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Ipotesi di Cacciatore
Ipotesi di Cacciatore
Ipotesi di Cacciatore
E-book184 pagine2 ore

Ipotesi di Cacciatore

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Info su questo ebook

Il più controverso e scandaloso romanzo italiano sulla tematica venatoria, capace di coinvolgere, in un vorticoso susseguirsi di ipotesi vitali del suo inquieto amante protagonista, qualunque lettore, a sua volta toccato dall'intimo percorso umano, psicologico e spirituale, sospinto verso un'imprevedibile conclusione.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2019
ISBN9788827866986
Ipotesi di Cacciatore

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    Anteprima del libro

    Ipotesi di Cacciatore - Gregorio Ponci

    animali)

    NON PREFAZIONE

    Non se ne abbiano a male i lettori se premetto di non essere generalmente incline a redigere prefazioni e scelgo così di scrivere una non prefazione. Ciò del resto non dovrebbe contrariare in un periodo in cui gli statuti vengono elaborati quali non statuti. Quando l’autore mi espresse la sua intenzione di pubblicare per la prima volta a sua firma un romanzo psicologico intorno alla figura di un cacciatore offrendomi il ruolo di prefatore, ebbi l’istinto di fuggire come mi fossi istintivamente immedesimato in una preda. Avendo effettivamente da terminare due relazioni che procrastinavo da tempo, fui in procinto di abbozzare una scusa, quando incontrai il suo sguardo divertito nell’osservarmi.

    Ebbe la capacità silenziosamente sfrontata di indispettirmi e così accettai con una mezza intenzione di scovare nel racconto ogni pedanteria scolastica che potesse dirsi ormai desueta. Al contrario dopo qualche pagina rimasi un po’ disorientato. Scorsi un paio di decine di queste e mi ritrovai a sorridere divertito. Poi di nuovo perplesso come un passeggero su di un mezzo che cambia itinerario e modo di guida pur intendendo raggiungere una meta prestabilita. La singolarità non è percepita solo attraverso l’uso del linguaggio e della sintassi, certamente di abile e consumato spadaccino della scrittura, ma dal rendere plausibile qualcosa che oggettivamente non dovrebbe essere tale.

    Un romanzo artificiale, freddamente costruito secondo i dettami della psicopatologia della vita quotidiana di freudiana memoria, che diventa a tutti gli effetti uno spontaneo godibilissimo racconto da leggersi tutto d’un fiato.

    Se non mi fosse stato noto il suo intento e non conoscessi da anni l’autore, avrei creduto ad un’eccentrica genuina divertente autobiografia. Il paradosso e la metafora vengono adoperati con una speciale sensibilità che li vuole sospingere delicatamente nel vissuto ordinario a cui lo scrittore, sapientemente, attribuisce ogni illogicità digerita ed accettata come vita di tutti e di tutti i giorni.

    Pensai che ogni famiglia tenesse una scatola chiusa con su del nastro isolante disposto sopra a croce scrive emblematicamente. Ampio è l’uso dei simboli, che vengono tuttavia scelti con una sorta di accorgimento mimetico, quasi li si volesse dimessi, appena sottotono. Le grandi immagini totemiche classiche lasciano il posto all’apparentemente innocuo corredo famigliare di lenzuola, quale abbraccio materno prolungato e accogliente, consumato, nascosto. Persino l’abbigliamento intimo viene investito di una responsabilità che attinge alla sfera della sessualità, circoscritta da paure e desideri, taciuta e celata sino a quando immancabilmente non confessi la sua incomprimibile presenza.

    Il personaggio principale viene illuminato e reso riconoscibile dal riflesso delle altre figure, assolutamente integrate ed integranti, così come sono i famigliari, gli amici, i colleghi e le frequentazioni abituali. L’ho detestato, compreso e condiviso al tempo stesso, ridendo, sognando e sentendo con lui in rapida ed inconsueta successione, vagliando ipotesi contrapposte.

    L’ambiente di caccia è curato, riconoscibile dagli appassionati e percorribile anche da chi non vi sia avvezzo. I cani, la selvaggina, le armi sono descritte talvolta come un dipinto soffuso ed altre con crudezza tecnica spietata.

    La trama sembra inerpicarsi su sentieri ipotetici che improvvisamente si biforcano. Pare lasciare il terreno battuto per inoltrarsi nel fitto della boscaglia, sino a stati onirici raggiunti dopo umanissime peripezie dell’animo.

    Questo cacciatore percorre sicuramente un lungo cammino in un tempo che sembra accelerato, forse sino a correre rischi mortali, sino ad un cambiamento incerto e non apertamente dichiarato. L’imprevedibilità della fine non mi ha sorpreso, perché la sua originalità sembrava essere anticipata dalle immagini dei sogni.

    Lo stupore mi ha invece colto nell’andare oltre, cosa che lo stesso autore mi raccomandò di non fare prima di aver terminato la lettura e che a mia volta consiglio. Nel trovare la premeditata rivisitazione attualizzata di ciò che, sempre mantenendo un’ipotesi contestuale, forse già accadde anticamente. Buona lettura.

    M.P.

    Ipotesi di cacciatore

    Origini del perché nessuno chieda perché

    Chissà perché nessuno mi ha mai domandato come fossi diventato un cacciatore.

    A dire il vero le persone ti chiedono come tu sia divenuto questo o quello solo se si tratta di una particolare stranezza o se è qualcosa che vorrebbero fare a loro volta senza sapere come riuscirci da soli.

    Ma la caccia non ha nulla di strano e chiunque voglia diventare un cacciatore sa benissimo come fare, perché ha di sicuro già visto come avviene.

    Compri il necessario e prendi il patentino, non facendo nient’altro che ripetere quello che hai già visto combinare da altri prima di te.

    Prima di diventare cacciatore o lo desideri fortemente o in una certa maniera già senti di essere destinato ad esserlo, anche senza averlo potuto ancora manifestare completamente. Quando accompagni qualcuno a caccia, non serve che tu sia armato o che tu prema il grilletto per sentirti cacciatore, basta desiderarlo. È sufficiente essere in quel posto, in quel preciso momento e non pensare che a quello. È lì che tutto inizia. Accade quando tu incominci a volere che ciò si realizzi desiderandolo.

    A volte anche solo non escludendolo. Diventi quello che in parte già sei.

    Se mi guardo indietro, con tutto lo sforzo che occorre per poterlo fare lucidamente, almeno per quanto mi riguarda, io fui sempre un cacciatore.

    Mio padre lo fu prima di me, come mio nonno, il quale diceva che pure suo padre e suo nonno lo fossero stati.

    La nostra famiglia affonda le sue origini, sin dal 18° secolo, in un paesetto in provincia di Pavia: Cilavinnis, Cellavegna, Celavegno, detta in dialetto Silavegna, Siravegna; odierna Cilavegna, che conta adesso più di 5000 abitanti su una superficie di 18 km quadrati.

    Il re Berengario I, Marchese del Friuli, Re d'Italia e Imperatore dei Romani, della casata degli Unrochingi, dinastia franca da Unroch II Duca del Friuli, che morì poi senza lasciare eredi maschi, concesse al Vescovo di Pavia nel 911, il privilegio di costruirvi un castello.

    Così ebbe origine Cilavegna, la cui etimologia del nome richiamerebbe il Cielo di Venere, per la bellezza singolare delle donne che vi si trovarono, nonché le vigne generose, che pure la contraddistinsero.

    Edificata in una pianura circondata da fitti boschi popolati da abbondante selvaggina, ha visto l’agricoltura prevalere, in seguito declinare in parte ed infine riprendere in limitati settori.

    Dotata di una capillare rete di canali, di fossi sostenuti da fontanili, di filari simmetrici di pioppi a delimitare cascine in mezzo a risaie e campi, vede, in tratti improvvisamente sabbiosi, far capolino a maggio l’asparago pregiato.

    Chi meglio dei cacciatori miei avi poté esercitare il mestiere del guardiacaccia, di prevenzione del bracconaggio e degli abusi che troppo spesso, complice prima la fame e poi il vizio, macchiarono e ancora disonorano l’attività venatoria?

    Essi seppero distinguersi acquisendo via via una certa posizione sociale, un ruolo di rilievo, un’autorità dipendente che li rese desiderabili agli occhi di spose avvenenti e piene di semplice fascino naturale, a differenza loro spesso illetterate e sottomesse, ma desiderose di esprimere l’amore materno e la fedeltà coniugale sopra ogni altra cosa. La rimarchevole bellezza delle nostre madri, mitigò nelle generazioni i tratti piuttosto marcati dei nostri padri che trasmisero, a loro volta, la laboriosità e l’energia loro proprie.

    Quando da capi guardie campestri prima, forestali poi, i miei avi si dedicarono maggiormente agli studi o agli affari divenendo veterinari, commercianti, agenti di borsa e imprenditori, la passione per la caccia continuò comunque a tramandarsi ed essere famigliarmente celebrata come spiccato elemento di distinzione sociale.

    Come cacciare un cappello da caccia

    Da bambino ebbi tra le mie letture preferite Davy Crockett, un leggendario cacciatore del Tennessee eletto eroe popolare persino da noi al di qua dell’oceano, che della caccia a tassi, opossum e orsi, ben poco ne sapevamo.

    Il suo inventato copricapo, parte dell’ancor più improbabile costume affibbiatogli dalla letteratura per ragazzi e dai molti film che l’ebbero come personaggio principale, comparve sulla testa dei fumetti paperini delle giovani marmotte e persino su qualche capoccia di ragazzino delle scuole elementari, con la sua coda pendula a strisce e il suo calore esagerato anche per i nostri inverni più freddi.

    Lo invidiai così tanto ad un mio compagno di classe che lo sfoggiava insieme ad una giacca di pelle sfrangiata, da comperarne poi uno ben diverso, ma sempre di pelliccia, in età adulta.

    A dire il vero feci addebitare alla mia azienda l’acquisto di un mastodontico cappello di pelliccia d’orso siberiano in occasione di una mia trasferta di lavoro proprio in quelle zone russe.

    Certi desideri non invecchiano mai con gli anni, solo si trasformano, a volte di poco o niente, altre volte tanto da non farne più intravedere l’origine.

    Me lo comperai e lo misi dentro la lista dei generi indispensabili e prioritari. Il mio supervisore, con il quale c’era una grande confidenza per lunga frequentazione, mi chiamò nel suo ufficio quando si avvide dell’elenco dettagliato delle spese.

    «Viscardo» mi disse andando subito al sodo «Ma cos’è questo addebito di 1.300 euro per un capo di abbigliamento ritenuto indispensabile e urgente, acquistato quando eri in Russia per lavoro? »

    «Un cappello» risposi compiaciuto.

    I suoi utili dipendevano in larga misura dal mio lavoro, svolto andando su e giù, in lungo e in largo senza risparmiarmi fatiche e levatacce, mentre lui se ne stava comodamente seduto alla sua scrivania presidenziale intessendo rapporti di lavoro con l’occasionale sollevamento di un telefono niente affatto pesante. Potevo ben permettermi di comprare quel cappello di pelliccia. Ne avevo tutto il diritto.

    «Un cappello da 1.300 euro? Ma che cappello è? » esclamò sbalordito.

    «Un cappello di pelliccia d’orso siberiano» continuai tranquillamente.

    «E c’era l’urgenza di comprarsi un cappello di pelo d’orso siberiano da 1.300 euro per dieci giorni di Russia? Un simile acquisto straordinario avrebbe avuto la necessità di un’autorizzazione di spesa! Te lo scalerò dal tuo stipendio!"» mi incalzò arrossendo di rabbia.

    Credo si sentisse minacciato nella sua autorevolezza, almeno quanto io mi sentivo usato come semplice manovalanza. Tutti e due ne facevamo una questione di potere, su chi meritasse o non meritasse quella preda.

    Lo mandai al diavolo sapendo che avrei perso il lavoro, puntai dritto alla cassaforte dell’ufficio a cui avevo accesso, la aprii e arraffai tutto quanto quello che c’era come liquidazione che supponevo mi sarebbe stata negata o ridotta.

    Quel che c’era dentro l’avevo fatto guadagnare io, con la fatica dei miei tanti viaggi, fatti anche rinunciando alla degenza in ospedale dopo alcuni fastidiosi interventi, correndo in automobile a fari spianati in una nebbia così fitta da dover immaginare la strada piuttosto che vederla, arrivando a casa la sera tardi spremuto come un limone. Spremuto come un limone dentro la vodka ghiacciata, per dirla come esattamente finivo. Ma lui che ne sapeva di tutto questo? Che ne sapeva di quante battute di caccia mi fossi perso per star dietro ai suoi affari con i quali poi mi pagava come un qualsiasi subalterno? Quante volte avevo dovuto salutare gli amici che si sarebbero trovati con i loro cani eccitati e pronti ad essere sguinzagliati.

    No, quel cappello di pelo l’avevo cacciato io, me l’ero guadagnato. Lui lo avrebbe pagato riconoscendo il mio valore e i miei meriti.

    Al contrario prese cappello denunciandomi e facendomi causa per un fatto che da solo non avrebbe meritato tanta acredine. Tutta la vecchia amicizia troppo spesso sbandierata non gli impedì di mandarmi la polizia a casa come ad un delinquente comune, ma tenni duro e non ottenne nulla.

    Gli scrissi una lettera dove gli elencavo per filo e per segno quanto avevo fatto con leale impegno per l’azienda e di come invece egli, molto più ricco di me ed avanti con l’età, avesse dimostrato freddo opportunistico cinismo, gonfio di vanaglorioso egoismo e di avarizia verso i meritevoli.

    La contrassegnai come riservata personale e gliela feci avere prima ch’egli ricorresse ai tribunali onde scongiurare quell’ipotesi e invece trovare un ragionevole accordo.

    Se ne infischiò ed anzi la fece produrre dal suo avvocato mostrandosi pure spregevolmente privo di onore.

    A giustificazione bofonchiò di essersi sentito offeso, imbozzolato nella sua abituale inclinazione ad offendere passandola

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