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Con l'altro e per l'altro: Una filosofia del dono e della condivisione
Con l'altro e per l'altro: Una filosofia del dono e della condivisione
Con l'altro e per l'altro: Una filosofia del dono e della condivisione
E-book497 pagine7 ore

Con l'altro e per l'altro: Una filosofia del dono e della condivisione

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Info su questo ebook

La pienezza dell’essere dell’uomo è nell’incontro dell’io con l’altro, nella condivisione della comune umanità. Legato all’io da uno rapporto di somiglianza e di prossimità e partecipe di uno stesso destino umano, l’altro non potrebbe mai essere o diventare un suo oppositore o un suo concorrente e tanto meno un suo nemico. L’altro è, soprattutto, il destino ultimo dell’io, il richiamo della sua massima responsabilità. Di questa comune responsabilità entrambi – l’io e l’altro – sono nello stesso tempo i soggetti e i destinatari, i garanti e gli esecutori.

I fili di un discorso sull’uomo e sul mondo sono dipanati e ritessuti sulla trama di un nuovo racconto sull’uomo, dove l’altro diventa la traccia della responsabilità dell’io. Non basta riconoscere all’altro la sua identità in rapporto all’io o affermarne la comune origine o la sua correlatività. È necessario disporre l’io e l’altro sullo stesso piano come due realtà plurali che si richiamano a vicenda e costituiscono l’espressione privilegiata dell’umano nel mondo. La responsabilità dell’io verso l’altro richiede che la responsabilità stessa si trasformi in azione con l’altro e per l’altro nell’assunzione della compassione come termine dell’azione stessa. Dono e perdono diventano, in questo contesto, i due paradigmi di una esistenza umana che fa del tempo presente lo spazio privilegiato del dono e nel perdono si riconcilia con un passato segnato dalla colpa e dall’offesa. Il perdono si dà solo dove c’è una colpa da perdonare e dove c’è la consapevolezza di dover compiere un percorso di pentimento.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2016
ISBN9788838245053
Con l'altro e per l'altro: Una filosofia del dono e della condivisione

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    Con l'altro e per l'altro - Rocco Pititto

    Rocco Pititto

    CON L'ALTRO E PER L'ALTRO. UNA FILOSOFIA DEL DONO E DELLA CONDIVISIONE

    Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi

    Umanistici nell’Università degli Studi di Napoli Federico II.

    Copyright © 2015 by Edizioni Studium - Roma

    ISBN 978-88-382-4505-3

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 978-88-382-4505-3

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    COME UN PRELUDIO

    I. L’UOMO NELL’EPOCA DEL DISINCANTO E IL GRIDO DI GIOBBE

    1. La caduta dell’uomo del Novecento e il suicidio dell’Europa

    2. L’uomo al bivio: tra delusioni, speranze e attese

    3. Il dolore dell’uomo e gli interrogativi di Giobbe

    4. Con Giobbe e oltre Giobbe: la scelta della solidarietà e della compassione

    5. La compassione come fondamento dell’essere con l’altro

    II. UNDE MALUM? LA DIFFICILE SCOMMESSA DELLA TEODICEA

    1. Il male come mysterium iniquitatis

    2. La presenza del male nell’esistenza umana

    3. La difficile risposta alla domanda sul male

    4. Il male come disconoscimento della paternità: una risposta cristiana alla domanda sul male

    5. La fenomenologia del male e le sue figure

    III. DALLA CONFLITTUALITÀ ALLA SOLIDARIETÀ. UN MODELLO DI RELAZIONI UMANE

    1. Ritornare a Itaca? Un ritorno che non porta a nessuna parte

    2. Un’esistenza umana al singolare o un’esistenza umana al plurale? L’essere dell’uomo come essere relazionale

    3. La condizione dell’uomo oggi tra conflittualità e solidarietà

    4. Il Novecento o l’epoca della carneficina

    5. La solidarietà come superamento della conflittualità

    IV. RICONOSCIMENTO E COMPRENSIONE DELL’ALTRO: LA FUNZIONE DEI MIRROR NEURONS

    1. I neuroni specchio: una scoperta che dà a pensare

    2. I Neuroni specchio e l’architettura del cervello

    3. Neuroni specchio e superamento del dualismo cartesiano

    4. Un nuovo paradigma conoscitivo?

    5. Molteplicità condivisa e costruzione dell’identità personale

    6. Determinismo e libertà dell’uomo

    V. L'EMPATIA COME COMPASSIONE: DA EDITH STEIN A MARTHA NUSSBAUM

    1. Empatia e compassione. Una modalità naturale dell’essere dell’uomo?

    2. L’empatia e la compassione risorse dell’essere dell’uomo

    3. Il paradigma dell’empatia sulla scia di Edmund Husserl e di Edith Stein

    4. Vivere nell’empatia con empatia: la lezione di Edith Stein

    5. Il passaggio dall’empatia alla compassione come compimento dell’empatia

    VI. DONARE E PERDONARE

    1. Dono e perdono: due paradigmi dell’esistenza umana

    2. Il dono e l’al di là della giustizia

    3. Il dono come fondamento del perdono

    4. La carità come dono e perdono: un modello di sviluppo integrale della persona umana

    ANDARE A BREMA O LA SFIDA DELLA CONDIVISIONE

    NOTA BIBLIOGRAFICA

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA

    Studium

    65.

    La Dialettica / 16.

    ROCCO PITITTO

    CON L'ALTRO E PER L'ALTRO

    Una filosofia del dono

    e della condivisione

    EDIZIONI STUDIUM - ROMA

    Sui volti di Bianca, Alessandro e Andrea,

    le persone a me più vicine e più care,

    ho incontrato l’Altro.

    La mia risposta è stata: Eccomi.

    Forse la risposta non è stata sempre la più efficace.

    Ma ci ho provato e ci provo ancora.

    Il più bello dei mari 

    è quello che non navigammo.

    Il più bello dei nostri figli

    non è ancora cresciuto.

    I più belli dei nostri giorni

    non li abbiamo ancora vissuti.

    E quello

    che vorrei dirti di più bello

    non te l’ho ancora detto.

    NAZIM HIKMET

    COME UN PRELUDIO

    DALLA CONFLITTUALITÀ ALLA SOLIDARIETÀ: UN PERCORSO DALL’IO ALL’ALTRO

    Noi siamo esseri dipendenti, dipendenti dal dove da cui veniamo e dal mondo con cui ci troviamo a misurare il nostro essere. La debolezza della condizione umana sta proprio nel non possedere il proprio essere, ma di avere bisogno del tempo per poter arrivare a essere.

    L. Mortari, Filosofia della cura

    L’altro è il tu dell’esistenza umana. Egli sta davanti all’io sulla soglia della dimora dell’umanità, bussa e chiama con insistenza. La richiesta che rivolge all’io – il suo alter ego – è di essere riconosciuto e accettato. Egli non ignora che la sua realizzazione come persona passa attraverso il riconoscimento e l’accoglienza da parte dell’io, come è altrettanto consapevole che la stessa realizzazione dell’io non può non passare anch’essa che attraverso lo stesso processo di riconoscimento e di accoglienza del suo sé, nella comune responsabilità nei riguardi dell’essere dell’uomo che vive in ciascuno[1]. La richiesta di riconoscimento e di accoglienza dell’uno verso l’altro è reciproca. Perché soltanto insieme l’io e l’altro costituiscono l’umanità e insieme la portano a compimento. Senza che ci sia tra loro una qualche forma di incontro, di cura, d’interesse e di collaborazione, l’io e il tu sono destinati a perdere di consistenza e di significato fagocitati da un’esistenza incolore e senza futuro, qual è un’esistenza umana vissuta al singolare. La pienezza dell’essere dell’uomo è nell’incontro con l’altro e nella condivisione della comune umanità. Già per un fatto di natura l’altro non è in concorrenza o in opposizione o in contrasto con l’io. L’altro si fa incontro e dialogo con l’io e l’io con l’altro. È per questo che l’altro, legato all’io da uno stretto rapporto di somiglianza e di prossimità e partecipe di uno stesso destino, non potrebbe mai essere o diventare un suo oppositore o un suo concorrente e tanto meno un suo nemico. L’altro è, soprattutto, il destino ultimo dell’io, il richiamo alla sua massima responsabilità. Di questa comune responsabilità entrambi – l’io e l’altro – sono nello stesso tempo i soggetti e i destinatari, i garanti e gli esecutori.

    Rimane, tuttavia, sempre in agguato come una minaccia pronta a materializzarsi l’eventualità di un rovesciamento della relazione io-altro nei termini di un cambiamento di comportamenti da investire il suo senso più profondo e le sue più diverse espressioni. Un tale rovesciamento rappresenterebbe la distorsione, se non la negazione stessa, di una relazione, troppo sbilanciata a favore dell’io e contro l’altro. Essa si manifesta nella forma di una rottura tra gli individui che ha dell’irreparabile e dell’imperdonabile, soprattutto quando sfocia nella disumanità, una pratica di vita tanto efferata e tanto diffusa da trasformare i rapporti umani, rendendoli tanto opachi e carichi di risentimento, di odio e di violenza. Cosa non avviene quando un io smisurato spregiudicato e anche malvagio e crudele o un evento di particolare gravità sul piano etico determinato dall’agire perverso dell’io stesso, operano contro gli interessi dell’altro e dell’umanità creando una condizione di sopraffazione e di violenza! È, soprattutto, in queste circostanze, quando maggiori sono il disprezzo e l’odio per l’umanità che l’io si manifesta nella sua forma peggiore di nemico dell’altro, pronto a distruggerlo, anche uccidendolo.

    L’io, appropriandosi di un potere di vita e di morte sull’altro – sia egli un essere individuale o collettivo – che nessuno può rivendicare per sé, opera deliberatamente e con determinazione, perché nelle relazioni tra gli esseri umani e nei rapporti tra gli stati si determinino quelle forme di contrapposizione e di conflittualità tali da mettere gli uni contro gli altri con esiti spesso drammatici per l’esistenza degli individui e per la stabilità della comunità e la loro stessa sopravvivenza. Sono forme e modalità distorte e improprie di relazionarsi degl’individui tra loro che possono trasformarsi in azioni e comportamenti di una violenza, spesso immotivata, dell’uno contro l’altro con ripercussioni sul piano politico e sociale. Da una condizione di violenza, preannuncio di distruzione e di morte dell’altro come anche dello stesso io, che caratterizza ogni relazione umana falsata dal prevalere di interessi a proprio favore contro quelli degli altri, entrambi i soggetti della relazione – vittima e aguzzino – escono umiliati e sconfitti e destinati, comunque, a una morte certa. La storia del Novecento ne dà una dolorosa conferma e una sofferta testimonianza, quando le macerie delle rovine materiali e morali di una cultura contro l’uomo hanno sepolto sotto il peso della colpa e del risentimento le memorie di intere generazioni di uomini e di donne, dopo averli sequestrati da una vita di relazione ricca e gratificante. Domandarsi qui come sia potuto accadere nella storia questa sconfitta dell’uomo – uno scacco imprevisto e imprevedibile, oltre che incomprensibile –, come sia possibile verificarne la negatività della sua portata e, ancora, come sia possibile, nonostante tutto, indicare delle vie d’uscita, è oggetto di una ricerca sull’io e sull’altro. È una ricerca che nel suo articolarsi diventa un’ermeneutica della condizione umana.

    Su un piano strettamente biologico, l’altro è legato e orientato all’io, come, d’altra parte, lo stesso io lo è per l’altro. Dall’io l’altro riceve l’esistenza stessa e ogni forma di apprendimento, da quello cognitivo e linguistico a quello emotivo, da quello motorio a quello morale e comportamentale. Lo stesso io, a sua volta, è chiamato all’esistenza dalla chiamata dell’altro ed è anch’egli legato e orientato a lui nella reciprocità di una relazione intersoggettiva simmetrica. Tutti e due i soggetti di questa relazione si chiamano vicendevolmente all’esistenza e insieme convivono nella società dell’incertezza di questo tempo, consapevoli di vivere una comune condizione umana di fragilità e di vulnerabilità. L’io e il tu sono capaci di vivere e di operare seguendo una condotta sostanziata da atti di generosità, di solidarietà e di altruismo, così da esprimere nei loro stessi comportamenti una maggiore coesione nel segno di una reciproca responsabilità. C’è negli esseri umani una intenzionalità condivisa che costituisce la base della comunità della comunicazione e si esprime nella pratica della cooperazione e della solidarietà, cui nessun individuo può sottrarsi. Vivendo e collaborando insieme e aiutandosi a vicenda l’io e l’altro sono chiamati e sollecitati a costruire un futuro migliore, quasi come un’anticipazione dell’avvento di quel tempo del non ancora nel quale sarà possibile realizzare le loro aspettative e le loro speranze. Sono aspettative e speranze lasciate in sospeso sullo sfondo di un’esistenza precaria, impedite perfino ad emergere dalle tante spinte contrastanti, cui sono soggette. La possibilità che il non ancora dell’esistenza umana possa già manifestarsi ora orientando e determinando il nostro presente rimane solo un desiderio, considerato che il suo auspicio, e meno che mai il suo stesso realizzarsi, appaiono oggi particolarmente difficili e controversi, quasi al limite di una sfida che ha del temerario[2]. Forse che per anticiparne la venuta e vederne il compimento già nell’oggi sarà sufficiente volerlo soltanto senza che ci sia un impegno deciso e consapevole atto a favorire un processo di crescita più alto dei valori dell’umanità in ciascuno degl’individui?

    La reciprocità di un legame e di un orientamento, di tipo quasi naturale, dell’io e dell’altro non ha impedito che nella storia le relazioni tra di loro non fossero mai pienamente pacifiche e idilliache, come sarebbe stato lecito aspettarsi, perché condizionate, quasi come stravolte e sequestrate, dallo strapotere dell’io sull’altro, che non ha esitato a porsi contro l’altro per affermare la sua superiorità. Un io terribilmente ipertrofico ricorrendo a ogni mezzo fa di tutto per ridurre l’altro a sé come fosse un qualcosa di sua proprietà tanto da poterlo manipolare a proprio piacimento, privandolo della sua libertà e autonomia, violentandolo e distruggendo perfino le sue speranze e i suoi sogni. La storia dell’uomo, non solo di quella del Novecento, si caratterizza come una lotta continua e impari tra l’io e l’altro, dalla quale l’altro esce quasi sempre umiliato, sconfitto e ucciso. L’affermazione dell’io sull’altro è la rovina dell’altro e la sua distruzione. Nemmeno l’io ne esce bene, perché distruggendo l’altro non risolve le sue contraddizioni e vive la sua condizione nella colpa. L’atto più estremo di rottura nell’umanità – il fratricidio – è un esito ricorrente – anche se non è mai inevitabile – da sembrare inscritto nella stessa condizione umana delle origini.

    Il fratricidio è un esito drammatico nell’ambito delle relazioni umane come testimonia con amarezza il libro della Genesi con il racconto dell’episodio di Caino e Abele (Gen 4,1-16). L’pisodio di Giuseppe e dei suoi fratelli (Gen 37-50), anche se la sua conclusione è diversa rispetto alle intenzioni iniziali di questi ultimi, pone lo stesso problema di una conflittualità che, senza giungere al fratricidio, corrode i rapporti umani distruggendo i valori della fraternità[3]. Il racconto sui due fratelli Caino e Abele nel suo atto finale assurge a segno dell’arretramento dell’uomo nelle regioni oscure della disumanità, che diventa metafora dei giorni dell’uomo, quando i contrasti e i conflitti tra gli individui non arrivano a una composizione pacifica, ma a uno scontro che porta alla morte uno dei due contendenti, o, come spesso accade, tutti e due insieme. I due diversi modelli di umanità, rappresentati da Caino e da Abele, sono descritti brevemente dal redattore della Genesi: il primo coltiva la terra e offre a Dio i frutti della terra, mentre Abele è un pastore e offre a Dio le primizie del suo gregge. Tra questi due modelli lo scontro era inevitabile, come tra due culture che avanzano la stessa pretesa di superiorità di una sull’altra o viceversa. Sono due mondi in contrasto, che, secondo Caino, non potevano più coesistere. Caino, rappresentante del nuovo modello, non poteva accettare che di fronte a Dio dovesse prevalere, invece che lui, Abele, rappresentante di un modello più antico, che non aveva più nessuna ragion d’essere.

    Il racconto biblico narra il compiersi nella prima comunità umana di un atto di una violenza sanguinaria, perpetrata oltre ogni limite perfino pensabile contro il proprio simile, fino ad abbattersi come un ciclone sull’essere più vicino, il suo diretto consanguineo, con la sua uccisione, senza che ci sia stato all’origine un motivo che non fosse dettato dall’invidia e dalla gelosia. Dalla violenza sanguinaria nasce altra violenza difficile da governare[4]. Malversazione, invidia, gelosia, sete di potere, violenza legata all’espressione del sacro? Le ipotesi possono essere tante, non ultima e meno importante quella formulata da René Girard che assume l’idea della vittima sacrificale, un esito sanguinario delle culture più antiche per tenere lontano il male dalla comunità, quasi come un meccanismo di difesa. L’altro – il soggetto più debole e indifeso – diventa il destinatario ultimo di un disegno di morte da parte dell’io – il soggetto più forte – e non ha più scampo, perché la sua sorte è già decisa in partenza[5]. D’altra parte, il fratricidio commesso da Caino «fa sì – come afferma Ricœur – che la fraternità diventi un progetto etico e non più un semplice dato di natura»[6]. L’uccisione dell’altro, come già nel mito delle origini, non pone fine al conflitto iniziale, perché il compimento dell’azione delittuosa determina ancora il sorgere di altri conflitti e di altre violenze non meno gravi secondo una spirale di morte ancora più distruttiva[7]. Nessun’altra affermazione poteva esprimere meglio questa condizione umana conflittuale, avviata per questo alla sua distruzione finale, quanto la constatazione amara dell’autore del libro di Qoèlet. Memore testimone «di tutte le oppressioni che si commettono sotto il sole», l’autore del libro non si dà pace perché egli vede ovunque gli esseri umani oppressi soffrire, senza poter trovare nemmeno chi li possa consolare. «Ecco il pianto degli oppressi che non hanno chi li consoli – afferma il libro di Qoèlet –; da parte dei loro oppressori sta la violenza; mentre per essi non c’è chi li consoli» (Qo 4, 1). La conflittualità, e la violenza che ne segue, sembrerebbero una condizione irreversibile dell’essere dell’uomo, che accompagna i suoi giorni, una via che appare a molti senza ritorno.

    Eppure, quasi a voler prendere le distanze da una conflittualità diventata per molti un fatto fin troppo naturale e scontato, non si può dimenticare – come controprova ugualmente legittima da considerare – che dove c’è l’io c’è sempre l’altro e dove c’è l’altro c’è sempre l’io. La contemporanea presenza dell’uno e dell’altro si dà comunque e non potrebbe essere diversamente anche in ragione di una intersoggettività costitutiva dell’essere dell’uomo, dove gli uni e gli altri non possono essere disgiunti, perché sono in funzione l’uno dell’altro. Di questa predisposizione reciproca era consapevole, nonostante il suo pessimismo, anche lo stesso autore di Qoèlet quando riflettendo sulla condizione dell’uomo affermava che «meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso nella fatica. Infatti, se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se due dormono insieme, si possono riscaldare; ma uno solo come fa a riscaldarsi? Se uno aggredisce, in due gli possono resistere e una corda a tre capi non si rompe tanto presto» (Qo 4, 9-12). I destini dell’io e dell’altro non sono mai separabili; la conflittualità tra loro è solo una distorsione nelle relazioni umane e dal suo dispiegarsi nessuno ne esce vincitore. Soprattutto la conflittualità non è per nessuno l’unica opzione disponibile.

    La scelta dell’io verso l’altro non può non essere che di cura e di interesse, la stessa cura e lo stesso interesse che l’altro non può non riversare sull’io stesso. È dalla dimenticanza di quel tratto umano di rispecchiamento dell’io nell’altro e dell’altro nell’io che si arriva a una perversione delle relazioni umane, fino ad essere trasformate in un terreno di scontro anche mortale degli esseri umani. Nessuno dei due né l’io, né l’altro, può rivendicare un potere di dominio o di prevalenza rispetto all’altro da sé, riducendolo a cosa, manipolandolo e asservendolo a sé o considerandolo quasi come una terra di conquista e di occupazione. L’altro e l’io insieme costituiscono, invece, l’essere dell’uomo nella sua pienezza e insieme nella loro unità sono posti al vertice del mondo degli esseri animali. L’orientamento di un soggetto all’altro soggetto – all’io o all’altro in egual misura – fa sì che ognuno di loro due come soggetti finali dell’orientamento sia solo un essere più allargato, che si dà sempre in relazione all’altro da sé. Nell’altro allargato l’io e il tu occupano lo stesso spazio e insieme costituiscono l’umanità in una dimensione plurale, nella quale non ci sono un soggetto e un oggetto contrapposti e distanti tra loro, destinati ad ignorarsi o a distruggersi, ma due soggetti prossimi e coesi, quasi costretti a completarsi tra loro, che si cercano e si riconoscono e cercandosi e riconoscendosi costruiscono la loro identità. L’io e il tu sono composti della stessa materia umana, caratterizzati come sono della stessa fragilità e della stessa vulnerabilità e partecipi di uno stesso destino di umanità ancora incompiuta da riscoprire e da realizzare insieme. Soltanto insieme possono raggiungere e possedere un’identità personale e sperare che nessun’altra alterità possa misconoscere o distruggere l’identità di ciascuno. Più che un’eredità da conservare l’identità di ciascun individuo è una risorsa dell’essere dell’uomo in continuo movimento che si costruisce e si ricostruisce nella relazione e nel confronto con l’altro[8].

    Negare l’io o l’altro facendo ricorso a comportamenti di contrasto e di offesa e imponendo il dominio dell’uno sull’altro in un crescendo di malvagità e di violenza è stata, per questo, la colpa imperdonabile della cultura europea, il vero limite della storia del Novecento, quando la disumanità celebrò senza ritegno la sua vittoria più macabra e più vergognosa sul mondo umano[9]. Tutto quanto accaduto è stato il risultato di una contrapposizione e di una conflittualità radicali, dalle conseguenze drammatiche e inimmaginabili per le sorti dell’uomo e della società europea, un risultato che ha segnato il destino degli individui e delle nazioni, ponendo da lì a poco le basi alla carneficina e al suicidio dell’Europa, triste eredità di un secolo tragico. I conflitti immani e le guerre sanguinose che hanno accompagnato gli anni di tutto il secolo sono la conseguenza di questa duplice negazione – ora dell’io, ora dell’altro –. Più che una rottura avvenuta nella comprensione di sé e dell’altro, quello accaduto è stato l’orrore incommensurabile di tutto un secolo – il Novecento –. Il secolo era iniziato sotto altri auspici di sviluppo dell’umanità e di crescita degl’individui e delle nazioni ed è terminato tra i contorcimenti e gli spasmi di una cultura e, soprattutto, di un essere umano, lasciato in balia delle forze del male e gettato, infine, in un presente popolato di antiche paure e di fantasmi inquietanti, che si ritenevano ormai sconfitti e superati per sempre. La fine delle tante illusioni e delle residue speranze che hanno accompagnato, nonostante tutto, lo scorrere degli avvenimenti del secolo passato, ha lasciato l’uomo ancora più solo e smarrito, privo di un futuro da costruire insieme con gli altri in una stessa comunità di memoria e di speranza. Il disagio e il malessere, che hanno rabbuiato e rattristato l’uomo di questo tempo, sono il risultato della tempesta, che ha imperversato negli anni più bui del Novecento, lasciando pochi spazi perfino all’immaginazione tanto grande e dolorosa fu la portata degli avvenimenti. L’uomo si è ritrovato come spaesato in uno spazio ignoto, non avendo più punti di riferimento sicuri. Dallo spaesamento dell’uomo era inevitabile il suo smarrimento, una cifra del nostro presente.

    L’altro nel suo rapporto con l’io, diversamente declinato in tutti i suoi aspetti politico-culturali, è sempre stata una figura controversa nella cultura occidentale, ora rifiutata, ora accettata, anche se spesso con tanti distinguo. Un’ambiguità presente fin dagli inizi e mai risolta del tutto ha fatto sì che il suo status oscillasse tra riconoscimento e negazione, tra una politica di accettazione e una politica di rifiuto. La stessa ambiguità nei confronti dell’altro e dello straniero si ritrova nella cultura greco-romana e nella cultura giudaica, anche se diversamente modulata[10]. La paura dello straniero e del diverso ha impedito ogni forma di riconoscimento e di accettazione. Rispetto a tutte le sue possibili variazioni il tema dell’altro ha acquistato oggi una maggiore rilevanza politica, oltre che culturale, soprattutto su un versante più sovranazionale, quando l’Europa si trova a fronteggiare la forte immigrazione di centinaia di migliaia di profughi e di migranti, provenienti da zone di guerra e di grande povertà, senza essere preparata all’accoglienza. Il rifiuto di accoglienza da parte dei paesi europei è espressione di ritardi culturali, di spinte xenofobe, di egoismi nazionali, di diversità politiche e religiose, di paure di dover condividere lavoro, servizi e affetti con altri, considerati una minaccia per la stabilità e la coesione delle singole comunità nazionali[11]. Prende il sopravvento nella cultura la paura dell’altro, pur nella consapevolezza diffusa di vivere «un periodo di nuova migrazione di popoli in cui gran parte dell’umanità, soprattutto la più povera e disperata, conosce la dimensione della precarietà e dell’incertezza; un tempo in cui le speranze di pacificazione tra i popoli sperimentano improvvise accelerazioni, ma anche tragiche sconfessioni dovute al riemergere di conflitti a lungo sopiti o all’esplosione di nuovi, o alla fragilità e parzialità stesse degli equilibri e delle paci raggiunti; un contesto in cui le società si configurano sempre più come multirazziali ma, al tempo stesso, presentano inquietanti fenomeni di razzismo e di rigetto dell’altro e dello straniero...»[12]. Il tema dell’altro non potrà, comunque, essere ignorato, considerato che la stessa presenza dell’altro «come sentimento preliminare del legame tra il personale e il comunitario è un rivelatore critico essenziale per cogliere l’originalità della persona, la quale si esprime nella comunione, non nella solitudine»[13]. Privo dell’altro l’umanità esce sconfitta.

    La ripresa qui del tema dell’altro come momento antropologico non è, comunque, un fatto occasionale legato all’arrivo di migranti e di profughi nel continente europeo e non è nemmeno dettato dal dibattito sulla intersoggettività come relazione, originaria e insieme culturale, che lega gli individui tra loro nel riconoscimento di una comune appartenenza all’umanità e di uno stesso comune destino[14]. Quello contemporaneo è un dibattito che si apre a una molteplicità di saperi, da quello filosofico a quello antropologico, da quello psicologico a quello sociologico. Gli esiti di questo dibattito sono certamente rilevanti ai fini di una migliore comprensione dell’uomo e della società, ma sono altrettanto riduttivi e insufficienti per una intelligenza più comprensiva del tema in discussione e dei problemi ad esso connessi. La considerazione dell’altro s’impone, comunque, di per sé, soprattutto quando l’io sperimenta la sua solitudine, dopo aver spezzato i suoi rapporti con l’altro. La solitudine dell’io, come anche dell’altro, è l’esito di una cultura arroccata narcisisticamente su di sé, chiusa ad ogni forma di riconoscimento e di accoglienza.

    Più che da contingenze storico-politiche particolari il tema dell’altro nel suo rapporto con l’io rileva un aspetto decisivo dell’antropologia filosofica di questo tempo, quando da più parti si fa più urgente la richiesta di ritrovare per l’uomo altri spazi di espressione più consoni alla sua natura di essere libero e autonomo, spazi sempre conculcati se non negati dai poteri del tempo, siano essi politici, o religiosi, o culturali o economici. La rioccupazione da parte dell’uomo di spazi e di dimensioni propri potrebbe assicurare una crescita dell’uomo in senso più umano, dopo i tanti fallimenti e le enormi delusioni, che hanno sconvolto la vita degli individui. Nessuno può ignorare come le tragedie e i drammi, che hanno accompagnato il Novecento, abbiano dato una misura assai negativa dell’uomo e della sua condizione, più vicina all’animalità che all’umanità. Animalità e umanità sono i termini che riassumono il senso del passaggio avvenuto nell’ambito dell’evoluzione biologica dell’uomo da un tempo, caratterizzato dalla prevalenza di comportamenti contrassegnati da un basso livello di coscienza, e perciò più legati all’istinto di sopravvivenza, a un tempo dove il maggiore livello di coscienza raggiunto, a seguito delle trasformazioni intervenute nel cervello umano, ha consentito all’uomo apprendimenti e comportamenti, come risultato di scelte libere e personali da parte degl’individui. Sotto quest’aspetto il Novecento ha rappresentato un’assurda e imprevista regressione dall’umano all’inumano, una caduta verticale dell’umanità nella sua negazione.

    La figura dell’altro e la consapevolezza dell’importanza della sua presenza nell’ambito delle relazioni umane hanno intrigato l’Autore di questa ricerca tanto da spingerlo a esplorare le ragioni dell’io e dell’altro. Sono ragioni che, coniugate insieme, danno la misura di un’umanità tradita, quando non sono state riconosciute e l’arbitrio ha potuto dispiegarsi in tutte le sue direzioni. Su queste ragioni dell’io e dell’altro è iniziato il viaggio dell’Autore con l’attraversare le vicende e le filosofie del Novecento e interrogandosi sugli esiti di una cultura che ha portato alla morte dell’uomo, dopo che l’uomo folle di Nietzsche aveva annunciato in precedenza sulla pubblica piazza la morte di Dio come conclusione del pensiero occidentale. La morte di Dio e la morte dell’uomo sono stati eventi epocali che hanno riscritto la geografia dell’anima, inizio di una crisi e di uno smarrimento dell’uomo non ancora rientrato. Sono eventi che hanno rappresentano l’inizio e la fine della comprensione di un essere umano, che, avendo perduto ogni certezza riguardo a sé e all’altro, è stato costretto ad affidarsi a una navigazione a vista, privo di una guida sicura, vivendo di un presente anonimo e incolore e senza potersi aspettare più nulla da un futuro scomparso da tempo dal suo stesso orizzonte.

    I momenti più rappresentativi di questa ricerca intorno al tema dell’io e dell’altro si ritrovano diversamente coniugati nei due volumi Ad Auschwitz Dio c’era. I credenti e la sfida del male (Roma 2005) e Lui è come me. Accoglienza, solidarietà e responsabilità (ivi 2012). In essi l’Autore si fa testimone e portavoce di un discorso sull’uomo e sulla storia in un ampio confronto con gli avvenimenti del tempo più recente e con gli autori contemporanei più rappresentativi, che ne hanno ridisegnato i confini e gli ambiti, accentuandone attualità e importanza. La stessa ricchezza di significato del tema viene qui rappresentata facendo riemergere dall’immaginario un mondo umano, fatto di figure, di immagini e di raffigurazioni – il mondo luogo del nostro vivere e del nostro sperare – , quel mondo umano che si dà a vedere a ciascuno di noi nella rilettura di alcune delle metafore più ricorrenti dell’esistenza umana, di cui è piena la cultura occidentale e alle quali si deve necessariamente attingere per rendere più comprensibile e meno contingente ogni discorso sull’uomo. La cifra di queste metafore potrebbe aprire a una diversa comprensione dell’uomo e del mondo, un atto preliminare necessario all’inizio di una esistenza umana più matura e più responsabile, che potrà essere il risultato dell’impegno dell’uomo nella ricostruzione degli spazi di umanità. La comprensione passa attraverso un processo di riconciliazione con noi stessi e con il mondo umano, dopo le tante ferite che, soprattutto nel Novecento, hanno dilacerato l’umanità, facendo precipitare la cultura stessa nel demoniaco. Ogni possibile riconciliazione vive nel segno del dono e del perdono.

    Il male è ciò che si oppone all’uomo e determina, condizionandole negativamente, le relazioni tra gli uomini e tra gli stati. Richiamarsi di continuo ad esso può significare riconoscere la forza del suo potere sull’uomo, come può costituire un alibi per quanti subiscono la sua influenza senza nemmeno tentare di opporre degli argini alla sua diffusione. La conclusione è di attribuire la responsabilità del male a un Dio, e non all’uomo stesso. Su questo piano in Ad Auschwitz Dio c’era. I credenti e la sfida del male, l’autore ha posto al centro della sua ricerca la figura dell’altro che ad Auschwitz ha conosciuto la sua morte nell’ignominia più grande. Di fronte a questa figura – negazione dell’uomo – sulla quale traspare quella sfigurata dell’ uomo dei dolori di Isaia (53, 1 e sgg.), il problema era di dare una risposta a quanti condotti ad Auschwitz e negli altri campi di sterminio si erano chiesti con rabbia e amarezza dove fosse stato Dio nel tempo della tempesta, quando l’innocente era annientato e ucciso dal suo simile in umanità in un’agonia senza fine. E, invece, contro quanti affermavano la lontananza e il silenzio di Dio, era possibile riaffermare che Dio non era stato mai assente da quel luogo di morte. Egli era stato presente dovunque, soprattutto là dove l’innocente era stato condannato a soffrire e a morire e, nello stesso tempo, non era affatto responsabile del male commesso dall’uomo contro l’uomo.

    Responsabile dello sterminio era stato un io che si era arrogato il diritto di disporre della vita dell’altro e di uccidere senza pietà e impunemente, così come aveva fatto Caino della metafora biblica nei riguardi di Abele suo fratello, consapevole anche che il sangue versato non avrebbe fermato la violenza. Dopo la morte del fratello Abele non per questo l’io di Caino raggiunge la sua pienezza e la risoluzione dei suoi conflitti. La fine cruenta di Abele non risolve affatto i problemi d’identità di Caino e il suo rapporto con Dio, li aggrava soltanto. Dopo il fratricidio davanti a Caino, come ad ogni uomo suo emulo, si apre solo la perdizione in una fuga disperata, quasi per voler sfuggire alla condanna per la colpa di cui si era reso responsabile. All’uomo di questo tempo, in fuga come Caino da se stesso e dagli altri, il messaggio cristiano, se accettato e fatto proprio, contrappone il racconto di un evento, segno di un cambiamento radicale, avvenuto nella storia, che diventa un modello di vita nel quale identificarsi come condizione per uscire dalla situazione di male nella quale è precipitato il mondo umano. Tra le suggestioni di questo racconto è di particolare efficacia l’affermazione ripresa da Dostoevskij secondo cui la bellezza salverà il mondo. Le variazioni sull’io che si apre all’altro e i passaggi più controversi del nostro presente, riletti alla luce di questo messaggio, fanno del volume Ad Auschwitz Dio c’era. I credenti e la sfida del male un’introduzione al cristianesimo nel segno di una rinnovata fiducia nell’uomo.

    Come ulteriore passaggio in Lui è come me. Intersoggettività, solidarietà e responsabilità la realtà multiforme dell’altro viene assunta come parte integrante e necessaria del sé. L’altro non è da intendersi come colui che si oppone all’io, ma come colui che si richiama all’io come sua integrazione o completamento. L’affermazione perentoria Lui è come me diventa il leitmotiv che dà senso ai tanti passaggi indicati mediante i quali prende corpo una filosofia dell’uomo e della storia, che si fa carico dell’altro come sé. L’io non può continuare a celebrare se stesso in un’affermazione ipertrofica di sé negando e distruggendo l’altro da sé. Ne va della sua stessa comprensione. Perché, d’altra parte, non c’è un io che non si risolva eticamente nell’altro come suo inveramento. Voler ignorare l’altro o negargli i suoi diritti fondamentali significa impoverire l’io stesso rinchiudendolo in una solitudine disperata. Lo straniero, in realtà, colui che sta sulla soglia della dimora dell’io, è l’essere che interpella l’io per essere riconosciuto e accolto. Il lessico dell’altro, con riferimento alla cultura greca, romana e ebraica, non ignora il problema del riconoscimento dell’altro. Conosce l’ambiguità della condizione dello straniero, e nello stesso tempo, sa che una parte dell’umanità non può essere abbandonata a un destino di rifiuto e di precarietà. Il riconoscimento dell’altro è nelle cose come la stessa chiamata all’esistenza, che esige comunque il coinvolgimento reciproco dell’io e dell’altro nel noi dell’esistenza umana, di uno che chiama e dell’altro che risponde.

    Il discorso sull’altro trova la sua naturale conclusione in Con l’altro e per l’altro. Una filosofia del dono e della condivisione. I fili di un discorso sull’uomo e sul mondo così aggrovigliati tra loro, quasi sepolti e dispersi nella memoria di ciascuno e lasciati di proposito come in sospeso nei due precedenti volumi, vengono dipanati e ritessuti insieme sulla trama di un nuovo racconto sull’uomo, dove l’altro è un richiamo per l’io e diventa la traccia della responsabilità dell’io verso di lui. Non basta più riconoscere all’altro la sua identità in rapporto all’io o affermarne la comune origine o la sua correlatività. È necessario disporre l’io e l’altro sullo stesso piano come due realtà plurali che si richiamano a vicenda e come l’espressione privilegiata dell’umano nel mondo. La responsabilità dell’io verso l’altro, richiamata da Levinas, richiede che la responsabilità stessa si trasformi in azione con l’altro e per l’altro. Le preposizioni con e per disegnano un percorso nella direzione di un impegno etico, del quale in figura è assoluto protagonista il Samaritano della parabola lucana (Lc 10, 29-37), un essere di confine tra due culture separate e contrapposte.

    Il Samaritano nell’atto del suo fermarsi presso lo straniero – storicamente il suo nemico da evitare sempre e comunque –, lasciato moribondo sulla sua strada, si manifesta secondo la logica della sovrabbondanza e diventa senza volerlo modello di comportamento solidale. Nessuno avrebbe potuto muovergli obiezioni se non si fosse fermato per soccorrere il suo nemico. Non aveva nessun obbligo morale di fermarsi. Era anzi scandaloso fermarsi, non andare oltre per la propria strada, così come avevano fatto quelli che l’avevano preceduto. Egli, invece, si ferma e non si mette semplicemente nei panni dell’altro, ma si fa dono all’altro nella compassione, lasciandosi guidare da quel cuore comprensivo che il re Salomone chiedeva al suo Dio (1Re 3,9)[15]. La stessa preghiera rivolta a Dio dal re Salomone «perché gli fosse fatto dono di un cuore comprensivo, come il dono più grande che un uomo potesse ricevere e desiderare – potrebbe valere – afferma Hannah Arendt – anche per noi. Lontano tanto dal sentimentalismo quanto dalla pedanteria, il cuore umano è la sola cosa al mondo che potrà farsi carico del fardello che il dono divino dell’azione di essere un inizio e quindi di poter dare vita a un inizio, fa gravare su di noi. Salomone invocava questo particolare dono perché era un re e sapeva che solo un cuore comprensivo, e non la mera riflessione o il mero sentimento, ci permette di sopportare di vivere con gli altri, sempre estranei, in uno stesso mondo, e consente a loro di sopportarci»[16].

    È compito di ogni uomo, «orientarsi nel mondo ed anche in un certo senso riconciliarsi con esso; la sola bussola di cui disponiamo [...] è un cuore comprensivo»[17]. Il non ancora dell’esistenza si dà a vedere nell’azione del Samaritano: una apertura al nuovo che dal futuro si proietta sul presente come per illuminare i giorni difficili dell’uomo.

    Molte le persone che, nel corso di questi anni, sono entrate a far parte della mia esistenza favorendo e orientando percorsi e scelte personali. Con alcune di loro ho contratto un debito di gratitudine, che intendo onorare pubblicamente. La loro presenza ha reso plurale il mio stesso essere. Tra gli amici di una vita non posso non ricordare Vincenzo Maria Romano, maestro di vita spirituale, che, spingendo i suoi interlocutori a guardare più lontano, ha saputo indicare a molti di noi, suoi compagni di viaggio, orizzonti che i nostri occhi non potevano scorgere né immaginare.


    [1] K. Jaspers, Filosofia, II, a cura di U. Galimberti, Mursia, Milano 1978, p. 69.

    [2] Nonostante la temerarietà di postulare come possibile il compiersi di quest’evento non è detto che l’inatteso del non ancora – come afferma la Arendt – non possa irrompere ugualmente nella storia. Dall’uomo proprio perché essere agente «ci si può attendere l’inatteso, [considerato] che [l’uomo] è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità» (H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1994, p. 129).

    [3] Rispetto all’episodio di Caino e Abele, più

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