La quadratura del nulla. Nicola Cusano e la generazione del significato
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Info su questo ebook
Marco Maurizi
Si è laureato in Filosofia presso l’Università di Roma «Tor Vergata» sotto la supervisione del prof. Gianfranco Dalmasso con una tesi sul pensiero di Theodor W. Adorno. Si occupa di teoria critica della società e del pensiero dialettico (Cusano, Hegel, Marx, Adorno) con particolare attenzione al rapporto umano/non-umano. Ha conseguito il dottorato in Filosofia a Roma e diversi assegni di ricerca presso l’Università degli Studi di Bergamo. È cofondatore delle riviste «Liberazioni» e «Animal Studies». Con Jaca Book ha già pubblicato La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana (2018, ult. ed. 2019) e Quanto lucente la tua inesistenza. L’Ottobre, il ’68 e il socialismo che viene (2018). https://marcomaurizi74.wordpress.com.
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Anteprima del libro
La quadratura del nulla. Nicola Cusano e la generazione del significato - Marco Maurizi
Introduzione
NON-ALTRO CHE CUSANO
Le domande che questo testo intende porre ruotano attorno al problema della generazione del significato. Esso vuole cioè interrogarsi non sul prodursi di questo o quel significato ma su ciò che, in generale, lo produce come tale. In altri termini: di che cosa è segno la significazione? Cosa significa il significare? Cosa lo genera? Cosa lo muove? A cosa allude nel suo movimento? Come vedremo, è possibile che qualcosa, al di là della diversità delle sue manifestazioni come significato politico, religioso, filosofico, gnoseologico, ontologico ecc., si lasci intravedere nella forma dell’unità. Si tratterà infine di chiedersi se è possibile una teoria genetica del significato che resti nell’ordine della significazione e non cada in una qualche forma di riduzionismo (sociologico, economico, ma anche, perché no?, teologico), tale da rendere l’atto del significato qualcosa di derivato, esteriore, vuoto, rispetto alla dimensione in cui il senso si costituisce come senso. Come vedremo, la stessa possibilità di questa interrogazione deve essere mostrata nella sua paradossalità. A queste domande cercheremo di accostarci a partire dal testo di Nicola Cusano, ovvero da una prospettiva che, pur affondando le proprie radici in un’esperienza di pensiero premoderna, sembra offrirsi ancora oggi come fonte di ispirazione teorica per le domande più radicali che la coscienza filosofica contemporanea è stata in grado di porre.
Mi sia permesso però iniziare con un ricordo personale che aiuterà il lettore a comprendere la genesi e il senso di questo libro. Si tratta del primo incontro che ebbi con il pensiero del Cardinale da Cusa, incontro che avvenne durante i primissimi anni da matricola all’Università. Scoprii Cusano in un corso tenuto dal prof. Gianfranco Dalmasso nel 1998, ormai vent’anni fa presso l’Università di Roma Tor Vergata. Si trattava proprio di un corso sulla Dotta ignoranza nel contesto della ripresa rinascimentale del neoplatonismo. Ne rimasi affascinato anche se non mi capitò più di leggere opere di Cusano fin quando non feci il dottorato. Fu sempre su suggerimento del Prof. Dalmasso e del Prof. Christoph Türcke di Lipsia che, mettendo apparentemente da parte gli studi adorniani cui mi ero dedicato fino ad allora, iniziai a lavorare sul pensiero cusaniano. Non fu un lavoro facile. La distanza ideologica tra il Cardinale da Cusa e me era talmente grande che mi riusciva difficile leggerne le opere senza posizionarmi rispetto ad esse con un giudizio preventivo o posteriore, un giudizio che non poteva essere che di presa di distanze o di accettazione, a seconda della vicinanza o lontananza che la mia lettura registrava tra il testo e i valori
in cui io credevo. I suggerimenti decisivi del prof. Dalmasso mi indirizzarono verso le domande che muovevano il testo cusaniano, cercando di farmi vedere la struttura imprendibile che le generava e che Cusano tentava di mostrare in azione nei propri testi, incitando il lettore a seguirlo nella sua parabola speculativa. Il paziente aiuto del prof. Türcke mi sostenne nel dare a questo corpo a corpo con Cusano la forma di una ricerca di tensioni all’interno del testo cusaniano. Ne venne fuori un’opera molto voluminosa e appassionata, in cui la potenza del pensiero di Cusano emerge all’interno di una prospettiva storico-filosofica più ampia riconducibile alla Dialettica dell’illuminismo¹. Di questo macro-processo in cui è possibile leggere il farsi della modernità, Cusano appare sia come sintomo che come punto di snodo auto-riflessivo. Il risultato delle mie ricerche, in sostanza, era che non si potesse relegare Cusano a ruolo di semplice comparsa del processo più ampio in cui si mostrava il farsi della Modernità, la sua auto-posizione, perché tale processo era al tempo stesso portato a termine ed ecceduto dal pensiero cusaniano. La formula che allora trovai per descrivere questa posizione eccentrica di Cusano fu che egli congelava, per così dire, il passaggio dal medioevo alla modernità, in una sorta di dinamismo statico, di storicità atemporale, di rottura conciliata. Modi contraddittori (poteva essere altrimenti? Potrebbe essere altrimenti?) che cercavano di restituire una potenza di pensiero e una certa collocazione filosofico-storica, più che storico-filosofica, e che sottoscriverei tutt’ora, con poche correzioni. Il saggio qui presentato sul rapporto Cusano-Hegel si iscrive, in un certo modo, ancora in questo crinale, nella misura in cui cerca di approcciarsi al pensiero di Cusano a partire da una nozione di dialettica
che non può non essere trasformata dall’incontro con la prospettiva cusaniana. È vero, e in questo il saggio ci sembra veda giusto, che il problema del confronto dialettico tra Cusano e Hegel non vada affrontato dal punto di vista del metodo – ammesso, e non concesso, che la dialettica sia riducibile a metodo – bensì nel senso più ampio di una diversa esperienza del mondo in cui la Storia emerge in modo nuovo come luogo di manifestazione del logos. Sotto questo rispetto, la tesi centrale della mia precedente ricerca, adombrata anche nel capitolo di questo libro dedicato alla dialettica, vuole testimoniare come l’urgenza della Geschichte, cioè della storia moderna come storia di un nuovo di atteggiarsi politico della libertà, non potesse che emergere in forma statica e compressa nell’opera di Cusano². Come se la storia moderna dei popoli urgesse in quell’opera in forma di un’eco lontana, la cui potenza distruttiva e creatrice fosse ancora di là da venire.
Posso dunque dire che la sostanza di ciò che allora lessi in Cusano rimane intatta. Ma è la sostanza di Cusano? O era piuttosto la mia, di ciò che io vi cercavo e non potevo, in fin dei conti, non trovare? A distanza di anni mi appare chiaro come questa domanda sia autentica e falsa al tempo stesso, perché censura surrettiziamente il nodo decisivo che il pensiero di Cusano non lascia sciogliere, soprattutto a chi pazientemente si dedica a questa impresa. Se dovessi dire cosa oggi non mi soddisfa di quel che un tempo scrissi su Cusano, sarebbe dell’ordine di una potenzialità rimasta inespressa. Ciò che oggi vedo più chiaramente, seppur non nella forma di un’assoluta trasparenza, è che a fare difetto allora fu proprio una incapacità di fare sul serio fino in fondo col pensiero di Cusano, un’incapacità retta da una fondamentale paura di perdere un proprium che allora non sapevo vedere se non nella forma di un posizionamento ideologico. Che io intravedessi la potenza del pensiero di Cusano è testimoniato dal fatto che nella costruzione di un arco storico-filosofico ampio come quello che faceva da sfondo alla mia ricerca, Cusano sfuggisse ad ogni secca presa, si facesse trovare sempre in movimento, accompagnasse il mio giudizio verso il compimento, seppure restando al contempo sempre un poco al di là, come guardando compiaciuto e sornione la mia incapacità di seguirlo dove egli voleva condurmi. Qualcosa, come è giusto che sia in ogni interpretazione, resisteva ad una chiusura che pure il pensiero non può non cercare di tracciare attorno al proprio oggetto. Fu questa apertura che traluceva dalla chiusura di un pensiero che non riuscivo a fare interamente mio e che, pure non mi allontanava come mi sarei dovuto aspettare, ciò verso cui si mosse successivamente la mia interpretazione di Cusano. Dovevo farmi accompagnare da Cusano verso i luoghi che il suo pensiero mi aveva indicato e dove io non avevo avuto il coraggio di seguirlo.
Nel raccogliere i saggi che compongono questo libro mi apparve evidente come essi andassero progressivamente a colmare tale lacuna. C’era come una curvatura del discorso cusaniano che non poteva essere evitata, quella che indaga, non fuori di sé, ma nell’atto stesso del pensiero che pensa l’altro, il problema del rapporto tra il proprio e l’altrui. C’era quindi qualcosa nella mia lettura di Cusano che mi spingeva ad interrogarmi su quel medesimo gesto di lettura. Come se Cusano – icona, specchio, occhio – non si facesse guardare senza rivolgersi al suo lettore con uno sguardo che ne duplicava il gesto e, dunque, lo faceva apparire nella sua struttura fondamentale di gesto di appropriazione ma, anche, inevitabilmente nella sua manchevolezza costitutiva. Dunque, dovevo tornare a leggere Cusano a partire dal mio
interesse per Cusano. Sembrerebbe a prima vista qualcosa di marginale, biografico, accessorio: in che modo la mia lettura di Cusano dovrebbe concernere il pensiero stesso di Cusano? Invece, per poco che ci si soffermi, è qualcosa che porta dritto all’essenza, se ve n’è una, di tale pensiero. Cosa vorrà mai dire parlare di non-altro che Cusano?
Proviamo a misurare la posta in gioco che ci interessa con una battuta apparentemente provocatoria: in fondo, parlare di un autore significa sempre parlare di sé stessi mentre si parla di quell’autore. Lo scompiglio che questo segreto di Pulcinella è destinato a portare nell’area degli studi filosofici sarà tanto maggiore quanto più è quivi penetrata quella concezione para-scientifica che vorrebbe che di un autore si dia essenzialmente una lettura oggettivistica, filologica in senso positivistico, che di un pensatore si ricostruisca insomma anzitutto ciò che egli ha veramente voluto dire
. Si sarà certo autorizzati ad identificarsi con il pensiero di tale autore ma solo dopo che lo si sia accuratamente separato dal proprio. Quanto tutto questo sia problematico è evidente, così come problematica è ogni pretesa di rinchiudere un pensatore attraverso accurati strumenti storico-interpretativi, dentro la cornice di un’epoca che è la sua e non evidentemente la nostra. La storicizzazione è possibile solo dove si dia storia, certo, la quale tuttavia non indica, come noto, solo un’irriducibile evenemenzialità, ma anche una ben più problematica periodizzazione, ovvero una continuità di lungo periodo, scandita da cesure e salti, ritorni, negazioni e denegazioni. Dunque, storicizzare l’autore coincide con il gesto di separare il suo tempo dal nostro, indicare le rotture del continuum temporale che destituiscono di attualità i suoi concetti e li consegnano alla storicità morta, o almeno passiva, di un tempo che non è più. Non bisogna essere Hegel per capire che anche la più circoscritta e prudente filologia si gioca su questioni che attengono alle esigenze di una grandiosa e ambiziosa filosofia della storia. Con il che non si vuol certo dire che non è possibile alcuna presa di distanza, alcun distacco, alcuna obiettivazione critica del discorso storico-filosofico. Ma proprio Cusano sembra aiutarci a pensare questo gesto di collocazione nel tempo in una veste meno ingenua, e forse meno ideologica, di quanto comunemente non appaia.
Dunque proviamo a riformulare quel pensiero irriverente in una forma meno provocatoria, dicendo che parlare di un autore significa magari parlare di sé stessi ma a partire dal luogo in cui il testo di quell’autore si genera. Che non è solo un modo più arzigogolato per dire che occorre assumere il suo punto di vista
. Che la filosofia si dia a partire da un punto di vista, infatti, è questione che, proprio in un autore come Cusano, non può essere assunta puramente e semplicemente, senza alcuna ulteriore complicazione o precauzione. Perché non sarebbe lo stesso Cusano ad avvertirci che l’unico modo per parlare di punti di vista diversi è volgere lo sguardo là dove tali punti di vista coincidono? Non è la convergenza dei punti di vista l’unico luogo a partire dal quale tali punti di vista, effettivamente, possono darsi? E dunque, anche in questo caso, assumere il punto di vista di Cusano significa qualcosa di meno ingenuo che il dismettere metodologicamente i propri giudizi sul mondo per assumere temporaneamente quelli di un altro. Ma questo non è possibile. Non solo, e non tanto, perché i punti di vista sono la sostanza stessa del mondo e, dunque, non si dà mondo che dentro la moltitudine dei punti di vista. Ciò è vero, a rigore, solo dal punto di vista
della moltitudine, cioè dal punto di vista dei punti di vista. Ma questo stesso mondo della molteplicità si dà ed è pensabile solo muovendo dall’unità che gli soggiace e questa unità non si dà in un punto di vista poiché tutti li genera a partire dal proprio auto-movimento. La questione che qui vogliamo brevemente evocare per introdurre il lettore all’ambito di temi che questo libro intende proporgli, ha a che fare con un tema profondamente cusaniano, con quello che a noi pare essere il tema più caratteristico di questo autore. Benché il problema del proprio e dell’altrui, dell’interpretato e dell’interpretante, della filologia e della teoresi possa essere sollevato, a rigore, per qualsiasi autore tanto da essere un locus classico della storia del pensiero filosofico al più tardi a partire da Aristotele, il modo in cui questa costellazione di temi si configura in Cusano si carica di una tensione speculativa che non può essere ignorata.
Basti pensare a come Cusano stesso avrebbe dovuto sorridere di un’interpretazione del suo pensiero che non si presentasse nella forma della congettura e sia pure di una congettura sempre perfettibile ma che, proprio per questo, non può adeguarsi mai al proprio oggetto definendone in modo incontrovertibile la chiusura e il senso. E questo non significa solo che a proposito dell’autore delle Congetture, non è possibile, a meno di non smentirlo con il nostro stesso gesto interpretativo, che offrire a nostra volta delle congetture. Significa anche, e soprattutto, che è possibile sottrarsi a questo intreccio solo confrontandosi teoreticamente con l’autore della Dotta ignoranza, ovvero solo posizionandoci là dove Cusano ci invita a congetturare su ciò che allude ad un oltre delle congetture stesse. È l’opera stessa di Cusano ad offrirci il viatico che ci introduce ad una teoresi che si spogli della contingenza del punto di vista storico e determinato per focalizzarci su ciò che questo punto di vista inevitabilmente indica come sua condizione di possibilità.
Ecco il passaggio decisivo che impedisce di collocare Cusano in un comodo passato che potrebbe riguardarci solo una volta smessi i panni di contemporanei, solo una volta che gli strumenti della filologia ne avessero sterilizzato il pensiero. Non perché non sia possibile, e anzi necessario, operare con tali strumenti al fine di riconoscere le fonti storiche del suo linguaggio e la portata determinata dei suoi concetti. Ma perché ciò per cui il pensiero di Cusano si animò, ciò che ancora lo rende vivo, coincide con quello che avanza dalla sua riduzione filologica, dalla sua musealizzazione in un tempo perduto. Il resto, ciò che nell’opera di Cusano non si lascia condannare nei ristretti limiti di un’epoca andata, è il nucleo scandaloso di un pensiero che, nel momento stesso in cui riconosce la deriva infinita dell’essere e della conoscenza creaturale, pretende di parlare di quell’impossibile, eppure necessario, punto di vista da cui la creatura stessa perviene alla propria auto-comprensione in termini di creaturalità.
Non è possibile pensare Cusano senza pensare questo movimento di incessante de-centratura rispetto a sé stessi, movimento che implica, al tempo stesso, la ricognizione di un centro e una sorta di passo laterale che faccia emergere tale centro. Un centro che appare solo grazie al gesto che umilmente se ne mostra generato, che non può essere mostrato se non da uno scostarsi attento ad indicare il luogo dal quale quel medesimo gesto si origina. Ogni pretesa di afferrare e tracciare quel punto, infatti, ricade nella zona ontologica del punto di vista, di un molteplice che potrebbe darsi in forme infinitamente più vere e precise, o anche, semplicemente, altre. Il fascino del pensiero di Cusano sta qui, a parere di chi scrive, il fascino di un pensiero che ci invita a riflettere sull’ambigua ma salvifica natura del non-proprio in relazione al pensiero e all’essere. Un pensiero che disfa l’appropriazione perché si radica in una dinamica che si struttura proprio attorno a questa radicale dis-appropriazione e che si sdoppia, nella costante ricerca di un proprium che solo può darsi a condizione che ogni altra cosa, incluso il pensiero che lo insegue, si mostri come improprio.
Proprio
qui stava l’errore che avevo commesso nei confronti di Cusano. Un errore che, tuttavia, non solo mi era indicato dal pensiero stesso del Cardinale, ma che tanto più appariva nella sua inadeguatezza nei