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Le ali della vendetta
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E-book311 pagine4 ore

Le ali della vendetta

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Info su questo ebook

Maschere mortuarie sul volto di giovani donne assassinate. Cadaveri trasformati in mummie. Un prete trovato morto sull’altare della sua chiesa. Cinque omicidi in serie, dalla Calabria alla Sicilia, preannunciati a Roma da un artista di strada: tre api dorate sono la sua firma. Per Domitilla Di Mauro la vacanza a Taormina si trasforma in una caccia serrata a uno spietato serial killer, tra le bellezze dell’isola, i segreti di vecchi ospedali psichiatrici, le rivalità tra cosche mafiose, l’intelligenza di un ragazzino autistico, l’analisi grafologica e il mistero di un quadro rubato. Una nuova, appassionante avventura di Tobia Allievi e della squadra LT, con un ritmo frenetico scandito dai versi di una celebre poesia.
LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2019
ISBN9788863939057

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    Anteprima del libro

    Le ali della vendetta - Alberto Ripa

    Capitolo 1

    Domenica, 15 agosto 2010

    Il buio.

    Da piccolo lo aveva sempre temuto, come se l’assenza di luce fosse un segno di morte. L’oscurità era per lui l’anticamera dell’inferno, un abisso popolato da anime dannate che si impadronivano della sua mente. In quei momenti bui lui diventava un altro. Lo sapeva bene.

    C’era una sola arma di difesa: lo scacciapensieri. Un regalo di suo nonno per la cresima. Lo impugnava con la mano sinistra, se lo appoggiava sulle labbra e con il pollice dell’altra mano solleticava la linguetta metallica. Aveva imparato a modulare il suono aprendo e chiudendo la bocca, per ampliare e restringere la cassa acustica creata dalla cavità orale.

    Il suono non scacciava solo i pensieri: faceva fuggire anche gli spiriti maligni che aleggiavano intorno a lui, nel buio della stanza e della sua anima. La sua melodia era più minacciosa di un avvertimento mafioso.

    Non era mai guarito da quella fobia, ne era consapevole. Ma, almeno, aveva imparato a dominarla.

    Accarezzò lo scacciapensieri e ripensò a suo nonno.

    Osservò la piantina della Sicilia appesa alla parete. I suoi occhi di ghiaccio fissarono un punto preciso.

    Sorrise con un ghigno degno dei demoni che si stavano risvegliando.

    Anche se la stanza non era buia.

    Azekel N’Kono si risvegliò poco prima dell’alba, dopo la notte trascorsa all’addiaccio, su una spiaggia libera di Scilla. Sdraiato sulla sabbia, sopra una stuoia che da giorni gli faceva da giaciglio, sorrise agli unici compagni di viaggio che gli erano rimasti accanto: il buio e il silenzio. Mancava poco al sorgere del sole, eppure le costellazioni mattutine erano ancora ben visibili, in un anfiteatro naturale che gli ricordava la sua terra d’origine. La parola bambino non aveva alcun significato per lui: era diventato adulto a undici anni, quando suo padre era stato una delle tante vittime di un’epidemia che aveva falcidiato la popolazione della Sierra Leone. Sua madre lo aveva nominato capofamiglia, davanti ai fratelli più piccoli. «Ora sei tu che dovrai provvedere a tutti noi» si era sentito dire. «Crescerai più forte di tuo padre e ci proteggerai dagli uomini bianchi e dallo spirito del male.»

    Azekel era orgoglioso dei sacrifici fatti per i suoi familiari. Con i pochi soldi che aveva messo da parte, guadagnati svolgendo i lavori più umili, li aveva guidati verso un futuro che potesse contemplare la parola speranza. Lo scafista al quale si era rivolto aveva mantenuto la parola. Dopo un viaggio interminabile in balia delle onde, si erano ritrovati tutti nel centro di accoglienza di Lampedusa, in attesa di conoscere il loro nuovo destino. Azekel aveva scelto di essere artefice del suo.

    Il grido di un gabbiano lo distolse dai ricordi degli ultimi mesi. Le prime luci dell’alba in lontananza, alle sue spalle, non gli lasciavano alternativa: avrebbe dovuto sbrigarsi, prima che i suoi connazionali potessero conquistare le postazioni migliori, lungo il muretto che conduceva alla piazza del mercato. Si alzò in piedi, arrotolò la stuoia dopo averla liberata dalla sabbia, e incominciò a scavare. In pochi minuti recuperò il grosso sacco che la sera prima aveva nascosto in una buca sotto il suo giaciglio, come in una cassaforte.

    Sapeva che la giornata che stava per iniziare sarebbe stata diversa dalle altre: era una domenica speciale, una festa in piena estate di una religione che non era la sua. Non gli interessava comprenderne il significato: l’importante, per lui, era incontrare tanta gente per le strade.

    I morsi della fame si fecero sentire. L’ultimo pasto, solo un po’ di frutta, risaliva a più di un giorno prima. Aveva pochi spiccioli in tasca, appena sufficienti per un pacchetto di caramelle. Si chinò verso il sacco e lo accarezzò: gli sarebbe bastato vendere qualche oggetto di legno per sbarcare il lunario, almeno per un giorno.

    Mentre sognava una scodella di riso e una fetta di pane, non si accorse dello sconosciuto che lo aveva raggiunto alle spalle. Trasalì quando ne sentì la voce, fredda come la notte che aveva appena trascorso. L’uomo gli chiese quale fosse il suo nome e gli ordinò di mostrargli la sua merce. Azekel obbedì.

    «Sei proprio la persona che stavo cercando» sussurrò l’uomo, scandendo le parole. «Sono certo che mi potrai aiutare.»

    Azekel rimase ad ascoltare. La paura che lo aveva assalito lasciò il posto, nel suo cuore, a un sentimento di euforia, quando l’inatteso cliente gli mise tra le mani una mazzetta di banconote.

    «Questi dovrebbero bastarti per una settimana. Ora ascoltami bene: se eseguirai i miei ordini, te ne darò altrettanti domenica prossima.»

    Sarebbe stata questione di qualche giorno, poi avrebbe avuto un vero tetto per la notte. Azekel allungò istintivamente la mano destra, per suggellare l’accordo raggiunto, ma si trovò a stringere l’aria fresca del mattino. Vide l’uomo allontanarsi. Ne seguì i movimenti fino a una fila di barche incagliate sul litorale, all’inizio della spiaggia libera. Poi il buio lo avvolse nel suo manto scuro, facendolo scomparire come un fantasma.

    «Abbiamo vinto una battaglia, non la guerra.»

    Nell’aula bunker del tribunale di Palermo, Enrico De Filippi, procuratore distrettuale antimafia di Reggio Calabria, concluse il suo intervento con un’affermazione scontata, in linea con il suo carattere di uomo prudente, meticoloso e schivo.

    «Ringrazio il maresciallo Giannelli del Ros per aver portato a termine con successo l’operazione Inferno. È merito suo e della sua squadra se abbiamo catturato Ottavio Pindemonte, il boss della ’ndrangheta, lo scorso luglio a Scilla.»

    Tobia Allievi si unì ai presenti in un lungo e caloroso applauso.

    «Ho parlato di battaglia, non di guerra. La lotta alla ’ndrangheta non finisce certo qui. La reazione delle famiglie calabresi non si è fatta attendere: il successore di Ottavio Pindemonte è Salvatore Capuzzo, il suo fedele braccio destro, considerato già da tempo il vero boss. Ha esteso le sue mire oltre i confini regionali, tessendo una rete nel messinese, nel catanese e perfino nel nord Europa. È per questo motivo che il dottor Felice Chiari, procuratore nazionale antimafia, ha convocato i miei colleghi magistrati, i comandanti delle unità Ros di Calabria e Sicilia, e i vertici dell’Europol e dell’Eurojust.»

    Tobia si sentì onorato del suo coinvolgimento. Era seduto accanto a Vladimir Ripchenko, l’esperto informatico della squadra LT: a lui sarebbe toccato il compito di illustrare il programma di banche dati elaborato dall’Europol. Nella stessa fila c’erano i colleghi ispettori di Francia, Germania, Belgio e Russia, e il presidente dell’Eurojust.

    La notizia dell’arresto di Ottavio Pindemonte aveva messo in fibrillazione la direzione nazionale antimafia e le varie strutture da essa dipendenti. De Filippi fece notare che sarebbe stato necessario alzare il livello di guardia, e non solo in Italia.

    Tobia seguì i vari interventi con molta attenzione, cercando di non pensare a Domitilla e alla figlioletta Aurora che lo stavano aspettando a Taormina, per la vacanza che aveva loro promesso.

    La breve conferenza di Vladimir suscitò grande interesse e fu seguita da una raffica di domande.

    «Pizzini. Ve ne siete mai occupati, all’Europol?» chiese infine Claudio Gattinara, il procuratore distrettuale di Palermo.

    «Solo in parte. Ma la dottoressa Domitilla Di Mauro, un’esperta di terminologia, è la persona giusta per farlo. Il suo inserimento nella nostra squadra investigativa è stata una felice intuizione del nostro capo, l’ispettore Allievi, qui presente oggi.»

    Tobia fece un cenno di ringraziamento a Vladimir. Sentì gli sguardi dei magistrati e dei comandanti del Ros puntati su di sé.

    Ho un brutto presentimento, papà. Temo che la vacanza a Taormina possa andare in fumo.

    Barbara Passalacqua aveva dato appuntamento agli amici per la festa di quella sera. Era rimasta sul vago per giustificare la sua assenza all’aperitivo di Ferragosto in spiaggia, al Lido Paradiso di Marina di Scilla, un rito che si ripeteva da una decina d’anni. Come giornalista di Radio Dimensione Sicilia non si era lasciata sfuggire l’occasione che le era capitata: la soffiata le era sembrata convincente, non poteva rimandare l’incontro con una gola profonda nelle campagne di Melia, a pochi chilometri da Scilla.

    Barbara aveva da pochi giorni compiuto trent’anni. Era bionda, con due occhi verdi come smeraldi, alta e snella. La sua bellezza colpiva. Da ragazza aveva giocato a pallavolo, poi aveva studiato Scienze politiche e ora era una grintosa giornalista freelance. Una carriera aiutata dall’amicizia con Ezio Rossi, il noto caporedattore di un quotidiano dell’isola. I colleghi avevano malignato che «gliela avesse data», lei come risposta si era messa insieme a Pietro: una storia terminata pochi mesi prima delle vacanze estive.

    Ora era libera.

    Indossò un paio di shorts e una camicetta sul costume, calzò due comode ballerine e si mise al volante del suo Maggiolone giallo decappottabile, acquistato di seconda mano.

    Il sole era ormai basso all’orizzonte, le ombre degli alberi si allungavano sull’asfalto come se avessero voluto abbracciarla al suo passaggio. La lieve brezza le sferzava il viso, i capelli lunghi e ribelli erano in balia del soffio profumato della sera.

    Si lasciò alle spalle Scilla e affrontò le curve a gomito della statale che si inerpicava sull’Appennino. L’appuntamento era a pochi chilometri, in una zona disabitata.

    L’uomo che l’aveva contattata si era presentato come «un amico». Aveva vinto l’iniziale diffidenza e conquistato la fiducia della giornalista con un’informazione sul latitante Salvatore Capuzzo.

    Non solo Ros e magistrati, anche Barbara era sulle sue tracce. Un’indagine segreta, di cui pochissimi suoi collaboratori erano a conoscenza. Lo scoop del secolo, sugli intrecci tra mafia e potere. La curiosità e la voglia di sapere avevano prevalso sulla ragione e sulla prudenza.

    Barbara non aveva avuto il minimo sospetto.

    Raggiunse una piazzola panoramica e parcheggiò l’auto.

    Rimase in attesa, senza scendere dal Maggiolone.

    Nessuno si fece vivo.

    Frugò in cerca di una sigaretta nella borsa di corda sul sedile del passeggero.

    La distrazione le fu fatale.

    «Nicolò, hai visto Barbara?» chiese Claudio al barman.

    Nicolò stava preparando un cocktail di sua creazione. Si limitò a scuotere il capo, nel frastuono della musica. La spiaggia era una discoteca all’aperto, non ci entrava uno spillo. Le luci stroboscopiche ingannavano la vista, già annebbiata dai fumi dell’alcol.

    Claudio vide in lontananza una ragazza bionda dimenarsi in un ballo dionisiaco. Indossava una lunga gonna nera e una camicetta bianca. Pensò che fosse Barbara e le si avvicinò alle spalle. Le circondò la vita con un braccio, mentre con l’altro le porgeva la caipirinha.

    «Ma chi cazzo sei? Tieni giù le mani!» ringhiò la ragazza.

    Claudio balbettò le sue scuse e tornò sui suoi passi.

    Incrociò lo sguardo preoccupato di un amico, chiese anche a lui notizie di Barbara. «È quasi mezzanotte, avrebbe dovuto raggiungerci un’ora fa.»

    Il silenzio.

    Il suo suono, come nella canzone di Simon & Garfunkel, la sua preferita.

    C’era silenzio sulla collina. Nella sua testa, invece, solo voci, urla.

    Si specchiò nel cielo ceruleo di uno sguardo. Vide che la donna aveva le pupille dilatate dalla paura, nere come la morte che la stava aspettando.

    Non diede ascolto alla voce del silenzio.

    Agì.

    Un rumore sordo: il vaso si frantumò in mille pezzi sul pavimento.

    Antonio Pepe si svegliò di colpo. Si era addormentato qualche ora prima, cullato dalla musica che proveniva dalla spiaggia di Scilla. Restò immobile nel letto a fissare la porta socchiusa della stanza, trattenendo il respiro.

    Nessun rumore sospetto.

    Allungò il braccio destro in cerca della pistola ma non fece in tempo ad afferrarla. Sentì un peso piombargli all’improvviso sullo stomaco.

    «Notte, stupido randagio! È la volta che ti faccio castrare per davvero!» imprecò, trattenendo a stento una bestemmia.

    Accese la luce e fissò il suo gatto nero. Gli venne la pelle d’oca.

    Ritto sulle quattro zampe e con la schiena incurvata, Notte lo stava guardando con occhi terrorizzati. Emise un lungo miagolio che suonò come un lamento. Girò la testa in direzione della porta e balzò verso le scale, da dove era salito. Si fermò sul primo gradino ad aspettare.

    Antonio calzò un paio di sandali, impugnò la pistola, afferrò una torcia e seguì Notte. Si mosse con passi accorti tra i cocci sul pavimento, per non fare rumore. Una precauzione inutile.

    I botti dei fuochi d’artificio risuonarono in lontananza come la raffica di una mitragliatrice. I bagliori variopinti trasformarono il cielo nero di Scilla in una tavolozza con effetti caleidoscopici, ingigantiti dai riflessi del mare. Lo spettacolo pirotecnico di mezzanotte, il gran finale per la festa di Ferragosto, era appena incominciato. Grida di meraviglia e di giubilo echeggiarono dalla spiaggia tra le esplosioni dei razzi e la pioggia di colori.

    Antonio raggiunse la porta del laboratorio e imprecò di nuovo. «Notte, maledetto bastardo! Dove ti sei cacciato?»

    Accese la torcia e indirizzò il fascio di luce sul vetro della porta. Ammutolì: qualcuno era entrato nel laboratorio. Sentì un brivido correre lungo la schiena mentre abbassava la maniglia con cautela, per non fare rumore. Provò a spingere: la porta era chiusa.

    Si guardò attorno. I giochi di luce nel cielo proiettavano sul suolo alle sue spalle ombre minacciose, in continuo movimento. Respirò a fondo per calmarsi. Illuminò la serratura, alla ricerca del minimo segno di scasso. Nulla. Eppure…

    Usò la chiave che teneva appesa al collo per aprire la porta. Puntò il fascio di luce verso il tavolo di lavoro. Il barattolo della colla… Qualcuno lo aveva preso dall’armadietto e lo aveva lasciato bene in vista.

    Un pensiero angosciante: il violino!

    Ci aveva lavorato per mesi, su commissione. Era una questione d’onore. Se non avesse mantenuto la promessa, il committente gliela avrebbe fatta pagare. Uno sgarro da lavare con il sangue.

    Un rivolo di sudore freddo gli percorse la fronte.

    Antonio ansimava. Si avvicinò con circospezione a uno scaffale, mentre gli occhi gialli di Notte lo fissavano.

    Tirò un sospiro di sollievo quando vide che il violino era al suo posto.

    Notte lanciò un miagolio lancinante, e scattò fulmineo verso la finestrella.

    Un nuovo pensiero: l’autorimessa.

    Antonio non ci teneva nulla di prezioso, solo una piccola imbarcazione, ereditata dal padre pescatore. Si lasciò prendere dalla frenesia. Chiuse il magazzino e corse per cinquanta metri verso una costruzione isolata, con la pistola in pugno. Notte lo stava aspettando davanti all’ingresso.

    Da quanto tempo non apriva l’autorimessa? Da quando aveva deciso di fotografare la vecchia barca per metterla in vendita in un sito Internet. Erano passati alcuni mesi, da allora.

    Fece scorrere la serranda ed entrò nel locale. Rimase senza fiato quando vide i lumini accesi, ai piedi della barca che poggiava su due cavalletti. Sfilò il telo che la copriva: il cuore gli batteva all’impazzata. Avrebbe voluto urlare ma gli uscì solo un sussurro: «Dio mio».

    Sul fondo della barca c’era il corpo nudo di una giovane donna dai capelli lunghi e biondi. Il suo volto era nascosto da una maschera mortuaria. Sullo scafo c’era una frase, scritta con vernice rossa: A chi fa la spia.

    Notte lanciò un ultimo, straziante miagolio.

    Antonio si girò di scatto e puntò la pistola verso la serranda.

    Nessuno.

    Non c’era nessuno, là fuori.

    Il liutaio fissò i lumini accesi. Dalla quantità di cera fusa calcolò che l’assassino aveva agito già da qualche ora. Forse mi ero già addormentato, pensò.

    Provò a togliere la maschera funebre.

    Impallidì.

    La maschera era stata incollata al volto della donna.

    Capitolo 2

    Lunedì, 16 Agosto 2010

    «Rino, mi hanno detto che di te ci si può fidare.»

    Il vecchio pescatore mollò le reti sul pontile e si girò verso il molo. Vide un uomo di mezza età in piedi accanto al punto di attracco. Si augurò che fosse un nuovo cliente con il portafoglio gonfio, disposto a svenarsi pur di fare un figurone con gli amici. Indossava una camicia bianca, dei bermuda di colore rosso aragosta e calzava scarpette da barca a vela. Aveva in testa un cappello di paglia e nascondeva lo sguardo dietro un paio di occhiali da sole. Teneva tra le labbra un grosso sigaro, il cui aroma si mescolava all’odore del pesce appena pescato.

    «C’è un posto tranquillo per fare quattro chiacchiere?» si sentì chiedere. Colse in quella voce un vago accento straniero, che però aveva qualcosa di familiare.

    L’uomo gli mostrò un grosso rotolo di banconote da cinquanta euro. «È per il disturbo» aggiunse. «Puoi considerarlo un anticipo.»

    Il pescatore si guardò intorno. Il sole, ancora troppo basso sull’orizzonte, tinteggiava di rosso il cielo del Mediterraneo. Le sagome nere delle altre barche, all’imbocco del porto di Milazzo, spiccavano nerastre in controluce, mentre rientravano dopo la notte trascorsa in alto mare. Rino era stato il primo ad attraccare. Impartì alcuni ordini ai suoi uomini sul pontile.

    «Finite voi il lavoro. Ho una questione privata da risolvere.»

    Il maresciallo Vincenzo Giannelli era un uomo tozzo, sulla quarantina e dai capelli crespi e neri come la pece. Abituato a non lasciarsi ingannare dalle apparenze, squadrò con diffidenza il liutaio seduto di fronte a lui, dall’altra parte della sua scrivania: era stempiato, aveva il volto solcato da rughe profonde. Sapeva bene che dietro un’aria innocente poteva celarsi il peggiore dei delinquenti. Tartassò Pepe di domande, facendo i nomi di cosche mafiose e di pericolosi latitanti.

    «Ricapitoliamo per l’ultima volta. Ieri notte ha scoperto nella sua autorimessa il cadavere di una donna, con il volto nascosto da una maschera. Ha dato subito l’allarme e durante le prime indagini i miei colleghi hanno scoperto un dettaglio curioso: un violino a lei commissionato da un esponente della famiglia Capuzzo. La Famiglia, con la F maiuscola. Quali conclusioni trarrebbe se fosse al mio posto?»

    Il silenzio ostinato del liutaio fece perdere le staffe a Giannelli: «Cazzo! Mi risponde o no?».

    Pepe fissò smarrito il muro alle spalle del maresciallo. Si fece coraggio.

    «Ero senza soldi. Conoscevo le voci sui Capuzzo. È gente pericolosa, lo so. Ma non avevo scelta, ero con l’acqua alla gola. Rinunciare ai soldi e fare uno sgarro al clan, oppure…»

    «… entrare a far parte della famiglia. Quando ha conosciuto la donna?»

    «Voglio un avvocato.»

    «È un suo diritto, Pepe. Nell’attesa, pensi bene a come rispondere a queste domande: chi ha incollato la maschera sul volto della vittima e inserito i tappi di cera nelle sue orecchie, e chi è l’autore della scritta di vernice rossa sullo scafo?»

    «Non avrei dato un soldo per la tua barca, ma vedendo la plancia di comando devo ricredermi. Sembra di essere su una nave da crociera.»

    Il pescatore non ascoltò quelle lusinghe e chiese: «Chi sei?».

    L’uomo non rispose.

    «Potresti almeno dirmi per quale motivo dovrei accettare i tuoi soldi.»

    «Fallo per tuo padre.»

    Il vecchio sentì il sangue ribollire nelle vene. Non aveva dimenticato.

    «Come lo sai?»

    «Lo so e basta. Non fu un semplice incidente. Scommetto, però, che non conosci tutta la verità. Io posso aiutarti, non solo con questi.»

    L’uomo appoggiò la mazzetta di banconote sulla plancia di comando.

    «Sono cinquemila euro. Te ne darò altri ventimila se farai come dico io, e ti dirò il nome del bastardo che mise a tacere per sempre tuo padre.»

    Gli occhi del pescatore erano pieni d’odio. Il ricordo del genitore assassinato ravvivò la sete di vendetta.

    «Cosa dovrei fare per te?»

    L’uomo aspirò una lunga boccata dal suo sigaro. Guardò Rino negli occhi e gli spiegò il suo piano.

    «Tutto qui?» commentò Rino, incredulo.

    «Dovrai solo mantenere il sangue freddo. Ti assicuro che non è una trappola, e che non avrai nulla da perdere. Hai dieci secondi per decidere.»

    Il pescatore si lasciò guidare dall’istinto.

    «Affare fatto. A una condizione.»

    L’uomo fece scendere gli occhiali da sole sulla punta del naso e scrutò il vecchio attraverso lo spiraglio tra la montatura e la tesa del cappello.

    «Forse non ci siamo capiti. Da questo preciso momento non sei più tu a dare ordini, su questa bagnarola.»

    Il pescatore si irrigidì e ripeté la sua richiesta. «Dimmi chi sei. È un mio diritto sapere per chi dovrei lavorare, non ti pare?»

    Sul volto dell’uomo comparve un ghigno beffardo. «Sei proprio uno con le palle. Ho fatto bene a rivolgermi a te.» Diede a Rino un buffetto sulla guancia sinistra e sussurrò: «Puoi chiamarmi Spettro».

    Aurora non avrebbe voluto staccarsi dal capezzolo della madre. Il viaggio da Londra a Taormina, il giorno prima, l’aveva frastornata. Domitilla aveva avuto il suo da fare per calmarla, cantandole alcune canzoncine e riempiendola di coccole. Per fortuna, all’arrivo in Sicilia, la piccola si era subito abituata al clima caldo e secco dell’isola, e aveva trascorso una notte tranquilla.

    «Hai ritrovato l’appetito, tesorino mio! Da oggi pomeriggio iniziano le nostre vacanze, sei contenta?»

    Aurora, con la testolina appoggiata sulla spalla della madre, rispose con un piccolo verso di gioia.

    «Ora vedi di fare la brava. Ti lascio ad Annie. La mamma si deve assentare per qualche ora.» Con dolcezza adagiò Aurora nella culla, continuando a sorriderle. Poi si rivolse alla tata inglese: «Mio marito è arrivato ieri sera tardi da Palermo. Lasciamolo riposare, se lo merita. Ci ha portato in un paradiso: questa suite è un sogno».

    Annie annuì e sorrise.

    «Ora mi devo sbrigare, o farò tardi al congresso.»

    Erano passati solo tre mesi dalla nascita di Aurora, eppure Domitilla aveva già ritrovato la forma migliore: i buffi camicioni erano ormai un ricordo lontano, e avevano lasciato il posto ad abiti eleganti, come il tailleur estivo che aveva scelto di indossare per l’occasione.

    Dopo essersi fatta servire un cappuccino con brioche nell’ampia veranda dell’albergo, dall’incantevole vista sul mare, si diresse all’ingresso della sala conferenze. Notò un ragazzino intento a consultare il grande tabellone che riportava il programma della mattinata. Colse qualcosa di strano nel suo sguardo: era come se il ragazzo stesse fissando di sbieco uno dei nomi scritti

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