Tenetevi forte: espatriamo!
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Anteprima del libro
Tenetevi forte - Stefania Scardigli
no?
Preparativi
Da subito mi ha catturato l’entusiasmo per l’espatrio, anche se leggermente attutito all’idea che la meta non fosse particolarmente agognata, per me. In fondo ne sapevo veramente poco, sull’India: è uno stato o tanti? L’inglese è lingua ufficiale, ma che lingua parlano davvero, o quali, e quante? Tutte cose da scoprire. In fondo, poi, l’obiettivo sono i figli: l’espatrio servirà per dare un’occasione a loro.
Comincio a raccogliere un po’ di informazioni, cercando di mantenere la mente aperta e di non farmi influenzare troppo né dagli entusiasti né dai detrattori.
La città dove andremo è grande, una metropoli del Sud: Chennai, forse più nota come Madras, il suo nome da colonia britannica. Abitanti stimati tra i 4, 5 o 6 milioni (come stimati
? Non li hanno mai contati davvero? Le guide dicono cose diverse, Wikipedia anche, mah?). Devo sfogliare parecchie guide in libreria prima di trovarne una che non liquidi Chennai con la frasetta non c’è molto da vedere e fa un gran caldo, da passarci solo se si sta andando altrove
. L'unica guida che si dilunga un po' dice: "si trova a Sud, sul Golfo del Bengala. Ha una delle più lunghe spiagge urbane del mondo, Marina Beach. Ha tre stagioni: hot, hotter e hottest". Non molto incoraggiante.
Una volta verificato che ci sia una scuola internazionale a cui poter iscrivere i figli, la nostra conditio sine qua non, setaccio la rete, leggendo i blog di chi ci è approdato prima di me e, come al solito in rete, trovo tutto e il contrario di tutto. Mi colpiscono soprattutto le notizie sulle condizioni igieniche: molte blogger raccontano che è necessario lavare sempre la verdura che si vuole consumare cruda con qualche disinfettante alimentare e che è assolutamente vietato bere l’acqua corrente del rubinetto, o anche solo usarla per lavarsi i denti, per evitare fastidiose infezioni e gastroenteriti dure a passare. Non mi soffermo molto, penso che siano cose che verificherò sul posto, non voglio farmi intimidire dall’eccesso di informazioni. Certo altri non la pensano come me: leggo su un forum la domanda di un’americana in procinto di trasferirsi con famiglia e cane al seguito che chiede se dovrà lavare i pavimenti con l’acqua potabile, per proteggere il cane da qualche contaminazione. Classifico mentalmente il patema d’animo come eccentrico, e cambio sito.
Alla fine mi accontento di alcune nozioni di sopravvivenza. Non voglio rovinarmi la sorpresa. O forse non voglio accrescere l’ansia, e preferisco non sapere. Carlo, mio marito, cerca timidamente di mettermi in guardia. Per lo meno di non farmi arrivare completamente impreparata, con la valigia leggera del mio ignaro ottimismo. Conosce la mia tendenza a idealizzare, a non lesinare l’entusiasmo quando si parla di viaggi e partenze, e credo voglia proteggermi da aspettative troppo distanti dalla realtà. Ha passato qualche giorno a Chennai per prendere contatto con il suo nuovo ufficio, e cautamente mi racconta qualcosa per darmi un’idea. Dice che, quando piove, per strada c’è parecchia acqua che ristagna
e che le strade, in pratica, diventano quasi dei fiumi: In generale la città è piuttosto caotica. Cerca di non fare paragoni con quel che ti ricordi di Seul, perché a Chennai sono un po’ più indietro
.
Rimugino: a Seul ci siamo stati appena sposati, circa quattordici anni prima. L’espatrio era stato molto bello e interessante, ma certo eravamo sposini, senza figli, per un anno soli dall’altra parte del mondo: forse qualunque posto sarebbe stato bello. Poi sono rimasta incinta del mio primo figlio, il progetto su cui lavorava mio marito è terminato, e così siamo rientrati in Italia.
A Chennai, dice Carlo, sono più indietro ora rispetto a Seul quattordici anni fa. Questa considerazione comincia a far suonare qualche campanello d’allarme nella mia mente, ma io lo zittisco brutalmente, come ignoro deliberatamente quella sensazione di chiusura alla bocca dello stomaco quando penso a quello che dovranno affrontare i miei figli in una scuola nuova, in un’altra lingua. Il piccolo, soprattutto, che con l’inglese imparato alle elementari di sicuro dovrà fare sforzi enormi.
Ormai ho le ali spiegate: espatrio, si va, mollo tutto e parto, il mio sogno di sempre. Addio al lavoro che da qualche tempo mi sta sempre più stretto; addio alle routine quotidiane, alle solite facce. Cosa sarà mai qualche difficoltà, si tratta solo di abituarsi a qualcosa di diverso, in fondo l’India è un paese in via di sviluppo, è uno dei BRICs, si sa. Già mi vedo affaccendata ad organizzare la nuova vita: chi se ne importa di dove siamo, i figli andranno alla scuola internazionale, ci apriamo gli orizzonti, frequenteremo gente di tutto il mondo!
Le reazioni di amici e conoscenti, che cominciamo via via a informare della novità e a salutare, sono diverse. Da un lato c’è chi palesemente ci invidia per avere l’occasione di lasciare l’Italia in un periodo non proprio brillante, per poter offrire ai ragazzi l’opportunità di studiare all’estero, e fantastica sugli agi della vita in espatrio. Dall’altro c’è chi ci scruta con apprensione mista a commiserazione e commenta: i posti dove vi manda la ditta di tuo marito non mi piacciono….
, e dà il via alle domande di sopravvivenza spicciola: ma si trova la pasta?, e il pane?
Ci sono altissime aspettative per la vita glamour: chissà che trattamento, chissà che benessere, chissà che vita da sciura che ti aspetta… Già: chissà.
Più si avvicina il giorno della partenza, più la spavalderia che avevo all’inizio per la novità fa spazio al groppo in gola per le preoccupazioni inevitabilmente generate dal non sapere a cosa si va incontro. Ma sono determinata a non pensarci, a non farmi bloccare da ansie e paure.
Intanto preparo le valigie. Casa non ne abbiamo ancora, il preavviso con cui ci hanno detto che saremmo partiti è stato decisamente insufficiente per organizzarsi al trasloco. Quindi niente mobili o container, portiamo solo gli effetti personali: una valigia grande e un trolley a testa, poco più che se partissimo per un mese di ferie. Incarico i ragazzi di scegliere un libro o due e un gioco o due da cui non vogliono separarsi; il resto è vestiario. Quasi esclusivamente estivo, visto che sembra faccia sempre caldo.
Ci hanno prenotato il viaggio via Francoforte. La partenza cade esattamente il giorno di settembre in cui i nostri figli avrebbero dovuto iniziare la scuola in Italia: prima superiore per Jacopo, prima media per Giona. Un buon momento per partire, mi dico, dato che avrebbero comunque cambiato scuola entrambi. Certo questo più che un cambiamento per loro è un triplo salto mortale all’indietro con avvitamento, ma ormai ci siamo.
A Chennai la scuola Americana dove li abbiamo iscritti è cominciata all’inizio di agosto. Mi preoccupa, oltre a tutto il resto, anche che si debbano inserire in gruppi già formati, ma decido di mettere a tacere il più possibile anche quest’ansia e da sola mi auto convinco che una scuola internazionale è il posto migliore dove andare, perché sono sicuramente tutti abituati ad arrivi e partenze nel corso dell’anno, sia gli insegnanti che i compagni di classe.
Durante il volo non dormo gran che, non riesco a godermi i film a bordo, e nemmeno il mio battesimo in Business Class. Continuo a pensare a cosa ci aspetta, anche se non riesco a concretizzare l’oggetto delle mie preoccupazioni. È tutto l’insieme che mi terrorizza e, allo stesso tempo, mi entusiasma. Stiamo partendo dopo solo poco più di quattro settimane da quando ci hanno dato la notizia, con quattro valigie e quattro bagagli a mano; un baule è stato spedito dall'ufficio con le racchette da tennis, parecchi Lego e libri e vocabolari. Poco tempo per organizzarsi a cambiare vita, ma tanto ci hanno detto che sarà solo per un anno.
L’impatto
La prima impressione è che l’India è estrema, senza vie di mezzo, brutale nella schiettezza, sia che tu veda il bello o che tu veda il brutto. Quando ci arrivi, puoi sentire immediatamente un senso di familiarità, di essere a casa; oppure sentire profondamente l’istinto della fuga, il non essere al tuo posto. Entrambe le sensazioni sono viscerali e profonde, proprio come è l’India e tutto quello che c’è dentro.
Io ho avuto l’istinto di scappare.
È notte fonda quando atterriamo all’aeroporto internazionale di Chennai, anzi mattino: le due, circa.
La mia prima impressione è tutt’altro che favolosa. Nonostante la stanchezza, è difficile non notare le pareti scrostate dell’aeroporto e la moquette che si stacca dal pavimento arricciolandosi agli angoli. Nel corridoio che ci porta al controllo passaporti c’è un’enorme statua di una dea con molte braccia, che solleva una gamba in un passo di danza. Dovrebbe essere un benvenuto, ma io la trovo un po’ inquietante. Dopo le formalità d’ingresso, all’uscita troviamo un impiegato dell’albergo che è venuto a prenderci: ci aspetta col classico foglio col nostro nome. Abbiamo richiesto due macchine, una per le valigie e una per noi. Seguiamo fuori dall’edificio il nostro accompagnatore che spinge il carrello carico di bagagli tra la folla che si ammassa in strada. Il caldo umido denso di odori ci assale dopo tante ore di asettica aria condizionata, il suono dei clacson è ovunque intorno a noi, mi fa stare in allarme; cani randagi, che spero non si avvicinino troppo anche se sembrano innocui, girovagano in mezzo alla marea di gente; una brezza calda fa svolazzare cartacce e altri rifiuti buttati in giro; le persone sono vestite in modo per me del tutto nuovo: donne in sari; uomini in camicia e con una specie di tovaglia legata in vita, chi lasciata lunga fino alle caviglie, chi tirata su alle ginocchia. Il colpo d’occhio è travolgente. Tutta questa confusione mi distrae dai nostri bagagli, non li vedo più, come non riconosco più il nostro accompagnatore in mezzo alla folla. Carlo, dove sono finiti i bagagli?
, chiedo con ansia a mio marito.
Tranquilla, le valigie sono su una delle due macchine, lì in fondo. Il nostro autista è questo bassetto coi baffi qui davanti.
Da quel che vedo, gli uomini intorno a noi sono tutti ‘bassetti coi baffi’.
La cosa mi stressa un po’: avrei voluto seguire bene tutto quello che succedeva. Tengo i figli stretti per mano: loro non voglio assolutamente perderli di vista.
Abbiamo richiesto due camere comunicanti in un albergo in zona semi-centrale dove arriviamo dopo un tempo che non riesco a definire. Dai finestrini dell’auto non vedo molto intorno a noi, fuori è buio pesto. L’albergo sarà la nostra casa, all’inizio: abbiamo avuto giusto il tempo per iscrivere i ragazzi a scuola e ottenere i visti, e quindi dobbiamo ancora trovare un’abitazione definitiva.
La hall dell’hotel a quest’ora è quasi deserta; entrando sento un forte odore di cherosene o qualcosa del genere: mi spiegano con orgoglio che l’edificio è nuovo, stanno ancora finendo di ultimarlo; quello che sento dev’essere l’odore del nuovo in India. La receptionist si prende il suo tempo, mi sembra che non finisca mai di aprire e chiudere i passaporti, inserire dati, confrontare pagamenti. Noi cominciamo a essere stravolti dalla stanchezza e dalle novità, non vedo l’ora di sdraiarmi in un letto come si deve, di riappropriarmi di un po’ di privacy dopo tutte le ore di viaggio. I ragazzi sono visibilmente stanchi ma non si lamentano né aprono bocca. Quando gli abbiamo dato la notizia, qualche settimana fa, il grande sembrava abbastanza contento, stimolato dalla novità; il piccolo invece ammutoliva ogni volta che, salutando qualcuno, immediatamente scattava la fatidica domanda: In India? Sei contento?
. Per lui sarebbe stato più facile immaginarsi Paperopoli dell’India: che ne sapeva, poverino. La tensione è salita sensibilmente con l’avvicinarsi dell’inizio della scuola: tutti i loro vecchi compagni a comprare libri e quaderni, a confrontare orari e professori, e i miei due tagliati fuori del tutto, in attesa di un futuro assolutamente sconosciuto. Paese nuovo, scuola nuova, lingua nuova. Mi ripeto che i ragazzi sono velocissimi a imparare e non avranno grandi problemi. È il mio mantra, tanto per restare in tema.
Vedo arrivare le nostre valigie su un carrello nella hall e mi sento sollevata: ci sono tutte. A essere sincera non ci speravo. Invece per le camere c’è un piccolo problema: le due stanze sono sì comunicanti, ma non si trova la chiave per aprire la porta che le congiunge. Aspettiamo ancora un po’ mentre gli impiegati alla reception confabulano, poi la stanchezza ha il sopravvento, saliamo a riposare, ad aprire la porta ci penseremo domani. Ci dividiamo i bagagli, noi da una parte, i figli dall’altra. La prima notte a Chennai con una porta chiusa a chiave in mezzo, affacciati sul corridoio per darsi la buona notte. Non ero consapevole di essere una control freak
, ma me ne accorgo presto; perché qui il controllo della situazione non fa che sfuggirmi.
Non bevete l’acqua del rubinetto, mi raccomando!
, faccio irruzione in bagno, dove uno dei miei figli è appena entrato.
Ma la posso usare o no?
Ripenso ai blog che mettevano in guardia sull’uso dell’acqua corrente e delle possibili infezioni che può portare quando non ci si è abituati. Ma noi non siamo turisti, perbacco!, qui siamo venuti a viverci, quindi è inutile lavarsi i denti con l’acqua in bottiglia, mica possiamo farlo per un anno intero.
Beh, per lavarsi sì. Ma quando ti sciacqui la bocca ricordati di non inghiottirla.
Se dobbiamo prenderci qualche batterio, meglio subito, così ci facciamo gli anticorpi e non ci pensiamo più.
La mattina dopo quando mi sveglio mi guardo intorno stranita: non mi sembra possibile che stia succedendo davvero, sembra un film, forse sto ancora sognando che andrò in India. Mio marito deve andare in ufficio, i ragazzi invece cominceranno la scuola solo tra qualche giorno. Mi ritrovo sola coi figli e col dovere morale di mettere in luce esclusivamente gli aspetti positivi di questa nuova avventura.
Quando i ragazzi si svegliano passo loro le magliette pulite nel corridoio e scendiamo a fare colazione al buffet dell’albergo. Fortunatamente non ci