Morango, L'altra faccia dei Lunatici
Di Dalila Porta
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Morango si trova per la prima volta a dover nascondere agli occhi della gente la sua deformità. L'utopia si rivela essere di fatto una distopia, che il protagonista e un gruppo di stralunati mercenari tenteranno di demolire in maniera pazza e disorganizzata. Riuscirà infine Morango a tornare a casa?
Dalila Porta ha pubblicato anche “Walnut Tree Walk – Passeggiando fra gli alberi di noce”, Agosto 2015.
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Anteprima del libro
Morango, L'altra faccia dei Lunatici - Dalila Porta
Morango
L'altra faccia dei Lunatici
di
Dalila Porta
Alla mia amica Rony-chan
e al mio amico Paolo Del Pezzo
Parte uno - Con i piedi per terra
Capitolo Uno
«Presto, presto, mettila a terra!», gridava Marco, nascosto dietro un’auto Volkswagen beige come un gelato al Baileys, «mettila giù e vieni a nasconderti qui con me!», gridava ancora.
Era il 31 dicembre del 1996, a Napoli, e Morango aveva sei anni tondi. Il suo compleanno sarebbe stato il giorno seguente, il primo gennaio, e avrebbe festeggiato a casa con i nonnini e gli zii. A Morango, non pesava che il suo compleanno fosse così vicino alle festività natalizie, perché era soltanto un bambino. Non aveva ancora compreso il valore dei beni materiali e quindi nulla, non era geloso che suo fratello avesse un regalo grande al compleanno e uno a Natale, mentre a lui ne spettava solo uno l’anno perché le due ricorrenze cadevano a breve distanza l'una dall'altra. Lui era felice così. Viveva in un quartiere popoloso, donne sempre affacciate ai balconi a chiacchierare di questo e di quello, bambini che giocavano con Supersantos ogni giorno e d’estate anche di notte. Mamme che rincorrevano figli disgraziati per i bassi voti a scuola e che subito correvano a medicare le ferite della propria prole. Morango era cresciuto così, fra pranzi maestosi e banchetti opulenti ogni domenica, col nonno a capotavola, il padre a destra e le donne in cucina a preparare ragù.
Ogni anno, la notte prima di capodanno, si cenava tutti insieme e i bambini, dopo, correvano alle finestre a guardare i fuochi d’artificio che piovevano dai balconi. Bengala, fuochi d’artificio incartati in pacchetti verdi, rossi e gialli, che facevano tante luci e tanti rumori. Lui poteva solo maneggiare le stelline di Natale o i 'poppipoppi', li chiamava la nonna, palline che lanciate al suolo con forza, al contatto con superfici dure, facevano appunto 'poppipò'.
Quest’anno, tuttavia, Morango compiva sei anni. Mica tre, quattro, cinque, no! Ne erano sei tondi tondi. Aveva cominciato la scuola elementare e sapeva scrivere il suo nome. Ci aveva messo due mesi a impararlo e nonostante conoscesse a memoria l’alfabeto, non sapeva ancora la differenza fra vocali e consonanti. Comunque, sapeva scrivere il suo nome, e anche il cognome, Barilla. Si sentiva super-grande, da quando aveva imparato a scrivere il suo nome aveva deciso che la pasta e cavoli non la voleva mangiare mai più e non c’era modo di fargli cambiare idea. Era un bimbo testardo, come un mulo cocciuto, era intelligente ed era pure un poco ciccione.
Quel capodanno, avrebbe festeggiato il suo passaggio alla vita adulta con un fuoco d’artificio DOC: la bomba di Maradona, una specie di ordigno nucleare creato apposta dai napoletani per inneggiare il loro idolo del calcio. Se l’era procurata, la bomba di Maradona, grazie ai suoi amichetti di quartiere e ai loro fratelli maggiori senza coscienza. In realtà, se ne erano procurate due. La prima era stata fatta esplodere in quello che era un campetto di calcio e che adesso ricordava un campo di battaglia, abbondantemente battuto.
La seconda, invece, se l’erano fregata i bimbetti. Si erano consultati quei quattro, cinque minuti, il tempo di darsi forza, di abbozzare un piano ed eccoli lì, a correre, con la bomba tra le mani. Si erano nascosti, con i fratelli maggiori che li cercavano disperatamente. Poche ore dopo, eccoli lì a giocare con gli accendini dei padri, a cercare di accendere la bomba.
«Tu non hai paura?!»
«Io no! E tu?!»
«Nemmeno io!», mentivano i piccoli disgraziati.
Alla fine, avevano fatto l’ambarabaciccìcoccò e Morango era stato scelto per accendere la bomba, giacché nessuno si era proposto come volontario per l’impresa. Dopo aver tentato vari accendini, che avevano la rotellina che non girava molto facilmente perché erano fatti apposta per evitare che i bambini potessero giocare col fuoco, avevano trovato un accendino Bic, di quelli che basta premere il bottoncino di lato. Bene, era tempo di sperimentare il nuovo gioco.
Si erano messi, in cerchio, dietro una struttura di casette tutte accavallate le une alle altre e addobbate a festa. Morango aveva l’accendino fra le mani. Gli altri bambini lo guardavano con occhi grandi da cane nel parco. Morango avvicinò la fiamma alla miccia del fuoco d’artificio, tutti cominciarono a correre in ogni direzione. Morango restò lì incantato a guardare la miccia diventare sempre più piccola. Sembrava proprio una candela, come quella che avrebbe dovuto spegnere dopo poche ore per festeggiare il suo compleanno. Provò a soffiare forte, per spegnerla. Nulla. Allora provò ancora, perché lui adesso aveva sei anni, era grande e le candeline sapeva spegnerle e avrebbe spento di sicuro anche questa qui. Soffiò, soffiò e soffiò ancora.
La voce di Marco lo riportò con i piedi per terra. «Mettila giù e vieni a nasconderti qui con me!!», gli gridava da dietro la macchina beige.
Morango appoggiò l’ordigno a terra, ma la miccia era già troppo corta. Si voltò a destra e stava appena cominciando a correre quando un fortissimo, tremendo booooaammmmmm lo spinse ad accasciarsi al suolo.
Morango non festeggiò il suo compleanno e nessun altro in casa sua festeggiò l’arrivo dell’anno 1997. Si svegliò molte ore dopo il 2 gennaio, completamente esausto e dolorante. Aveva la vocina tenue e nonostante la madre fosse in collera perché quella bomba aveva fatto esplodere una macchina vicina scatenando il pandemonio, era tuttavia preoccupata per lui. Il padre di Morango era dai carabinieri, era stato denunciato per aver picchiato un ragazzino, che era poi lo stesso ragazzino che aveva comprato il fuoco d’artificio illegale e l’aveva lasciato incustodito in mani troppo tenere. Il ragazzino era stato denunciato a sua volta e aveva la fedina penale non sporca ma nemmeno più immacolata, a soli sedici anni. L’unico che se l’era cavata era il contrabbandiere.
Morango aprì gli occhi e provò a stropicciarseli. Ma quando provò a utilizzare la mano destra, vide che non riusciva a usarla. Usò il pollice e l’indice della mano sinistra per pulirsi gli angoli degli occhi e poi si guardò intorno. Del suo braccio destro, restava solo la metà superiore.
«Levami questa cosa mamma, levami questa orribile cosa!!», urlava alla mamma, prendendosi a schiaffi il braccio monco con la mano restante. La mamma piangeva e urlava contro il dottore che fece un’iniezione di robaccia tranquillante a Morango e pure alla madre.
Fu terribile per Morango tornare a scuola. Quando prese la penna nella mano sinistra, provò a scrivere il suo nome ma non riusciva a scrivere proprio niente. Lui la sinistra non la usava mai se non per togliersi le caccole dal naso; per disegnare, scrivere e mangiare lui usava la destra. Adesso, doveva ricominciare tutto da capo.
Per molti mesi, sua madre gli tagliò la carne a pezzettini, lui doveva solo usare la mano sinistra per tenere la forchetta. Mangiare la zuppa, all’inizio, fu una vera e propria tragedia. La mano gli tremava continuamente e gli ci volle molto tempo prima che potesse infilare il cucchiaio in bocca al primo colpo. Ricominciò anche a mangiare la pasta e cavoli, però la mamma smise di prepararla perché non voleva contrariarlo.
«Un giorno di questi prendo la macchina di papà e ti accompagno a fare la spesa», disse una volta Morango.
«Morango a mamma tua, non puoi prendere la macchina di papà, tu non potrai mai guidare».
Morango realizzò questa cosa e si sentì profondamente infelice. Non vedeva l’ora di diventare grande e guidare e portare la sua ragazza al cinema o alle giostrine. Si rese conto che tante cose normali, che sono date per scontate, lui non poteva farle e pianse tanto, tanto, tanto. Mentre la madre cercava di consolarlo con un paio di merendine al cioccolato.
A scuola, poi, peggio che mai. I bambini sono come il mare della Grecia, cristallini e senza segreti, vedi il fondale, le alghe, i pesciolini e tutti i granchietti. E i bimbi sono così, cattivi a volte, proprio come il mare, ma trasparenti, ciò che esce dalla loro bocca non è filtrato dal buonsenso, dall’educazione, dalla cortesia e dalla paura di ferire. No. Morango fu preso in giro da molti, molti dei suoi compagni di classe e da quelli delle classi vicine o lontane. C’era chi provava simpatia o compassione, ma erano pochi. Per la maggior parte dei presenti, era una cosa strana, un alieno, volevano vedere il suo braccio monco, volevano disegnarci le cose sopra e se Morango non glielo faceva fare, si arrabbiavano e lo deridevano.
Capitolo Due
All’età di sedici anni, Morango era alto un metro e sessantaquattro e pesava settantanove chili. Era a dieta da sei mesi perché aveva sentito che se sei grasso da piccolo, laggiù cresce poco. Aveva deciso di perdere peso, se fosse già troppo tardi, nessuno poteva garantire. Lui era comunque fiducioso e andava in palestra, ogni giorno, facendo il conto delle calorie e urlando contro la mamma che continuava a tentarlo con le merendine alla crema pasticciera.
Aveva imparato a tagliare la carne da solo anni addietro, procurandosi una specie di taglierino a rotellina molto affilato. Quando usciva con gli amici, chiedeva che la pizza o la carne gli fosse tagliata. Nessuno aveva il cuore di dirgli di no, ovviamente. Aveva attaccato un anello di metallo intorno al moncherino e lì c’erano dei fori di varie grandezze, alcuni per le posate per esempio, in più c’era un gancetto al quale poteva tranquillamente appendere una busta di peso medio.
Per il cellulare, usava la mano sinistra, lo stesso per lavarsi, grattarsi e toccarsi. Tutto era necessariamente fatto con la stessa mano. Aveva dimenticato che significasse averne due. Quando si guardava il braccio monco, non pensava neanche più all’incidente della sua infanzia. E non sentiva la nostalgia del braccio destro. Quando era piccolo, era molto irrequieto, si arrampicava sui mobili e sulle sedie, si aggrappava alle tende come una piccola scimmia, si picchiava col fratello maggiore. Però a sei anni aveva perso un mezzo braccio e tante cose non poteva più farle. Diventò molto più tranquillo, anche correre poteva essere faticoso perché la corsa non era più accompagnata dallo slancio che gli davano le braccia e quindi non poteva giocare a calcio, neanche come portiere perché parare il pallone con una mano sola non era proprio concepibile. Aveva quindi cominciato a trascorrere molto più tempo a casa ma non poteva giocare ai videogiochi, se non a quelli più semplici, perché aveva una mano sola e per lo joystick di mani ce ne volevano due. Quindi fra un cartone animato e un altro, a volte guardava qualche documentario sugli animali o quei programmi diretti da scienziati.
Il cibo era diventato una dolcissima consolazione. Mangiare era un hobby, un obbligo, un modo per ammazzare il tempo. Un modo per muovere una parte del corpo che funzionava bene anche senza braccio. Però poi aveva sentito dire che se sei troppo grasso da piccolo… e allora la sua coscienza aveva bussato alla porta del suo cervello e si era impegnato con la dieta. Non aveva ancora avuto il coraggio di baciare nessuna bambina e, soprattutto, nessuna bambina aveva avuto il coraggio di baciare lui. Però c’era nella classe di fianco alla sua una ragazzetta simpatica, un poco cicciottella anche lei, che lo guardava con occhio tenero. Lei si chiamava Naela, sua madre era morta quando aveva sei anni e suo padre era rimasto solo, concentrando su di lei tutte le sue cure e tutto il suo tempo. Eroe di guerra, senza una gamba, percepiva una pensione che gli permetteva di sostenere se stesso e la figlia, anche se non potevano permettersi nulla di più del minimo indispensabile. Naela era bassina, aveva folti e lisci capelli castani, un paio di occhiali grandi e una decina di chili in eccesso. Nel complesso, non era male. Se avesse perso peso, avrebbe fatto girare la testa a molti. Questo è ciò che gli disse una volta Morango, mentre erano nel corridoio della scuola durante la pausa merenda. La campanella aveva annunciato il quarto d’ora di agognata libertà. I ragazzi si erano riversati per il corridoio come salmoni impazziti in un torrente e chiacchieravano a voce alta, mentre i bidelli tentavano di tenere la situazione sotto controllo. Morango e Naela erano in fila per il distributore. Naela aveva fatto cadere una monetina che aveva cominciato a correre per tutto il corridoio, così lei si era lanciata all’inseguimento di quel piccolo conio. Qualcuno nel corridoio ridacchiò, qualche ragazza fece qualche commento maligno sulle dimensioni del suo deretano. Naela finse di ignorare quelle voci, mentre correva a recuperare la sua monetina. L’euro, nuovo e lucido cosicché rifletteva benissimo la luce, scivolò in una delle aule oramai rimaste vuote. Naela recuperò la monetina e poi sedette a uno dei banchetti per gli studenti. Non aveva voglia di uscire da lì, i commenti maligni di quelle cornacchie dell’ultimo anno e gli aggettivi crudeli usati dai ragazzi al suo passaggio avevano generato in lei un profondo senso di vergogna per il suo aspetto e la sua persona. Naela, ovviamente, gli occhi li aveva e portando pure gli occhiali ci vedeva sicuramente molto bene. Quando si guardava allo specchio, vedeva che la pancia era grande e grossa, bella rotonda. Sapeva che di profilo poteva essere voluminosa, però non riusciva