo dico io». Lo guardò dritto negli occhi, e scosse piano la testa. «Ma questi tuoi diciassette anni non torneranno più, Nathaniel. Quello che posso dirti è solo di non sprecarli».

    Il ragazzo lo ascoltò in silenzio, mordicchiandosi un labbro con gli incisivi, un’aria pensierosa su quel volto ancora quasi del tutto imberbe. Alla fine, sbuffò piano. «Tu la fai facile. Pensi che dovrei comportarmi come un ragazzo qualsiasi della mia età… uscire con tipe di cui in realtà non mi importa niente solo per potermene vantare, e passare le vacanze con gli amici, e preoccuparmi della scuola. Ma la verità è un’altra, Dick. È una vita che mi sento addosso le aspettative di tutti quanti e a volte ho paura che invece si siano sbagliati. Che nessuna delle capacità che si aspettano da me si manifesterà mai. E che resterò in un limbo inutile per sempre: il ragazzo della profezia, il figlio del guerriero della tempesta… un’illusione. Una bugia».

    Il nonno lasciò la tazza di caffè sul pianale dell’isola e gli si avvicinò, andando a posargli entrambe le mani sulle spalle dritte e ampie, da cavaliere agonista. «Stammi bene a sentire, non essere melodrammatico e butta fuori questi dubbi dalla tua testa», dichiarò, la voce decisa e sicura e gli occhi chiari e magnetici fissi in quelli diversi del ragazzo. Era impossibile non ascoltarlo. «Sei il figlio di Sven Gordon e Lea Schneider. E sei in primo luogo il frutto del loro amore. Tieni a mente questo, e capirai che devi essere per forza speciale. E lo saresti perfino se le tue capacità latenti non dovessero rivelarsi mai». Rise piano, nel vedere lo sguardo dell’adolescente sgranarsi in un moto di sgomento, a quell’ipotesi per lui inaccettabile. «Tutti siamo chiamati a compiere una missione, a questo mondo. Solo che alcuni lo sanno meglio di altri. Non essere impaziente. La tua strada ti si rivelerà, al momento giusto».

    Nathaniel schiuse le labbra come per ribattere. Ma alla fine le serrò di nuovo, senza dire nulla. Limitandosi ad annuire con un gesto lento, mentre un lieve sorriso gli addolciva i lineamenti, sciogliendo i tratti induriti dai dubbi e andando a danzargli fin dentro alle iridi spaiate. Dick sapeva essere convincente. E del resto, non era un caso che il nipote andasse sempre a cercarlo, quando qualcosa non andava per il verso giusto.

    «Bravo, ragazzo. Questo è lo spirito», rise l’uomo, serrandogli con affetto le grandi mani sulle spalle. «E ora fila, se vuoi arrivare al ranch entro domani. O chi li sentirà, i tuoi…».

    2

    Barcollava, mentre avanzava lungo la distesa di cemento e asfalto pieno di crepe del parcheggio semivuoto dietro al Rose Tattoo. Non era ubriaco, in realtà, soltanto un po’ alticcio. Del tutto in grado di badare a se stesso. Era solo che il mondo aveva preso un’angolazione strana. La pavimentazione stradale, alla luce ingannevole del tramonto, gli appariva obliqua, e scintillante in modo bizzarro. Si sarà spostato quel fottuto asse terrestre e non me ne sono accorto, pensò vago, sbuffando e portando una mano non del tutto ferma a scostarsi dal volto di un pallore diafano e lunare un ciuffo di capelli così chiari da sembrare fili intessuti di oro bianco.

    Dov’era la sua moto? Più avanti, di sicuro, perché non riusciva ancora a individuarla. Forse tra quella vecchia Buick color fango-e-sangue e il rottame del pick-up Dodge che una volta – molti eoni prima – doveva essere stato beige. Sbuffò, inghiottendo una boccata d’aria che sapeva di urina vecchia e immondizia lasciata a macerare al sole. Si costrinse a ricacciare indietro l’idea vaga di un conato di vomito, mentre si appoggiava al cassone di quel malandato Dodge sulla cui carrozzeria si sarebbe potuto fare uno studio stratigrafico di polvere e sporcizia. No, niente da fare, non avrebbe sbrattato lì in quel parcheggio. Così aveva deciso. Adesso si sarebbe rimesso in viaggio verso Sud, lasciandosi alle spalle Richmond, e tanti saluti.

    Si raddrizzò, con un mugugno di protesta, e puntò gli occhi così chiari da sembrare trasparenti sullo spiazzo oltre le auto parcheggiate. Sì, ricordava bene, la moto era lì. Ma qualcosa non stava andando per il verso giusto.

    «Ehi, tu! Che cazzo fai? Non toccare la mia moto». Un ringhio cupo gli salì in gola, coagulandosi in quelle parole aggressive, rivolte all’uomo chino ad armeggiare sullo sterzo della Sportster un po’ malandata, ma ancora funzionante.

    L’uomo si risollevò quasi di scatto, portando lo sguardo su di lui. Ma se per un attimo poteva essere sembrato preoccupato da quell’interruzione, appena puntò gli occhi addosso al giovane rilassò le spalle tese e si concesse un ghigno divertito. Un altro, con tutta probabilità il suo compare, si staccò con deliberata lentezza dal lampione di cemento a pochi metri da lì, che aggiungeva la sua luce giallastra e malata alle tonalità ambrate del tramonto, senza riuscire a illuminare un granché le ombre che si allungavano fameliche agli angoli del parcheggio.

    «Ah, sì?», ribatté l’uomo, piegando la testa di lato con l’aria sorniona e falsamente innocente di un gatto colto a rubare. «E se la tocco che fai, Biancaneve?».

    Il ragazzo non mise tempo in mezzo. Chiuse le distanze in pochi passi rabbiosi, e prima che lo sconosciuto potesse anche solo comprendere cosa stava succedendo, sollevò in uno scatto troppo veloce le mani e lo afferrò per i capelli, abbassandogli di colpo la testa e facendogli impattare la faccia contro il ginocchio alzato con brutale tempismo. Al rumore rivoltante del setto nasale che si schiantava seguì il gemito incredulo della vittima. L’uomo crollò di lato, stordito e dolorante, quando l’albino lo spinse via, lontano dalla Sportster.

    «Penso che farò questo», dichiarò subito dopo, tirando indietro una gamba e piantandogli la punta rinforzata dell’anfibio nelle costole, con un tonfo sordo seguito da un grido spezzato. Se il ladro aveva avuto anche solo la lontana idea di rialzarsi, a quell’ulteriore aggressione pensò bene di restare giù, allontanandosi a fatica sulle ginocchia e sui gomiti, e coprendosi la faccia spaccata con le mani. Tra le dita serrate contro il naso filtravano rivoli scuri di sangue.

    Non poteva essere passata che una misera manciata di secondi. L’albino si girò a fronteggiare il complice, che aveva fatto in tempo a staccarsi di un passo dal lampione, ma ora lo fissava immobile, con gli occhi sgranati e increduli. Era accaduto tutto così in fretta da non lasciargli neanche il tempo di realizzare con esattezza cosa fosse successo al compagno.

    «Ne vuoi anche tu o te ne vai affanculo col tuo amico?», ringhiò il ragazzo, un lampo minaccioso in quelle sue inquietanti iridi azzurre, che ricordavano le profondità gelide e trasparenti di un crepaccio glaciale.

    «Stai calmo, ragazzo. Calmo, okay? Non ce ne frega niente della tua moto, ce ne andiamo», ribatté l’altro, occhieggiandolo preoccupato mentre si avvicinava al compare e cercava di aiutarlo a rialzarsi.

    Lui li guardò barcollare verso la fila di macchine parcheggiate, alle spalle del bar. Di tanto in tanto, l’uomo illeso si girava a guardarlo con aria nervosa, quasi a temere che decidesse di inseguirli per concludere quello che aveva cominciato. Ma l’albino non si mosse. Restò lì, accanto alla vecchia Sportster nera dalla carena graffiata, a fissarli mentre si allontanavano e sparivano dietro le auto in sosta.

    Sopra di lui, il lampione sfarfallava, morente, dandogli ancora di più l’idea che il mondo rollasse piano, come una barca alla traina su un mare inquieto. Aveva in bocca il sapore acido della sbornia e dell’adrenalina. Si sentiva tremare le braccia. Aveva avuto voglia, per lunghi e intensi attimi, di raggiungerli e colpire ancora, ancora e poi ancora. Fino a sentirselo addosso, l’odore metallico del sangue. Fino a riempirsene le mani. Ma restò immobile, e attese che quel desiderio contorto passasse, così come la nausea che gli stringeva lo stomaco. Sbatté le palpebre, cercando di mettere meglio a fuoco, e si frugò nelle tasche del giubbotto di pelle, così vecchio che forse aveva visto Woodstock ed era vecchio già allora. Ma non era mai riuscito a separarsene. Gli sarebbe caduto di dosso a brandelli, un giorno o l’altro, e allora avrebbe smesso di indossarlo. Chiuse le dita ancora frementi sulle chiavi della Sportster, le tirò fuori e inforcò la moto. Il motore si avviò al terzo tentativo, ringhiando e ansimando, finché non cominciò a ruggire con decisione. Abbastanza da convincerlo a togliere il cavalletto con l’anfibio, tenuto insieme da un paio di giri di nastro adesivo nero, e sgasare ingranando la marcia per uscire dal parcheggio.

    Si lasciò alle spalle le luci gialle del Rose Tattoo, imboccando l’interstatale verso Sud. Non sapeva neanche perché stesse puntando in quella direzione, era un’idea come un’altra, nata d’istinto. Gli era parsa buona e aveva finito per assecondarla.

    Il cielo si faceva sempre più scuro, e a Est erano già comparse le prime stelle. I colori del tramonto viravano al rosso e al violaceo, alla sua destra. Si lasciò guidare dal canto roco e affaticato del motore, la vecchia Sportster tra le cosce come un’amante troppo grande per lui, esperta e focosa, la vista che a tratti sfocava. Piegato in avanti sul serbatoio largo, sentiva il vento sferzargli la faccia di un pallore quasi innaturale, i capelli chiari come la stoppa frustargli le guance in ciocche scomposte.

    Come ogni volta, stava lasciando dietro di sé la sua stessa storia, sperando di ricominciare, che andasse meglio. Anche stavolta non sarebbe tornato indietro. Prima di quel momento, si era lasciato alle spalle un’infanzia e un’adolescenza in una group home del Queens, lo squallido reiterarsi di incerte famiglie affidatarie che si stancavano presto di lui e dei suoi casini, l’avvicendarsi infinito di assistenti sociali e strizzacervelli che cercavano di comprendere cosa ci fosse di spezzato nella sua testa. Che per anni avevano cercato di capire ciò che nessuno tranne lui sembrava capire. E poi, una volta compiuti i 18 anni, aveva messo una firma su un modulo ed era andato per la sua strada. E allora aveva cominciato a lasciarsi alle spalle motel squallidi e relazioni complicate, lavori precari e risse e sguardi ostili. Era stanco di essere considerato un diverso, di muoversi sul filo del rasoio di un confine che a tratti neanche lui comprendeva. Non gli spettava un’appartenenza, non l’aveva avuta mai. Questo soltanto sapeva.

    Mentre la velocità aumentava e il tarmac nero lucido sembrava ondeggiare come un serpente, un black mamba sinuoso e immenso che si perdeva nell’oscurità all’orizzonte, sentì le lacrime della corsa rigargli le guance pallide.

    Forse non era destinato a trovare ciò che aveva sempre cercato. Forse era sbagliato, così come l’avevano sempre dipinto.

    Davanti a lui, la strada galleggiava, esplodendo in bolle indistinte.

    Sentì la ruota posteriore slittare di colpo, scivolargli da sotto, la velocità eccessiva che lo tradiva. Cercò di riprendere il controllo della Sportster, ma anche la sua amante vecchia

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