Due Bracchi per il Cacciatore
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Anteprima del libro
Due Bracchi per il Cacciatore - Carlo Graziano
cuore
L’iniziazione
Al ritorno dal servizio militare trovo a casa due sorprese: un’auto ed un fucile, che mio padre aveva acquistato da un suo amico.
La macchina era sicuramente la cosa più gradita per un giovane, specialmente in un periodo di boom automobilistico. Ovviamente le mie cure ed attenzioni si concentrarono su di essa. Un giorno, poi, venne spontanea farsi una domanda: cosa ne faccio del fucile? L’arma, una vecchia doppietta a cani esterni, in fondo non mi dispiaceva. Avevo fatto sino a poco tempo prima l’istruttore agli allievi ufficiali in una scuola di artiglieria, e di armi, seppur da guerra, avevo una buona pratica. Mi domandai che, forse, avrei potuto andare a caccia, anche se prima la cosa non mi era mai passata per la testa. Probabilmente ad influenzarmi sono stati i ricordi dell’infanzia. Sono nato alla Bodina, un borgo immerso nella natura di una vallata nel territorio di Portacomaro in provincia di Asti. Qui i cacciatori erano moltissimi e possiamo tranquillamente affermare che la caccia era una componente di quella società contadina. I bambini, che amavano giocare agli indiani ed alla guerra, ammiravano quegli uomini con il fucile vero ed alla cintola la cartuccera che metteva in bella mostra i fondelli luccicanti delle cartucce. Queste esteticamente erano bellissime, con l’involucro in cartone dai colori vivaci dove spiccavano nitide le figure di lepri, fagiani o pernici. Le cartucce ( quelle sparate ) erano ambitissime dai bambini, e quando vedevano un cacciatore gli correvano incontro ponendo sempre la solita domanda: hai una cartuccia? Con i vecchi cacciatori locali la risposta era quasi sempre negativa perchè essi sparavano, come dicevano loro, solo se ne valeva la pena; poi molti si facevano le ricariche in casa. Diversa cosa era per i forestieri che venivano dalla città e che in genere erano più propensi allo sparo. Anche per i ragazzini era consuetudine andare a caccia di nidi di uccelli, pratica un po’ spericolata perché comportava l’arrampicarsi, tra l’altro, su alberi d’alto fusto. Che fine era riservata agli uccellini? Le specie che normalmente si cibano di granaglie, tipo i passeracei, e che da un punto di vista estetico non erano particolarmente attraenti, finivano in padella. Per quanto concerneva altri, tipo merli, cardellini, verdoni ecc., si tentava di allevarli. Se il nido era stato scovato nelle vicinanze delle abitazioni, li si mettevano in una gabbia posizionata nei pressi. I piccoli continuavano così ad essere alimentati dai genitori. Questi, però, ad un certo punto smettevano di portare loro il cibo, e se non si era attenti a provvedere direttamente, essi morivano. Secondo la credenza popolare si riteneva che fossero gli stessi genitori, non potendoli vedere liberi, ad avvelenarli.
Con questa tecnica, da bambino, ho allevato una cinciallegra prelevata da un nido scovato tra i rami dell’ippocastano che ombreggiava il cortile di casa. Ma, se tenere un uccelletto in gabbia dava qualche soddisfazione, tutt’altra faccenda era poter addomesticarne uno. La cosa era abbastanza fattibile con le specie onnivore e di taglia un po’ più grande quali gazze, ghiandaie e merli. E proprio con un merlo ho ottenuto un bel successo. Lo nutrivo con grilli, cavallette e con impasti di farina di granoturco ed insalata tritata. In breve tempo divenne mio amico, lo chiamai Ghezzo e lo tenevo in condizione di semi libertà chiudendolo in gabbia solo di notte, od in mia assenza per proteggerlo dai gatti. Era perfettamente addomesticato, rispondeva ai miei comandi, soleva appollaiarsi su una spalla, fare brevi voli e quindi ritornare nalla posizione di partenza. Proprio questa sua abitudine è stata la causa della sua fine. Avevo terminato di mangiare ed uscendo dalla cucina mi sono tirato dietro la porta per chiuderla, ma proprio nel mentre Ghezzo, che era a terra per raccogliere le briciole, ha spiccato il volo per raggiungermi ed è stato pizzicato tra l’anta e lo stipite. Cadde a terra esanime e, seguendo una vecchia credenza, mia madre provò a rianimarlo mettendolo sotto una pentola, ma tutto fu inutile. Quello è stato uno dei dolori dell’infanzia che ancora ricordo.
I ragazzini praticavano anche la caccia con la fionda che si costruivano con un pezzo di ramo a forma di Y ed elastici ricavati da una camera d’aria rottamata di un ciclo o motociclo. Con questa attività le prede erano scarse, ma ti permetteva di vagare per la campagna, di conoscere i vari tipi di sevaggina e le loro abitudini.
Maggiori risultati, anzi decisamente non comparabili con la fionda, erano ottenuti con la passerella
che, come si può intuire dal nome, serviva