Il crinale del tempo
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Una sera di neve leggera Francesco si imbatte nel manifesto mortuario di un uomo che pensava di aver dimenticato. E lui, che come ghostwriter ha scritto le storie di altri, che ha prestato la propria penna e il talento per dare colori nuovi alle vicende personali di tanti – dagli invalidi ai partigiani e martiri fino a star dello spettacolo – capisce che è arrivato il momento di raccontare anche la propria storia, quella più dolorosa, quella della violenza che lui e il fratellino hanno subito da bambini per mano dello zio amato.
Si riapre così una ferita profonda che pensava rimarginata e dimenticata. Ed invece un dolore sordo e latente si riveste di nuove spine, e Francesco attingerà dalla scrittura l’energia positiva per affrontarla. Un po’ come gettare sale su una ferita aperta e solo poi cauterizzarla. Shock e sollievo che si alternano tra le righe in un procedimento circolare.
Si rivede sul balcone la sera che suo padre ha scacciato lo zio da quella casa “disonorandolo” con le male parole. Lo rivede le ore prima lavorare la terra del loro orto ignaro della rabbia dei suoi genitori, con quelle spalle ossute muoversi come tronconi di ali spezzate da angelo del male.
Ripercorrere i ricordi ha il senso di inondarli di luce, svelarli al mondo distruggendone il potere annichilente come il sole uccide un vampiro. Allora, meticolosamente, li riesuma lasciandoli scorrere come veleno antico e inefficace nelle vene perché siano anche antidoto al male di vivere con un tale peso. Così quello zio torvo che ha deviato l’innocenza dei due nipoti giovanissimi con una violenza sessuale non sarà più un trauma antico.
Una scrittura calibrata sulla ricerca del rispetto delle diverse sensibilità perché nella lettura nessuno inorridisca, ma quanto possibile lirica e alla ricerca di immagini e di idee propositive.
Il messaggio è che per la soluzione dei traumi della vita bisogna confidare nel proprio talento alimentandolo ed esercitandolo perché esso è luce. E la luce, anche la più fievole, sconfigge il buio. Sempre.
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Anteprima del libro
Il crinale del tempo - Vittorio Graziosi
Tavola dei Contenuti (TOC)
Il crinale del tempo
Postfazione di Paola Pompei *
golem / romanzo
©
2019
Miraggi Edizioni
via Mazzini
46
,
10123
Torino
www.miraggiedizioni.it
Opera pubblicata grazie all’intermediazione dell’agenzia Scriptorama
Progetto grafico Miraggi
Finito di stampare a Borgoricco (PD)
nel mese di novembre
2019
da Gruppo Logo srl
per conto di Miraggi Edizioni
su carta Book Cream Avorio
80
gr
Prima edizione digitale: novembre
2019
isbn
978-88-3386-100-5
Prima edizione cartacea: novembre
2019
isbn
978-88-3386-097-8
Il crinale del tempo
Nell’aria odore di spezie e sudore. Suoni di petto come di tamburi sommessi. La folla, una massa nera, un muro di occhi e di mani. Pioggia di gocce calde intorno.
Ali bumaye, Ali bumaye urla la gente come un canto di guerra. La danza di violenza e forza si compie nel perimetro di corde. Fino alla settima ripresa il tempo sa di sangue dolciastro in bocca per Ali, sangue da sputare nell’imbuto. E paura! Paura sana, da ingoiare intera per restare dritti.
Mancano ventuno secondi alla fine dell’ottava ripresa. Foreman è un gigante dai tanti capelli. Picchia duro, senza tregua. Muhammad Ali subisce, ciondola, si chiude e poi risponde, si piega sulle corde, guantoni a chiudere. Poi un diretto veloce, colpisce e si ritrae, nessuno se ne avvede. Foreman ha picchiato centinaia di volte sulle braccia, ai fianchi, ma da quel diretto – al minuto due e trentanovesimo secondo – non è più tanto sicuro di vincere. Un pensiero appena percepito, come sapore di paura in bocca.
Ma continua a picchiare, una macchina che non conosce l’inerzia.
Due braccia di piombo le sue, per l’avversario e per sé.
Uno… due… tre… quattro secondi! Muhammad Ali lo vede scartare a sinistra. Un gesto perso in migliaia di altri su un ring lungo dodici riprese. Gancio sinistro al mento, diretto al volto. Foreman crolla con una piroetta. L’ultimo balletto da campione del mondo.
Mancano otto secondi alla fine, ma sufficienti per contare fino a nove. La campana suona sul gesto dell’arbitro che allarga le braccia, come un airone farebbe con un bel paio d’ali sul fiume all’alba, il saluto al sole.
Un gesto che divide il quadrato in due. Sotto Foreman a terra stordito, schiacciato dal suo respiro pesante. Sopra, Muhammad Ali, che serra due possenti spalle lucide d’ebano alieno e le braccia al cielo. Tutto il resto – la storia del mondo intendo – può essere accaduto, ma prima o dopo di quell’attimo. Nell’ottobre del 1974. E io, allora, avevo una storia feroce da raccontare definitiva come un destino. L’avevo lasciata alle spalle da pochi mesi.
È terribile l’economia di un trauma. Indivisibile e ruvido nel cuore fintanto che non trovi l’antidoto. Se mai lo trovi.
Se non fosse stato per il manifesto, quel nome così comune sarebbe rimasto sepolto nel tempo trascorso.
Fissato con un chiodo pesante e lì lasciato – illudendomi – inoffensivo.
Era di pomeriggio tardi, la città ancora viva resisteva con la forza delle luci gialle di lampione all’insistenza della notte precoce. Era d’inverno e nevicava piano. C’è sempre un po’ d’amore latente nella neve. Sarà il silenzio perfetto, sarà la sua sofficità, sarà che un po’ anche il freddo si stempera ma io camminavo a braccetto alla mia serenità.
«Se vai al videonoleggio vedi di non prendere sempre quei dannati film d’azione. Per una volta puoi pensare anche a me, no? Magari una commedia brillante o una bella storia d’amore!» Le avevo sorriso mettendomi il cappotto. Avrei fatto a modo mio anche questa volta e lei alla fine si sarebbe seduta comunque a guardare il film. Sarebbe stato un film d’azione, ne sapevo anche il titolo. «Le commedie migliori erano fuori, le prendo la prossima volta. Guarda, leggi la trama. Vedrai ti piacerà.»
«Ah, prendi il pane fresco se lo vuoi… lo sai che io non lo mangio.» Mi fece rincorrere sulle scale dalle sue parole.
Finalmente solo
pensai involontariamente, e ne ebbi pudore.
Camminavo a passo lento. Se vuoi tenere la serenità a braccetto, devi seguire il suo passo. Lento, per l’appunto. Non avevo ansie da fronteggiare e la siepe altissima di neve mi aiutava a sentirmi felicemente solo. Sotto i miei passi, scricchiolio di neve come crosta di pane che si rompe. Poche centinaia di metri che cercavo di centellinare per il gusto di passeggiare. Poi lo vidi. Anzi, percepii un nome nel perimetro di un necrologio. Un muro bagnato di neve e nebbia alla luce del lampione dove lessi il suo nome e ne ebbi pietà. Cercai dentro di me quella capacità di perdonare che avevo esercitato tanto tempo prima e la trovai intatta, per fortuna.
Oggi è venuto a mancare, dopo breve malattia… Ne danno il triste annuncio… I pochi nomi che accompagnavano il morto erano tutti a me sconosciuti. Parenti e parenti di parenti e magari altre vittime, chissà.
La cosa non mi riguardava più, non avrei indagato di sicuro. Non so quante volte rilessi quelle parole e guardai quella foto, uno stallo. Una leggera vertigine. Poi mi allontanai da lì, comprai il pane per gustarlo fresco croccante e umido per cena e presi la videocassetta di un famoso film d’azione americano. La neve pensò a sciogliere i sospiri lasciati sulla strada. Non volli pensarci più. Ma non vi riuscii.
¶
I fogli sul tavolo, un piccolo mare bianco nel quale perdermi disegnando tracce come di rotte verso nuove anime. Inchiostro rigorosamente nero. Mi appresto a scrivere l’incipit. Quando succede, mi viene da dire che la vita è un atto felice.
Scrivere racconta la mia emozione di essere la vela che raccoglie il vento, che ispira il volo. Quel delicato delirio di soprannaturalità nel quale non ci sono cose da soppesare, valutazioni da fare. Solo ascoltare la vocina che ti dice: Vai, Francesco. Allarga le braccia e buttati
. In questo gesto non riconosco un’identità precisa. Nessuna complicità. Il vento stesso è indifferente ai miei sogni. Ma va nella direzione del mio guardare e tanto mi basta per lasciarmi andare. Ecco. Ho sempre pensato che questo sia scrivere. La penna puntata sul foglio, la mia personale immensità e poi… scrivo la prima parola e volo sul crinale del tempo. Il mio e quello dell’Universo. Eppure, un piccolo pezzo d’esso è fissato come una nave in una bottiglia di vetro. Il simulacro di un atto di libertà: navigare in mare aperto pur restando nella prigione di una barriera invisibile.
Quel manifesto tra la neve mi ha chiuso in una bolla vecchia e nuova. Urlo, ma nessuno sente, come fossi afono. Allora scrivo.
Oggi la penna ruffiana si avvinghia alle dita e mi chiede di ballare un tango.
Alle prime note, mi lascio andare.
¶
– Tutto a Ferragosto –
Spiccava borioso il nome incastonato nella cornice di ottone lucido: «Anna Bronci Spallani, Baronessa di Castano e Roccavill’Alta». Sembrava l’epitaffio di un tempo morto e sepolto. Unico vezzo nobiliare di quel centro storico rimesso a nuovo per i turisti appassionati di storia. Tra quel nome e la baronessa, quattro strati. Quattro piani del palazzo di famiglia. Il nome tra la gente, lei mai laggiù.
Nel silenzio della casa di buon mattino la carta croccava come una fetta di pane tostato. Non ci si abitua mai abbastanza alle parole di lusinga anche se non le credi sincere. Sono seta fine sulla pelle. Quella mattina aveva deciso di riesumarle da un vecchio cassetto mai più aperto, leggeva un po’ e poi chiudeva gli occhi per vedere se riusciva a ricordare il volto dell’ammiratore che gliel’aveva dedicate. Niente da fare, strati di tempo diverso avevano cancellato volti ed eventi. Mischiato le carte, strappato i fogli del libro della sua vita. Allora se le appoggiava sul petto e così a occhi chiusi si gustava lo scricchiolio del suo palazzo. «È la casa che respira», si diceva. La sentiva viva.
Anche il sole vi entrava poco a dire il vero. Rispettoso di tutti quei ricordi alimentati a sospiri vi appoggiava solo un raggio di quando in quando, e alla Baronessa andava bene così. Non aveva fretta, non aspettava nessuno e di nessuno necessitava, perché quindi far posto a così tanta luce da ferire gli occhi? Oggi aveva deciso che la novità sarebbe stata leggere qualcuna delle lettere della sua giovinezza, tenute insieme con un bel nastro rosso. Per il resto tutto era fatalmente identico a ogni altro giorno.
Già… fatalmente
, un aggettivo così pieno di accezioni e ognuna di queste azzeccate nella sua vita. Nel suo aspetto austero non aveva più cercato compromessi né trucchi, ma il suo viso angelico anche se solcato da delicate virgole di una vita spesa in sorrisi di cortesia era comunque una finestra in un panorama fatato.
Anche questo ambiente silenzioso, inevitabilmente limaccioso, perennemente in chiaroscuro rendeva l’atmosfera di un’altra epoca. Anzi no! Di nessun’epoca e per questo eterna.
E del resto con chi