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L'ultima tempesta
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E-book308 pagine4 ore

L'ultima tempesta

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Info su questo ebook

Quando Nathaniel e Winter, i figli della tempesta, sono stati separati da un sacrificio necessario e la loro vita è cambiata per sempre, lasciandoli a chiedersi quale sarebbe stata la loro storia se il wyrd avesse permesso loro di rimanere insieme, non potevano immaginare che da quell’evento sarebbe dipeso il destino di tutti gli universi esistenti.
Dopo millenni di scontri tra Norreni e Jötnar, dopo l’apertura incauta di troppi portali, il tessuto stesso dei Nove mondi si sta lacerando, e il Ragnarök, la fine di tutto, sta per compiersi.
Nathaniel dovrà affrontare suo malgrado l’assedio della Caccia selvaggia, in uno scenario apocalittico e irriconoscibile, mentre nelle mani di Winter sembra ricadere l’unica speranza di salvezza, sotto la forma di una fragile fanciulla albina dall’immenso potere.
Ma, nonostante un universo li divida, i due ragazzi continuano a essere uniti da un indissolubile legame. E, alla fine, neanche la sopravvivenza del proprio universo avrà un senso, se non potranno ricongiungere la loro storia spezzata.
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2019
ISBN9788833170725
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    L'ultima tempesta - Francesca Noto

    L’ultima tempesta

    Francesca Noto

    Fantasy romance

    I Edizione novembre 2019

    © 2019 Astro edizioni

    S.r.l.s., Roma

    www.astroedizioni.it

    info@astroedizioni.it

    ISBN 978-88-3317-072-5

    Direzione editoriale:

    Francesca Costantino

    Progetto grafico:

    Elisabetta Di Pietro

    Illustrazione di copertina:

    Rosaria Trivisonne

    Tutti i diritti sono

    riservati, incluso

    il diritto di riproduzione

    integrale e/o parziale

    in qualsiasi forma.

    A te, che mi hai seguito fino a qui.

    Prendi la mia mano e andiamo in fondo.

    «This is the end,

    Beautiful friend.

    This is the end,

    My only friend, the end».

    The Doors

    «Quando meno ce lo aspettiamo, la vita ci pone davanti a una sfida,

    per provare il nostro coraggio e la nostra volontà di cambiamento.

    In quel momento, non serve fingere che non stia accadendo nulla,

    o scusarci dicendo che non siamo ancora pronti».

    Paulo Coelho

    Prologo

    La terra cominciò a tremare verso le tre del mattino.

    Un rombo cupo e profondo, che sembrava il lamento stesso del mondo. Quando Nathaniel si svegliò, nella sua piccola tenda, sotto gli immensi abeti della taiga canadese che scuotevano le cime con un cigolio intenso e sconvolgente, lo sentì dentro la cassa toracica come la vibrazione dei bassi di un concerto infernale. Ma non ebbe il tempo di pensarci. Non ebbe il tempo di realizzare cosa stesse accadendo davvero. Perché, un attimo più tardi, la terra spalancò le sue fauci di creatura antica e quiescente da troppo tempo, e lo inghiottì.

    Non riuscì a trattenere un urlo sgomento, che quasi non si sentì, sopra al ruggito della frana e allo schianto degli alberi che crollavano esponendo le radici, mentre il terreno cedeva, facendo precipitare lui, la tenda e tutto ciò che conteneva verso il buio pesto del fondo del crepaccio.

    Fu l’istinto a prendere il sopravvento, a quel punto, reazioni automatiche sviluppate in anni di addestramento. Piegò le ginocchia e tentò di portare i piedi avanti, quasi uniti per attutire l’impatto finale, mentre intorno a lui tutto sembrava roteare, come dentro a una centrifuga.

    L’urto arrivò quasi inatteso, e prima di quanto si aspettasse. Colpì la roccia dura di una sporgenza sulla falesia e il dolore gli risalì lungo le gambe come fuoco e schegge di metallo, togliendogli il respiro. Rotolò di lato, proteggendosi la testa con le braccia, mentre il tessuto rinforzato del sacco a pelo e della tenda lo difendevano in parte dai successivi urti. Quando si fermò, sbattendo la schiena contro una parete di pietra, terra scura e umida e frammenti di roccia continuarono a franare intorno a lui per un po’, coprendo in parte la sua figura raggomitolata dentro ai resti della canadese e riversandosi oltre il bordo della sporgenza, più giù ancora.

    Ci fu qualche scossa di assestamento che sembrò durare un’eternità, e altre piccole frane di terriccio e sassi. Poi, tutto tornò immobile, e la faglia restò spalancata come un taglio profondo, una ferita aperta nel corpo della terra.

    Nathaniel si mosse appena, cauto, cercando di valutare le sue condizioni. Forse aveva perso i sensi per qualche istante, ma quando provò a stendere le gambe, non gli sembrò di avere nulla di rotto, e fu lo stesso quando spostò le braccia e distese le dita delle mani serrate a pugno. Provò a girarsi sul petto e strisciò fuori dal sacco a pelo e dalla minuscola canadese, che gli avevano evitato in gran parte abrasioni e lacerazioni, prendendosele al suo posto. Era indolenzito, ma gli sembrava di essere intero. E soprattutto, la frana non lo aveva coperto al punto da intrappolarlo. Con la massima prudenza, si spostò lungo la sporgenza di roccia, restando attaccato alla parete alla sua destra, tastando intorno con le mani. Il buio era assoluto, lì sotto. Avvertì con le dita il bordo frastagliato del cornicione, e un mucchio di terriccio che cedeva. Si fermò, lottando per rimettersi almeno in ginocchio e alzando lo sguardo per cercare di individuare l’orlo della frattura nel terreno. Gli sembrò di scorgere un lucore vago, più in alto, ma non avrebbe saputo dire a quale distanza fosse da quell’improvvisato gradino che gli aveva salvato la vita. Si era aspettato di vedere il cielo limpido che aveva lasciato quando si era chiuso nella tenda per dormire, ma quel tratto libero pareva grigiastro, adesso, come avvolto da una fitta nebbia. Non gli appariva troppo distante, ma la parete della faglia sembrava quasi verticale, e quando la tastò alla ricerca di eventuali appigli per risalirla, si rese conto che era costituita perlopiù di un agglomerato franoso e instabile di terra e frammenti di roccia.

    Restò dov’era, cercando di non farsi prendere dal panico. Nella caduta, poteva aver riportato lesioni che al momento l’adrenalina in circolo non gli consentiva di registrare, ma le sue condizioni sarebbero comunque peggiorate col passare del tempo. Era bloccato su quella sporgenza rocciosa dentro a una crepa del terreno che fino a dieci minuti prima non esisteva, in un bosco del Canada, ad almeno una decina di miglia dal centro abitato più vicino, e non pensava di poter risalire da solo. Inspirò a fondo, facendo una smorfia quando sentì un’improvvisa trafittura di dolore al fianco destro, contro le costole ammaccate. Sperando di non avere niente di rotto, e di non aver subìto delle lesioni interne, tornò strisciando verso la tenda afflosciata e lacerata, e a tastoni recuperò lo zaino al suo interno. Se non altro, in quella folle caduta non aveva perso il suo equipaggiamento.

    Si sedette con la schiena contro la parete dello stretto cornicione e frugò nello zaino, recuperando una torcia a batteria solare. Provò ad accenderla, e sospirò di sollievo quando un fascio di luce bianca si proiettò all’istante contro la parete opposta del crepaccio. La puntò intorno, cercando di capire meglio la situazione. La fenditura doveva essere larga al massimo tre metri, il cornicione su cui era finito forse uno e mezzo. Quando rivolse il raggio di luce verso il basso, notò con un brivido che si perdeva nell’oscurità, e lo distolse da lì quasi all’istante. Quanto alle pareti, erano ripide e friabili come aveva sospettato poco prima; di tanto in tanto, una radice contorta o uno sperone di roccia sporgevano dal terriccio, offrendo occasionali appigli, ma non aveva idea di quanto potessero essere stabili e se fossero in grado di reggere il suo peso. Tentare un’arrampicata in quelle condizioni, sebbene il tratto da risalire non fosse molto alto, poteva essere un azzardo fatale. Per il momento, accantonò quel pensiero, in cerca di altre soluzioni. Il soccorso esterno era la sua speranza più certa.

    Con cautela, posò la torcia elettrica accanto a sé, lasciandola accesa. Non aveva alcuna intenzione di privarsi della sua luce. A quel punto, cercò il cellulare, nella tasca davanti della felpa leggera che indossava. Lo teneva a portata di mano anche quando dormiva, per ogni evenienza, e ne fu grato in quel momento, ma quando vide la crepa che attraversava lo schermo buio in una spezzata diagonale, iniziò a temere il peggio. I suoi timori si rivelarono fondati un attimo dopo, quando si rese conto che lo schermo restava spento e non rispondeva ad alcun comando.

    «Merda, merda, merda... oh, avanti...». Nonostante le sue esortazioni e i tentativi successivi, il telefono non reagì e restò morto. Per qualche istante, Nathaniel non poté fare altro che fissarlo con lo sguardo vacuo, mentre un’acuta consapevolezza di essere sempre più tagliato fuori dal mondo e nei guai lo afferrava all’altezza dello stomaco.

    Fu strano, proprio in quel momento, ripensare a Winter. A distanza di un anno dalla sua scomparsa, non succedeva più tanto spesso come all’inizio. Pensò che lo avrebbe voluto lì, al suo fianco, in quel frangente di confusione e paura. Pensò che lui avrebbe saputo cosa fare. E pensò a una cosa a cui cercava di non pensare, di solito: che gli mancava. Gli mancava come l’aria.

    Da quando aveva esalato l’ultimo respiro tra le sue braccia, l’estate prima, dopo aver dato tutto per riportarlo indietro dal mondo dei Norsihir, il mezzosangue albino gli era rimasto dentro come la scheggia affilata di una granata a frammentazione. Nate aveva cercato di andare avanti, ma la verità, e se ne rese conto in quell’attimo così definitivo, era che lui era rimasto fermo a quel giorno, come all’interno di un orizzonte degli eventi da cui più nulla poteva sfuggire. Bloccato in quell’alba estiva in cui tutto era rimasto sospeso. In cui quella storia si era conclusa, spezzandosi, senza avere alcuna reale possibilità di essere vissuta.

    Deglutì il nodo che gli si stava formando in gola, inesorabile, e cercò di non pensare al vuoto che gli vorticava dentro. Alla sensazione di aver vissuto per un anno come dentro a un sogno, lasciandosi scorrere la vita accanto, facendo il minimo indispensabile per restare a galla. Da quel giorno, nessuno – né la sua famiglia, né la coven dei Waerne con cui viveva, né i suoi amici che nulla sapevano, in realtà, della sua ordalia e della sua vera natura – era riuscito a togliergli dalla testa e dal cuore l’impressione che quella vita fosse sbagliata. Sfalsata, deviata rispetto a ciò che doveva essere. In fondo, Winter aveva aperto il Punto nodale primigenio, il primo in assoluto che aveva condotto i Norsihir sulla loro Terra. E, nello stesso momento, aveva riportato lui a casa, in uno strano sdoppiamento in cui si erano ritrovati esattamente nello stesso spazio e nello stesso tempo dove il loro viaggio accidentale era cominciato, come se nulla fosse mai successo. Ma, in verità, era successo tutto. La sua vita era cambiata senza ritorno. Da lì in avanti, niente era più stato lo stesso. Quel mondo, Nate non lo riconosceva più come il suo, come se tutto fosse spostato di qualche metro nello spazio, di qualche secondo nel tempo. Come se tutti i punti di riferimento che conosceva fossero stati spazzati via da una mano beffarda, lasciandolo a chiedersi come sarebbe andata se, in una spirale infinita di eterni what if.

    Forse fu proprio allora, mentre rivedeva con una strana chiarezza il modo in cui aveva vissuto gli ultimi mesi, che se ne rese conto. Qualcosa non andava, qualcosa era sbagliato, e lui lo sentiva dentro. Quell’improvviso terremoto, quella spaccatura che l’aveva inghiottito come per nasconderlo al mondo stesso, non ne sembrava che la dimostrazione, adesso.

    O, magari, era solo la sua mente che iniziava a perdere lucidità. Forse aveva davvero un’emorragia interna, e il suo corpo stava cominciando a cedere. Serrò le labbra, scuotendo la testa. «Smettila», intimò a se stesso, a bassa voce. «Non è così».

    C’era soltanto una verità da affrontare: era solo e disperso, bloccato in quella voragine, e doveva trovare un modo per uscirne, se voleva sopravvivere. Era l’unico pensiero su cui doveva concentrarsi.

    Alzò di nuovo gli strani occhi spaiati – l’eterocromia congenita del ragazzo della profezia: l’iride sinistra era verde, la destra azzurra – e notò che, più in alto, la nebbia che aveva notato in precedenza sembrava ora più fitta: gli pareva perfino che qualche ricciolo pigro di vapore grigiastro si estendesse fin oltre i bordi della crepa. Poi vide qualcos’altro: un movimento indistinto, vicino al ciglio del crepaccio. Per un attimo, il suo cuore sussultò, nella speranza di veder comparire un volto umano e scoprire che i soccorsi, in qualche modo, fossero arrivati. Fece per muoversi, agitando le braccia e schiudendo le labbra per lanciare un richiamo verso l’insperato aiuto, ma poi vide con stupore un muso allungato sporgersi nel vuoto, e udì con chiarezza qualcosa che annusava l’aria.

    «Al diavolo, ci mancava questa...», ringhiò a mezza bocca.

    Un qualche animale selvatico doveva essersi avvicinato al ciglio della spaccatura nel terreno. E sembrava anche ostile: al suono della sua voce, rispose con una sorta di ringhio sibilante, e il ragazzo fu certo di aver visto lo scintillio di una chiostra di denti affilati nel buio. Qualunque cosa fosse, non era un cane da soccorso e non era lì per aiutarlo. Anzi, iniziava a sospettare che, se fosse stato più facile da raggiungere, quella creatura lo avrebbe assalito.

    Quel sinistro sospetto diventò più che concreto quando un altro di quegli animali si affiancò al primo, annusando a sua volta l’aria e sporgendosi con la testa nella fenditura del terreno. Sembrava guardare verso di lui, e cominciò a emettere un verso basso e inquietante, simile a quello che si sarebbe ottenuto passando un dito sui denti di un pettine. A quel punto, Nathaniel cominciò a chiedersi cosa diavolo lo stesse guardando da là sopra. Afferrò la torcia, puntandone il fascio verso l’alto, e si ritrovò a fissare una visione da incubo: la creatura investita dalla luce si spostò quasi subito con un rauco guaito, ma il ragazzo ebbe il tempo di inquadrare un muso scarno e grigiastro, senza pelo, che si apriva in fauci piene di zanne appuntite e angolate in ogni direzione, e il baluginio cieco di enormi occhi sporgenti e gelatinosi, simili a quelli dei pesci abissali.

    Non avrebbe voluto, ma gli sfuggì un grido, e rischiò di perdere la presa sulla torcia, riafferrandola all’ultimo momento, mentre sibilava un fiume di imprecazioni tra i denti serrati.

    Che cazzo era quella cosa?, ebbe appena il tempo di chiedersi, e di domandarsi se lassù ci fosse un intero branco di quelle creature mostruose ad attenderlo, quando oltre il bordo del crepaccio risuonò un tonfo violento, e poi una sorta di ansante uggiolio. Ci furono dei movimenti, ringhi sibilanti e altri di quei versi assurdi, più forti e udibili, e poi sentì che scappavano. Udì la loro fuga precipitosa, finché i rumori non svanirono in lontananza. Non avrebbe saputo dire quanti fossero.

    Per qualche istante che sembrò scorrere lento come un’eternità, non ci fu altro che silenzio, un silenzio ovattato che solo in quel momento Nathaniel riconobbe come innaturale, rendendosi conto che era intorno a lui già da prima. Poi qualcuno si sporse oltre il bordo della spaccatura, e una voce familiare, una voce profonda e roca, che ricordava lo sgretolio di sassi smossi lungo un ghiaione, arrivò fino a lui: «Nate, ragazzo, stai bene?».

    1

    «Forza... Non possiamo fermarci adesso». La voce affannata della giovane donna riecheggiò tra gli alberi dai rami carichi di neve, più forte di quanto lei avesse desiderato. Il suono disturbò una coppia di corvi, che si levarono in volo dalle fronde scure di un sempreverde, gracchiando sgraziati.

    Lei serrò le labbra, contrariata. «Bestiacce», ringhiò tra i denti, temendo che rivelassero la loro posizione più di quanto già non facessero le due file di impronte che si stavano lasciando dietro sul sentiero fangoso.

    Si guardò alle spalle, preoccupata, ma per il momento non vide nessuno. Il viottolo scavato nel fitto della foresta era un nastro scuro di neve sporca e bagnata che si perdeva in mezzo al sottobosco, ma non si illudeva sul fatto che potesse nascondere le tracce del loro passaggio, come di certo sarebbero stati altrettanto rivelatori i rametti piegati e spezzati tra i cespugli, nei punti in cui avevano dovuto forzare l’accesso.

    Strinse con più forza la mano esile e inguantata della ragazzina, che alzò su di lei quei suoi occhi trasparenti e confusi, enormi sul viso magro e delicato, di un pallore innaturale che faceva a gara con le macchie di neve sugli alberi, con le nuvole che si ammassavano intorno ai picchi glaciali a Nord. Fermando per un attimo lo sguardo in quello di lei, ebbe una stretta al cuore. E nonostante le gambe iniziassero a farle male e avvertisse la punta di lancia della stanchezza che le mordeva un fianco, rinnovò gli sforzi e continuò a spingersi avanti.

    Le sorrise, cercando di apparire rassicurante. «Andrà tutto bene, te lo prometto. Non può mancare molto», sussurrò, con il respiro che le si condensava in sbuffi di vapore affannato davanti alle labbra.

    La ragazzina non rispose. Continuò a correre insieme a lei, con quell’espressione preoccupata sul viso giovanile, incorniciato dal cappuccio imbottito del mantello e da qualche ciuffo di capelli che spuntava dalla pelliccia di lupo; ciocche di un candore immacolato.

    Non sapeva, la più grande, da quanto tempo stessero correndo in quel modo. Fino a poco prima dell’alba di quel giorno, che le aveva viste accampate in una piccola grotta naturale aperta in una parete rocciosa al limitare di quella foresta, era stata piuttosto sicura di aver seminato chi le inseguiva. Ma si era sbagliata. Ed era stato solo perché il vento aveva portato fino a loro il rumore lieve dei passi e delle voci in avvicinamento, e per il fatto che la loro posizione era sopraelevata rispetto al sentiero e consentiva una visuale ampia della zona circostante, che si era potuta accorgere di quanto si fosse illusa. Avevano raccolto in fretta i loro pochi averi e si erano messe in marcia sul sentiero, sperando di non essere individuate, ma di lì a poco gli inseguitori si erano resi conto della loro presenza, e l’allontanamento era diventato una vera e propria fuga.

    La ragazza si guardò intorno, serrando le labbra. Se solo fosse riuscita a trovare un riparo sicuro, un modo per far perdere le tracce e confondere chi le seguiva... Ma non c’era altro che il fitto degli alberi, e qualche sentiero ancora più stretto, scavato dagli animali del bosco nei loro spostamenti quotidiani. Con un senso di disperazione sempre più spiccato e il cuore che le martellava in gola, si passò il dorso della mano coperta dalla manopola di pelle imbottita sulla fronte imperlata di sudore, nonostante il freddo intenso, scostando qualche ciuffo nero come il giaietto che le ricadeva fastidioso sugli occhi.

    «Non può mancare molto...», ripeté, più a se stessa che alla ragazzina alle sue spalle, come a farsi coraggio. «Avevano detto tre o quattro giorni, verso Nord... sono cinque giorni che avanziamo, la direzione è giusta. Non possono essersi sbagliati».

    Oppure sì?. Quella voce sottile e odiosa che stava cominciando a mettere in dubbio l’opportunità della sua scelta le risuonò nella testa, insopportabile. La scacciò con forza, continuando a mettere un piede avanti all’altro, con una testardaggine che non voleva ancora arrendersi all’evidenza del guaio in cui si era ficcata, di sua volontà. Trascinandoci dentro anche la piccola, oltretutto. E forse era quello il pensiero più angoscioso di tutti, che la spingeva ad andare avanti senza concedersi tregua.

    Si sentì strattonare. Aggrottando la fronte, si voltò, in tempo per incrociare lo sguardo intenso della ragazzina. La vide sollevare la mano libera per farle cenno di attendere, e poi indicare qualcosa, alla loro sinistra. Seguì il braccio teso e sgranò gli occhi: un piccolo sentiero quasi del tutto nascosto dal fitto sottobosco della foresta si dipartiva da quello principale, dietro una grossa formazione rocciosa coperta di muschio. Era così difficile scorgerlo, da lì, che lei l’aveva oltrepassato senza neanche accorgersene. Un fremito di speranza le fece battere più veloce il cuore: forse, anche i loro inseguitori avrebbero tirato dritto senza vederlo. Poteva essere la possibilità di cui avevano bisogno.

    Sorrise, grata, annuendo verso la compagna più giovane. «Hai la vista di un falco, Mjallvít...», sussurrò, con una piccola risata roca e affannata. «Andiamo. E cerchiamo di non lasciare tracce».

    Non sapeva, in realtà, quanto ci avrebbero messo quegli altri a capire dove avessero deviato, perché era ovvio che avrebbero notato le loro impronte nel fango del sentiero interrompersi di colpo. Ma cercò di cancellare con un ramo le tracce della loro deviazione, mentre aggiravano in fretta il masso muschioso, infilandosi tra i cespugli e inoltrandosi sul nuovo percorso. Per male che fosse andata, avrebbero comunque guadagnato del tempo.

    Il percorso era meno agibile, in mezzo al folto di quel bosco, e la neve più alta, su quel passaggio che doveva essere stato aperto da qualche animale. La loro avanzata si fece più lenta e faticosa, ma alla ragazza sembrò che si inoltrassero nel fitto e che fosse più difficile trovarle, così. Sperò soltanto che quel sentierino non si rivelasse un vicolo cieco, costringendole a tornare indietro.

    Continuò a trascinarsi dietro la compagna, sempre più affaticata, fin quando la stradina non si aprì in una piccola radura innevata, che mostrava le tracce del passaggio di più di un animale. Vide delle impronte che puntavano tutte nella stessa direzione, sparendo su uno dei sentierini tortuosi che si inoltravano nel sottobosco. D’impulso, procedette nella direzione opposta, scavando insieme alla ragazzina un’altra serie di orme nella neve, per poi tornare indietro con cautela.

    «Metti i piedi nelle nostre impronte, tesoro... così. Cerchiamo di confondere quei bastardi», suggerì, tracciando i propri stessi passi a ritroso per poi seguire il percorso segnato dagli animali, cercando di usare quelle tracce per camuffare le proprie.

    Si inoltrarono di nuovo tra gli alberi, oltrepassando massi muschiosi e cespugli. I sempreverdi frondosi si aprivano piegandosi al loro passaggio, senza opporre troppa resistenza. Qualche rovo contorto e secco si impigliava invece ai loro mantelli, strattonandoli e costringendole a rallentare.

    Dopo un po’ che procedevano su quel sentiero tortuoso, che a tratti si avvolgeva su se stesso facendo loro temere che tornassero indietro, la giovane donna cominciò a perdere il senso dell’orientamento. Non sapeva più in che direzione stessero andando, e l’impressione di essersi persa si fece sempre più nitida nella sua mente. Stavano calando le ombre della sera, o così le sembrava da come il buio si asserragliava intorno a loro e, dietro di lei, la ragazzina inciampava sempre più spesso. Aveva sperato di concludere il disperato viaggio in quel bosco, oltre le alture attraversate a fatica il giorno prima, ma iniziò a temere che avrebbero dovuto trovare un riparo di fortuna e passare la notte lì, all’aperto. Non le piaceva per niente, soprattutto perché, in assenza di un rifugio chiuso, come la piccola grotta naturale in cui avevano già dormito, non avrebbe neanche potuto provare ad accendere un fuoco, per timore di farsi scoprire dagli inseguitori. Neve, freddo e animali selvatici: era una prospettiva desolante.

    In quel momento, sentì la ragazzina stringerle la mano e irrigidirsi, alle sue spalle. Si fermò, voltandosi. Non capì subito perché avesse sul viso quell’espressione sgomenta, ma poi anche lei li sentì: passi rapidi e concitati, alle loro spalle, che risuonavano nonostante fossero attutiti dalla neve sul sentiero. Un crepitio di rami secchi spezzati al passaggio.

    «Maledizione...», gemette, rendendosi conto che erano vicini. Troppo.

    D’impulso, attirò a sé la ragazzina e la portò alle proprie spalle, come se volesse difenderla.

    «Kendra!». Una voce maschile pronunciò di colpo il suo nome, e sembrò lo scoppio di un tuono improvviso. «Kendra, fermati! Non serve a niente continuare a scappare».

    Erano più vicini di quanto avesse previsto. Bastarono pochi battiti di cuore, perché li vedesse comparire tra gli alberi. Almeno in sei, forse qualcun altro più arretrato sul sentiero. Armati e corazzati, con i volti invisibili dietro alle celate degli elmi, e il simbolo degli Eldur, una stilizzata testa di lupo, inciso sullo scudo rotondo che ognuno di loro portava sul braccio sinistro. Davanti a tutti, l’uomo che aveva parlato, un giovane poco più grande di lei, che si fermò, affannato per la corsa, a meno di una decina di passi, fissandola dritta in faccia.

    A capo scoperto, con una

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