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Il bello e il brutto nella Bibbia - Primo Testamento - Primo volume: Da Genesi ad Apocalisse kî-tôb/kalós – lo’- tôb/kakós - Ovvero “ESSERE” UMANO nei DUE TESTAMENTI - Primo Testamento - Primo Volume
Il bello e il brutto nella Bibbia - Primo Testamento - Primo volume: Da Genesi ad Apocalisse kî-tôb/kalós – lo’- tôb/kakós - Ovvero “ESSERE” UMANO nei DUE TESTAMENTI - Primo Testamento - Primo Volume
Il bello e il brutto nella Bibbia - Primo Testamento - Primo volume: Da Genesi ad Apocalisse kî-tôb/kalós – lo’- tôb/kakós - Ovvero “ESSERE” UMANO nei DUE TESTAMENTI - Primo Testamento - Primo Volume
E-book851 pagine11 ore

Il bello e il brutto nella Bibbia - Primo Testamento - Primo volume: Da Genesi ad Apocalisse kî-tôb/kalós – lo’- tôb/kakós - Ovvero “ESSERE” UMANO nei DUE TESTAMENTI - Primo Testamento - Primo Volume

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Il Testo di questa prima parte di un libro articolato in due volumi è il frutto di molti anni di studio e porta a compimento quanto pubblicato con la tesi di laurea "La Bellezza nella Bibbia" nella collana di ricerche filosofiche dell'Università Ca' Foscari di Venezia. Affronta il tema etico-estetico del brutto e del bello contenuto nell'Antico Testamento o meglio nel Tanach, cioè nei testi del canone ebraico; appoggiandosi ai commenti della Tradizione rabbinica, al Talmud e ai Midrash oltre che ad altri commentatori.
LinguaItaliano
Data di uscita14 apr 2015
ISBN9788891185747
Il bello e il brutto nella Bibbia - Primo Testamento - Primo volume: Da Genesi ad Apocalisse kî-tôb/kalós – lo’- tôb/kakós - Ovvero “ESSERE” UMANO nei DUE TESTAMENTI - Primo Testamento - Primo Volume

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    Anteprima del libro

    Il bello e il brutto nella Bibbia - Primo Testamento - Primo volume - Pierluigi Toso

    633/1941.

    DALL’ISTINTO DI FELICITA’ ALLA BELLEZZA TEOLOGICA

    1 La ricerca filosofica della felicità ed il suo fondamento etico

    Oh, se il buon D-o avesse creato l’uomo senza istinto di felicità! In tal caso non ci sarebbe sì felicità di sorta, ma in sua vece una morale pura, esente da ogni eudemonismo[56]. Tali parole, espresse da un filosofo sospettoso quale Feuerbach, mostrano come ogni uomo non possa sottrarsi dalla ricerca della felicità. Per tale fine si può arrivare a sacrificare persino una mano o un piede, come recita il vangelo, infatti, soltanto quando l’uomo perde la sua testa, perde anche ogni e qualsiasi felicità, la felicità senz’altro[57]. Da tale ricerca e dal fine che prospetta non si sottraggono nemmeno i santi, i quali accettano o cercano il dolore e la sofferenza pensando alla felicità suprema dell’aldilà, un esempio emblematico in tal senso è S. Francesco Saverio[58].

    La felicità mostra un legame intrinseco con la morale, in tal senso un esempio è dato dal senso più bello di cui dispone l’uomo, infatti, vedere è il maggiore dei beni ed il famoso oculista, che prescrive rinunce ai piaceri per salvaguardarlo, è l’istinto morale di felicità[59]. Un esempio ulteriore è dato dallo studio scolastico, studio è propedeutico alla felicità e che pur essendo percepito come una camicia di forza, si rivela un dovere per la felicità futura[60].

    Il Dovere è solo ciò che è sano o che rende sani[61], per tale motivo non va mai disgiunto dal suo fine che è la felicità, per tale motivo è un’idea fondamentalmente dannosa e largamente nociva, che la morale dipenda solo dalla volontà[62]. Vi sono momenti in cui si è nel deserto e si va avanti per fede senza cioè vedere la felicità o la terra promessa; ciò non toglie che resti comunque la felicità lo scopo di tale cammino nel deserto. Inoltre il vero dovere è connesso alla partecipazione attiva alla altrui felicità e/o infelicità, essere felici con chi è felice e infelici con chi è infelice - ma in quest’ultimo caso, cosa di per sé in fondo ovvia, soltanto per porre rimedio, se possibile, al male - in questo soltanto consiste la morale[63].

    Dunque, per poter essere felici, è necessario possedere una coscienza, la quale permette di provare la compassione e conoscere l’infelicità, chi non ce l’ha non possiede nemmeno il contrario ossia l’istinto di felicità[64]. Feuerbach inoltre afferma che i contrasti degli uomini rispetto alla morale si possono sempre ridurre a due: istinto di felicità ovvero amore di sé, o negazione dell’amore di sé[65], dunque è contraddittorio affermare che l’amore di sé come comando morale è assurdo, in quanto è implicito nel vivere; infatti, vi è chi contrasta tale morale[66]. È comunque vero che l’amore verso il prossimo è la vera rivelazione etica e l’eticità non è altro che la vera, perfetta, sana natura dell’uomo; l’errore, il peccato, il vizio non sono altro che uno sviamento, un’imperfezione, un’irregolarità, spesso un vero aborto della natura umana[67].

    2 La felicità e la fede

    Dei filosofi che hanno ricercato le felicità attraverso la fede mi sembra irrinunciabile citare un pensatore danese ovvero S. Kierkegaard, il quale però malgrado la potenza del suo genio, nel suo atteggiamento religioso resta di fronte a D-o e non in D-o. Gli manca il miracolo delle nozze di Cana[68]. Che cos’è mai la vita, quando non c’è vino, dice lo Spirito Santo nella Sacra Scrittura, e con lui il vignaiolo e il bevitore di vino[69]. A Kierkegaard, il quale peraltro ha scritto un’opera intitolata In Vino Veritas, dunque manca l’entrare nell’incarnazione di D-o, in quanto gli manca la relazione col miracolo di bellezza che tale incarnazione comporta e che appare immediatamente nel vangelo di Giovanni, proprio nel miracolo del vino.

    Il problema per ogni uomo resta quello di riconoscere la vera bellezza, concordo anche in tal caso con quanto affermato da Feuerbach: Ciò che maggiormente mi ha confuso negli uomini è che solo una minoranza è in grado di distinguere tra bellezza falsa e vera, tra essenza propria e simulata, arte e natura, originale e copia[70]. Dunque il problema del giudizio estetico era e rimane il problema primo e ultimo di cui l’uomo dovrebbe essere cosciente, giudizio su cui filosofi come Kant hanno riflettuto in profondità; giungendo alla conclusione che ogni etica ed ogni giudizio estetico trovano la verità quando non hanno fini ulteriori o ragionamenti pregressi, in altre parole quando è possibile dire: È bello e buono come disse D-o nelle parole di giudizio etico-estetico sulla Creazione. La Teologia della Bellezza ha ben compreso tale fatto e non a caso Evdokimov riporta un episodio fondamentale in tal senso: Nel racconto leggendario della scelta della fede da parte di Vladimir (principe di Kiev), questi sceglie la fede che mostra la bellezza maggiore[71].

    Il mio lavoro vorrebbe dare un’indicazione proprio nel senso appena citato, in quella direzione cioè che Vladimir ha guardato per trovare la propria fede. Le Sacre Scritture ed i passi che riporterò faranno emergere come Ciò che è bello è la presenza di D-o tra gli uomini, e come tale presenza rapisca gli animi e li trasporti[72]. Evdokimov prosegue scrivendo come S. Bulgakov chiami l’Ortodossia il cielo sulla Terra, perché nei suoi momenti culminanti essa si esprime in termini di luce e bellezza[73].

    Personalmente sono cattolico[74] e sono dunque profondamente convinto che dove vi è Bellezza vi è Verità e quest’ultima Unità di trascendentali dovrebbe essere il punto di partenza per un confronto dialogico tra le varie religioni e le diverse fedi. In tale visione è coerente affermare come la Bellezza costituisca perciò una delle facce della Trinità ideale del vero, del buono e del bello[75], e come il bello sia presente nell’armonia di tutti gli elementi e ci pone dinanzi a un’evidenza indimostrabile, che non può essere giustificata se non contemplandola[76].

    Il Testamento Primo[77] mostra come dopo l’incarnazione del Verbo tutto è dominato dal volto, dal volto umano di D-o[78]. È tale volto trasfigurato che mostra la gloria e la bellezza della santa dimora di D-o, una dimora che abbraccia il cielo come la terra e le parole di Evdokimov, rivolte a D-o, risultano ancora una volta essenziali in tal senso: Come hai dispiegato in alto lo splendore del firmamento, così hai rivelato quaggiù la bellezza della santa dimora della tua gloria[79]. Tale bellezza viene offerta all’uomo e le conseguenze ultime dell’Incarnazione saranno la santificazione della materia e la trasfigurazione della carne[80]. Così L’uomo alla fine sarà integrato con D-o e il cosmo sarà integrato con l’uomo, diverrà interiore a lui, il sole e gli astri brilleranno dentro l’anima umana[81]. Tali affermazioni non sono una mera utopia per l’uomo biblico, o meglio per l’uomo cristiano, infatti, la totalità delle creature è unita ontologicamente al Cristo[82] ed il Figlio di D-o è stato crocifisso per tutti e per tutto, avendo tracciato il segno della croce su tutte le cose[83].

    La bellezza, perciò la salvezza, non viene donata all’uomo come premio dopo un processo, ma viene regalata e colta dalla fede. "Alla luce biblica la salvezza non ha niente di giuridico, non è una sentenza di tribunale. Il verbo yacha in ebraico significa ‘mettere a posto’, mettere a proprio agio; in senso più generale significa liberare, salvare da un pericolo, da una malattia e infine dalla morte[84]. Salvare significa sanare, la fede salva nel senso che guarisce[85] e per ribadire che ogni creatura può essere salvata è sufficiente ricordare come, con riferimento a Cristo, non vi sia nulla in questo mondo che sia restato estraneo alla sua umanità e che non abbia ricevuto l’impronta dello Spirito Santo[86]. È tale impronta che rende belli, è dunque normale come il vertice della bellezza umana sia raggiunto da Maria, in quanto ella è teotòkos, ossia madre di D-o e lo Spirito Santo dimora in lei senza peccato"[87].

    Colui che accede maggiormente alla bellezza è il santo, il quale è santo perché in lui dimora lo Spirito Santo. Per il santo cantare il suo D-o, le sue perfezioni, in breve la sua Bellezza, è la sua unica preoccupazione, è il suo unico ‘lavoro’ totalmente gratuito[88]. Santo dunque è solo D-o e chi appartiene totalmente a Lui, la santità non è un attributo di carattere morale[89]. In tal senso si può comprendere come vi sia stato e vi sia solo un uomo che per sua natura è santo e tale uomo è il Cristo[90].

    Se il santo è colui che gode maggiormente della bellezza allora ogni uomo tende ad essere santo e S.Basilio ha ragione quando afferma che per natura gli uomini desiderano il bello[91]. L’errore sta nel non capire che la bellezza perfetta viene dall’alto, dall’unione con la luce più che risplendente e che è l’unica origine di una teologia sicura come dice s.Gregorio Palamas[92]. Tale bellezza non può però prescindere da una perfezione etica richiesta ad ogni uomo che aspiri alla santità. In sintesi la bellezza non si formula che partendo da D-o e: ‘Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste’ (Mt 5,48) significa anche: ‘Siate belli com’è bello il Padre vostro celeste’[93].

    3 La bellezza, il suo fondamento biblico e la sua espressione come produzione estetica

    S. Agostino fu un uomo che rifletté molto sulla bellezza e su come arrivarvi. Emblematiche in tal senso sono alcune sue parole: Voi vedete fratelli: la carità non è una virtù della bocca; pone la sua sede dove si trova la bella amica dello sposo. E dov’è questa bellezza? Tutta la gloria della figlia del re è interiore (Sl 44,14). La gloria non è altro che la bellezza, la bellezza non è altro che la carità, la carità non è altro che la vita. Quindi per vivere, ama. Se ami, sei bello: l’amore è buono, l’amore è bello. Se questo bello ti manca, non vivi, hai l’apparenza, ma non vivi dentro[94].

    Nel De civitate Dei (XI 22) lo stesso Agostino scrive: Dio è un così grande artefice nelle cose grandi, da non essere meno grande nelle piccole; e le cose piccole non si devono misurare dalla loro grandezza (che è infatti, nulla), ma dalla sapienza dell’artefice; è come se nella figura del corpo umano viene tagliato un sopracciglio: non si toglie quasi nulla al corpo, ma molto alla bellezza, poiché essa non è data dalla grandezza, ma dalla somiglianza e dalla misura delle membra[95].

    La bellezza dunque è opera di D-o, è nella Trinità infatti, che si trova la fonte suprema di tutte le cose, la bellezza perfettissima e la gioia più elevata[96] e tale bellezza è segnata dall’unità, così come conferma lo stesso autore nel Sermo 46,37: Se non conosci te stessa, o bella tra le donne: sei bella tra le donne, ma riconosci te stessa. Dove ti riconosci? In tutto il mondo. Se infatti, sei bella, l’unità è in te. Dove c’è divisione, c’è bruttezza, non bellezza[97]. Tale unità viene rotta nel peccato originale ma nella passione del Signore è guarita[98]. È anche come guaritore di tale unità che si riconosce la bellezza di Cristo, il quale ‘è’ bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori, bello nei miracoli, bello nelle torture, bello nell’invitare alla vita, bello nel non curarsi della morte, bello nell’abbandonare la vita e bello nel riprenderla, bello nel sepolcro e bello sulla croce, bello nel cielo[99].

    E confermando quanto scriverà dopo più di un millennio Dostoevskij, sull’importanza ed essenzialità della bellezza per il senso della vita dell’uomo, Agostino dice In Johannis evangelium tractatus 5,21: Non temere di stancarti: il godimento di quella bellezza sarà tale, che sempre ti sarà davanti e non ne sarai saziato, anzi ti sazierai sempre e non ti sazierai mai[100].

    La bellezza viene spesso definita attraverso un sinonimo individuato nel termine estetica, un nome che trova la sua origine e "giustificazione nella dottrina leibniziana da cui Baumgarten deriva tale termine e per la quale, non essendoci una diversità di natura tra senso e intelletto, ma solo diversità di chiarezza e distinzione percettiva, la bellezza rappresenterebbe il grado più alto dell’attività sensitiva (aisthetà ‘fatti sensibili’)...sicché la bellezza si identificherebbe col fatto sensibile nella sua perfezione[101]. Tale disciplina è connessa sia all’arte che alla filosofia, dal momento che è fatta sia di gusto sia di giudizio"[102].

    Uno dei momenti più elevati toccati dalla riflessione estetica è il romanticismo, dove l’estetica... è lo spirito di un’epoca della cultura che compie uno sforzo ardito e tormentato per risolvere nell’arte tutta la vita e tutto l’essere,...è il rinascimento dell’estetismo originario dei greci[103]. Il romanticismo...trasmette ai tempi nuovi, insoluto, il problema dei rapporti dell’attività estetica con le altre attività dello spirito[104]. È proprio tale rapporto unitario che nell’estetica biblica emerge come essenziale, infatti, nel concetto estetico presente nelle Scritture l’unità è garantita dall’etica e seppur l’energia morale non basta certo all’energia del tocco geniale, però entrambe stanno sulla linea del vigore e della coerenza spirituale. È il caso in cui un giudizio sull’arte non può ignorare il giudizio sull’uomo, e il giudizio sull’arte di una civiltà tocca in qualche modo il giudizio sui valori ‘morali’ espressi dalla civiltà stessa[105]. L’estetica biblica ha dato impulso all’arte sacra rappresentata mirabilmente nelle icone della tradizione ortodossa, dove l’arte diventa sacra... perché rende in immagine un’anima che crede in D-o o per lo meno vive nel regno dello spirito, che è il regno di D-o[106]. È tale regno che sarà al centro della riflessione etica-estetica del Testamento Primo ed è in tale regno che si compie e si sana definitivamente la bellezza originaria descritta in Genesi e decaduta e corrotta conseguentemente al peccato originale dell’uomo.

    La bellezza e la fede si possono esprimere e possono essere trovate nell’arte, come già rilevato citando il racconto inerente il Conte Vladimir, il quale scelse la fede in base alla bellezza artistica espressa. In tal senso è innegabile che in oriente tale bellezza è più visibile, infatti, la bellezza dà gioia e la gioia piena del regno viene rappresentata dalle icone, le quali mostrano una differenza essenziale, seppur complementare, con l’occidente, dove trionfa la croce, mentre proprio in oriente il centro dell’espressione artistica sacra è chiaramente la gloria e la bellezza del Cristo Pantocrator[107]. Anche l’arte laica non si sottrae di fatto al rapporto col sacro, in quanto, spesso si rivela come imitazione della natura, dunque della creazione, un fatto fondato sulla convinzione diffusa nei grandi pittori, i quali affermano di non aver mai visto nulla di brutto nella natura[108]. Per tale motivo essere artisti vuol dire in qualche modo essere radicati nella bellezza originaria della creazione, la quale non è statica è realizzata una volta per tutte, infatti: Il mondo viene creato di continuo: ogni giorno reinizia il suo cammino, grazie a Colui che all’inizio era principio, anche ora è principio; Colui che all’inizio era nuovo, resta nuovo anche ora. Egli regna dall’inizio alla fine dell’universo: è il primo, il nuovo, l’immutabile[109]. È anche per tale motivo che l’estetica biblica che emergerà dal mio lavoro sarà esemplificata in maniera emblematica dall’arte suprema, la musica[110], e dall’uomo che a mio giudizio meglio di ogni altro ne ha espresso il carattere etico-estetico-paradossale mostrato da Gesù Cristo. Seguendo tale percorso forse anche noi potremo riconoscere il Creatore nella sua qualità di Artista ed esprimere delle parole vicine a quelle espresse da S. Basilio di Cesarea quando scrisse delle righe a commento del libro della Genesi. Tale padre della Chiesa, non a caso universale nella sua visione dell’umanità ovvero difensore dell’autentica cattolicità, riuscì a percepire la bellezza di quel Colui da cui tutto ha origine e poté scrivere: La Natura beata, la bontà esente da invidia, colui che è oggetto d’amore da parte di tutti gli esseri ragionevoli, la bellezza più d’ogni altra desiderabile, il principio degli esseri, la sorgente della vita, la luce intellettiva, la sapienza inaccessibile. Egli insomma in principio creò il cielo e la terra[111]. Inoltre lo stesso Basilio si era preoccupato di riflettere sull’espressione artistica della bellezza, infatti, aveva intuito come le arti non fossero tutte uguali individuando la distinzioni tra arti teoretiche (danza e musica) e creative (architetture) in cui l’opera d’arte è permanente[112]. Ciò a conferma di come il passo successivo all’individuazione del significato estetico della Creazione non possa che essere l’analisi dell’atto analogo compiuto dall’uomo, cioè la riflessione sull’espressione artistica umana, la quale avvicina l’uomo ad una condizione divina.

    4 Possibilità di un percorso estetico biblico 

    Esistono testi di storia dell’estetica[113] in cui si afferma che il concetto di bellezza nella Bibbia è praticamente inesistente e di conseguenza anche un’estetica, intesa come relazione attraverso i sensi legata alla stessa bellezza biblica, non è presente. Inoltre, per quanto riguarda l’estetica inerente la musica, pensata dalla tradizione teologica occidentale, esiste solamente un criterio di eticità, legato al bonum, il quale esclude dal suo orizzonte proprio l’aspetto estetico e la bellezza di cui esso è espressione[114].

    Le pagine che hanno preceduto le righe presenti hanno evidenziato come teologi ed artisti abbiano compreso la radicale esteticità delle Scritture, sia nei loro contenuti sia nella loro forma. Il mio lavoro cercherà dunque di rendere chiaro e direi scientifico, dal punto di vista esegetico o di una filosofia della Scrittura, come esista un concetto di bellezza ed una linea estetica precisa che guida le Scritture dal loro inizio al loro compimento. In realtà e ancor più in verità la questione posta a riguardo di una possibile estetica biblica e divina, con particolare riferimento a quanto narrato nei primi capitoli della Genesi che raccontano i giorni della Creazione, andrebbe rovesciata nei confronti di ogni filosofia e di ogni pensiero umano. A sostegno di quanto appena affermato giunge lo stesso pensiero filosofico, in particolare kantiano, laddove il filosofo tedesco ha individuato nei concetti di immediatezza e di universalità il riconoscimento di un corretto e certo giudizio estetico positivo, cioè di un giudizio che sappia riconoscere l’autenticità della bellezza. La storia dell’arte e su tutte la storia della musica ci suggerisce invece come ogni giudizio estetico umano sia figlio del tempo, dell’epoca e dunque della cultura cui esso è legato, comprendendo nella cultura la mediazione logica che il pensiero attua anche sulle differenti religioni[115]. Che Kant abbia intuito in funzione sia etica sia estetica come sia necessario un principio di universalità per riconoscere della verità è probabilmente comprensibile grazie agli studi teologici che intraprese prima di dedicarsi in modo esclusivo alla filosofia, un fatto leggibile anche in quel cielo stellato che toccava la sua coscienza e che ripropone l’ordine creativo biblico del giorno, che vede nella sera il suo inizio. In tal senso emergerà, con riferimento al sigillo finale di ogni giorno creativo da parte di D-o, come solamente quest’Ultimo sia stato in grado di dare un giudizio estetico autentico e vero e universale, in quanto toccava ogni cosa creata. Se dunque, come analizzeremo con riferimento al Tanach, dunque al Primo Testamento, è fatto divieto all’uomo di cercare di creare non avendone le facoltà, è altrettanto vero che in tal senso le parole di Gesù, inerenti il comando contenuto nelle sue parole richiamanti il Non giudicare (Mt 7,1-2; Lc 6,37), esortano a comprendere l’impossibilità per l’uomo di conoscere e riconoscere fino in fondo sia l’etica sia l’estetica di un altro uomo, ma più in generale di ogni cosa esistente con particolare riferimento agli esseri viventi. Ciò è ulteriormente confermato dallo stesso Gesù, quando fece notare al giovane ricco che solamente D-o è Buono, infatti, solo chi possiede tale identità di bontà e bellezza può esprimere un giudizio estetico di verità. Di fatto, come narrano le Scritture, nell’uomo, in ogni uomo, persiste il riflesso di D-o ed anche dal punto di vista etico-estetico tale riflesso induce l’umanità intera nella presunzione di dare un giudizio in tal senso, avvalendosi dei sensi a disposizione ovvero dell’estetica con cui D-o ha dotato l’uomo, in particolare dei sensi dell’ideell[116] come disse Hegel che, come vedremo, esprimono anche verbalmente un giudizio di bellezza. Sensi che non a caso sono distribuiti in maniera intensivamente distinta tra l’uomo e la donna, ad indicare come solamente l’unità di tali esseri possa esprimere qualcosa di vero e universale anche e soprattutto dal punto di vista estetico[117]. La mancanza di tale unità ha spinto la riflessione filosofica e non solo alla ricerca di un modello di pensiero estetico e uomini come Schiller hanno individuato nel concetto di sublime, derivante da un confronto vinto dall’uomo rispetto alla natura l’esperienza massima di bellezza, sublime che potrebbe essere ripensato alla luce di un confronto tra esseri umani e più in particolare tra uomo e donna. Infatti, per quanto concerne il confronto D-o-uomo è ancora una volta Hegel ad aver individuato con esattezza un rapporto di parità impossibile, traendo spunto, come visto in Kant, dai propri studi teologici che con riferimento alla riflessione trinitaria ha espresso le stesse dinamiche descritte da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. Il discorso analitico potrebbe continuare per pagine e pagine, ma in queste righe introduttive arresto qui la mia penna lasciando spazio ad una breve esposizione di quanto sarà contenuto nelle pagine che seguono.

    I primi due capitoli di questo libro saranno prevalentemente indirizzati all’analisi della bellezza relazionata all’estetica nel Primo Testamento, analisi preceduta da una breve parte dedicata alla biografia dei principali commentatori rabbinici da me utilizzati, unita ad una riflessione sull’opera aristotelica, in particolare relativa all’Etica Nicomachea. Opererò delle riflessioni che seguiranno la presenza di due termini ebraici[118] fondamentali per descrivere la bellezza, ossia tôb e yâfêh. Inizialmente prevarrà l’interesse per il termine tôb, e per i suoi derivati, in quanto rivelatosi la prima parola utilizzata nelle Sacre Scritture per indicare la bellezza; successivamente però anche il termine yâfêh ricoprirà una parte importante in tale analisi, soprattutto con riferimento al Cantico dei Cantici. A tali termini avvicinerò anche le parole greche che li traducono, per rendere più completa la possibile comprensione estetica.

    Per introdurre il problema della bellezza descritta dai termini tôb e yâfêh dedicherò una breve analisi al loro significato. Analisi cui farò seguire un esame dei testi in cui appare tôb prima del gesto di disobbedienza di Adamo, ovvero prima del non ascolto da parte dell’uomo dell’unico comando datogli da D-o; non ascolto che ha prodotto l’atto che ha portato alla rottura della relazione dei sensi umani, nella loro totalità, con la bellezza. Dopo una successiva analisi dell’episodio in cui viene descritta la disobbedienza dei progenitori, cioè di Adamo ed Eva, porrò in evidenza alcuni episodi in cui i due termini ebraici in questione mostrano la perdita della bellezza originale e la sopravvivenza di una bellezza diversa da quella pre-esistente.

    Al testo biblico farà seguito un commento tratto da alcuni Targum e Midrash, oltre che da alcuni commenti rabbinici posteriori a tali tradizioni. Anticipo fin d’ora come i rabbini che citerò abbraccino un periodo che va dal XI al XVIII secolo, dunque per tale temporalità ed anche per la sua spazialità (i commentatori ebraici che utilizzerò che citerò coprono una presenza geografica prevalentemente europea, ma in zone di confronto col pensiero greco mediato dagli arabi), apparirà una chiara influenza del pensiero aristotelico sulla tradizione rabbinica presente in questo libro. È bene in ogni modo porre l’accento come il pensiero dell’autore principale dei commenti rabbinici da me riportati sia anteriore all’influenza aristotelica in questione; infatti, l’opera di tale autore, identificato col nome di Rashi, precede l’inculturazione del pensiero greco, in particolare aristotelico, nei confronti del pensiero rabbinico. Per quanto riguarda Rashi, che con i suoi commenti ha fatto da cardine alla parte riguardante il Primo Testamento, riporterò fin dall’inizio le notizie inerenti la sua vita e soprattutto il suo modo di interpretare i testi biblici, modo che segue criteri che io stesso seguirò per l’interpretazione dei passi inerenti il Testamento Primo. Utilizzerò il commento di Rashi per la sua importanza all’interno della tradizione rabbinica, infatti, tale talmudista[119] è considerato il "Padre dei commentatori e per nove secoli lo studio di Chumash è stato sinonimo di Chumash-Rashi"[120]. A tale introduzione farò seguire un percorso sintetico dell’influenza aristotelica negli autori ebraici citati, in tal modo renderò più comprensibile il confine esistente tra il pensiero aristotelico e quello biblico.

    Il problema centrale su cui porrò l’attenzione, come già anticipato, è l’esistenza di una presenza del bello nella Bibbia, presenza sorretta da una solida tradizione sia ebraica sia cristiana, ma soprattutto evidente aprendo gli occhi e la mente nei confronti dei testi ebraici e greci che compongono le Scritture. Che la grecità abbia incrociato l’ebraicità è evidente ed emblematico nella Traduzione dei LXX, una traduzione motivata proprio da un passo del Talmud Babilonese, passo che citerò per rilevare il passaggio della produzione artistica dal mondo ebraico a quello greco. Proprio la geografia unita ai tempi storici in cui tale Talmud si formò, tempi che danno come limiti estremi la metà del III e la fine del V Secolo, ci dicono come l’autore si trovò sicuramente a confronto con la secolare tradizione filosofica greca ed il fatto che implicitamente la citi (riconoscendone il pensiero), mostra una sicura influenza di quest’ultima sulla redazione del passo talmudico in questione.

    A commento dei testi biblici, presi oltre che dal Testo Masoretico anche dalla Traduzione dei LXX[121], e di quelli ebraici già precisati, apporterò un mio breve contributo per far emergere come da tali fonti sia possibile trarre differenti interpretazioni della bellezza biblica.

    Terminato l’approfondimento primotestamentario continuerò il mio lavoro attraverso le Scritture del Testamento Primo. Anticipo fin d’ora come il termine fondamentale in questione che seguirò sarà kalós/n (termine peraltro che traduce il kî-tôb presente in Genesi) insieme con altri sostantivi e verbi che preciserò al momento dell’analisi. Iniziando la parte inerente il Testamento Primo introdurrò una breve analisi riguardante l’accostamento kî-tôb/kalós, accostamento che mostrerà come vi sia una continuità tra i due termini biblici e dunque un’unità legata alla concezione estetica tra il Primo Testamento ed il Testamento Primo. Successivamente riprenderò il tema della conoscenza anticipato nel Primo Testamento, conoscenza che biblicamente significa sempre una relazione estetica completa e piena. Proprio con riferimento alla conoscenza procederò con la ri-composizione dei sensi descritta nei vangeli, per proseguire con altri riferimenti estetici e giungere al libro dell’Apocalisse, passando per l’analisi inerente la via che porta alla bellezza ovvero l’amore. L’ultimo capitolo di quest’opera, che abbraccerà sia il Primo Testamento sia il Testamento Primo, sarà dedicato al luogo in cui la bellezza teologica si esprime in maniera assoluta, permettendo una ricezione estetica completa, in altre parole argomenterò riguardo al regno di D-o e/o dei cieli ed alla situazione di beatitudine vissuta da chi abita tale luogo. Infine, chiuderò il percorso estetico intrapreso come anticipato nell’introduzione, cioè tramite alcune pagine dedicate all’opera musicale, in particolare sinfonica, di L.V. Beethoven a confronto con l’uomo che è considerato sinonimo della musica stesso cioè W.A. Mozart.

    L’intero percorso estetico, ma forse sarebbe meglio definirlo come etico-estetico, che cercherò di rendere chiaro ed evidente attraversando le Scritture dal loro inizio alla loro fine, sarà rivolto a trovare la risposta al perché i progenitori dell’umanità rinunciarono alla loro condizione incorruttibile per scegliere di fatto l’inizio di una storia umana carica di sofferenza e di fatica oltre che di qualche intuizione di bellezza. La motivazione di tale scelta viene esplicitata fin dalle prime pagine della Bibbia e sembra evidente nella proposta del tentatore fatta ad Adamo ed Eva. Un’offerta di non-morte, di bellezza e di bontà da mangiare, insinuata nell’uomo nella sua totalità di maschio-femmina. Tale offerta però si rivelò un inganno e per trovare ciò che il serpente non poteva concedere all’uomo bisogna fare un passo indietro, proprio prima del gesto di Adamo ed Eva, quando il Creato era bello e buono nella sua armonia; un’armonia che comprendeva l’uomo nella sua interezza. Dal momento che tale passo fu impossibile dopo la caduta dei progenitori, nacque la necessità di un passo verso il futuro, un passo costante verso quell’attesa del kalós che avrebbe ridonato la possibilità estetica originaria ampliata in ogni senso. È questa situazione che l’uomo insegue, quasi in un Cantico dei Cantici perpetuo, e che può trovare riscrivendo con parole nuove ciò che Dante descrisse in maniera formidabile nei confronti dell’unità tra la bontà e la bellezza che abita il Chi da cui tutto ha origine: La divina bontà, che da sé sperne ogni livore, ardendo in sé sfavilla sí che dispiega le bellezze eterne. (Paradiso, Canto VII 64-66).

    5 Rashi di Troyes ed il pensiero filosofico ebraico ed aristotelico

    5.1 Introduzione all’esegesi di Rashi

    L’ebraismo è una civiltà sia del commento (in particolar modo riguardo alle Scritture), sia del racconto. Il legame tra tali attività si mostra sia nel culto sia nella trama culturale che lega tutto il popolo d’Israele. La sintesi più evidente di tale legame è espressa nel targum (almeno in quei Targumim che stanno per diventare Midrashim), nel Midrash Aggadico e nell’assunzione di questo da parte dei commentatori, compreso Rashi[122].

    Il nesso racconto-commento emerge dall’opera di Rashi che così non solo interpreta cosa dice il Testo Sacro, ma lo incultura parlando ad ogni lettore ebreo.

    Rashi mostra dei criteri ermeneutici chiari che lui stesso enuncia. Il primo di tali criteri è il Peshat: "Io...mi occupo solo del senso letterale della Scrittura e di quella aggadah che definisce il senso delle parole nel loro modo appropriato". Il secondo è relativo al Midrash, vale a dire alla pluralità dei sensi presenti in un testo, che egli formula brevemente con le parole altra interpretazione. Questo secondo criterio potrebbe essere in contraddizione con le parole stesse di Rashi che dice: La Scrittura non lascia nulla nel vago, ma indica ogni cosa con chiarezza oppure quando afferma riguardo a Gen 4,15a: Questo è uno dei versetti ellittici, che parlano per accenni, senza precisare. In realtà tra i due principi enunciati non vi è alcuna contraddizione, ma solo la consapevolezza della contemporanea presenza della precisione della Scrittura e del bisogno continuo d’investigazione da parte dell’esegeta[123].

    Il tutto si può riassumere ancora nelle parole dello stesso Rashi: Ogni testo si scinde in molti significati, ma, alla fine, nessun testo è mai privo del suo senso letterale (Introd. al Cantico dei Cantici).

    Rashi è un esegeta dalle cui opere emergono chiaramente la sua cultura e la sua concezione della Tôráh; ma anche il suo sentimento, il suo amore per gli animali e la sua percezione del pathos e della tragedia. Pur nella sua originalità opera come un pittore bizantino d’icone o un artista moderno di collages, infatti, nella sua opera rimane dentro le strutture che lo hanno preceduto attingendo sia al Talmud sia al Midrash. In tal modo Rashi resta sempre all’interno della comunità cui appartiene compiendo il detto di Hillel non separarti dalla comunità[124].

    Sa’adyah bên Yosef (880-942) fu colui che introdusse il metodo del Peshat, il quale si distingue da quelli precedenti perché non isola mai il singolo racconto dall’intera opera, ma espone il senso letterale della Scrittura in conformità col contesto, col lessico e con la forma letteraria usata. Tale metodo diviene decisivo nell’opera di Rashi che lo adotta come un cardine della sua opera esegetica.

    Dunque, l’opera di Rashi, assume i metodi esegetici pre-esistenti arrivando ad una sintesi che comunque privilegi il significato letterale del testo ed in tal senso si può affermare come Rashi sia il pioniere del Peshat[125]. A ciò si può aggiungere come Rashi riesca ad assumere nel suo metodo anche un metodo interpretativo fondamentale come il Derash, il quale consiste in un approfondimento etico, filosofico e poetico della Bibbia, il Rabbi di Troyes utilizza quest’ultimo al servizio del Peshat[126].

    È importante sottolineare come tale metodo non sia mai utilizzato, come in altri autori a lui successivi, per una polemica anti-cristiana contro l’interpretazione allegorica. Il suo metodo invece è rivolto a chiarire il più possibile il significato della Scrittura a tutti i suoi fratelli di fede, per tale motivo utilizza ogni fonte disponibile ponendo anche delle note unite a delle traduzioni di termini in francese, la lingua comune di quel tempo[127].

    Come già detto l’opera di Rashi è contemporaneamente sintesi dell’opera esegetica che lo precede e novità grazie all’originalità dei suoi commenti, originalità che però non contraddice la tradizione in cui si è formato, ma anzi vi aggiunge chiarezza e completandola.

    Il suo modo di commentare è semplice ed in tal senso è innovativo rispetto ad ogni commentatore ebraico che l’ha preceduto. Se non ci fosse stato Rashi Israele avrebbe probabilmente perduto la possibilità di comprendere il Talmud Babilonese. Infatti, tale esegeta riuscì ad indirizzare alle masse ebraiche i suoi commenti proprio grazie alla sua semplicità ed alla sua creazione semantica[128]. Rav Tsa’ir (Chaim Tchernowitz) a proposito del commento al Talmud di Rashi afferma: Sembra che egli si preoccupi soltanto della parola isolata dal testo, senza un legame con il complesso del passo, ma, in realtà, egli vede sin da principio il fine e il pensiero contenuti nel passo stesso, come colui che pone pietra su pietra, mattone su mattone, finché si vede tutta la costruzione pronta e ben disposta innanzi e ancora… Rashi fa intravedere allo studioso – secondo il metodo socratico – la verità del suo contrario; dalle domande e dalle esclamazioni deduce le risposte, portando così il lettore da una logica sofistica ad una sana logica[129].

    Rashi indica raramente le sue fonti, che sono soprattutto il Talmud Babilonese, i Midrashim Tanhuma, Mekilta, Sifrei, Sifra, Pesiqta Rabbati e Seder ‘Olam ed il Midrash Rabbah. Comunque l’essenza di tali fonti è presente nella sua opera[130].

    Spesso mette a confronto le possibili interpretazioni dovute all’uso del Midrash o del Peshat e tale accostamento ha generato opinioni e critiche di natura opposta. Personalmente credo che tale evidenziatura sia funzionale a chi legge, il quale può così vedere più facilmente la completezza dell’interpretazione stessa capendone l’estensione e la complessità. E comunque le due interpretazioni mostrano un’armonia tra loro[131].

    L’opera di Rashi, grazie alla sua chiarezza ed alla sua semplicità, ebbe una fortuna costante nei secoli e servì anche da influenza per sviluppare un metodo storico-letterale d’interpretazione della Scrittura anche da parte dei cristiani, come ad esempio Ugo (1097-1141) e soprattutto Andrea (m.1175) di S. Vittore[132]. Infine Rosenthal ha dimostrato come anche nella versione inglese della Bibbia di King James (1611) si sia tenuto conto dell’opera dell’esegeta ebraico, senza dimenticare l’influenza indiretta che l’autore ebraico ebbe persino su Lutero[133]. Per contro è pur vero che Rashi assume il metodo socratico[134] laddove sia utile a prendere le distanze da commenti che potrebbero risultare puri sofismi[135].

    Chiudo sottolineando come, pur disponendo di moltissimo materiale midrashico e talmudico inerente la Genesi, Rashi si soffermi in maniera particolare sull’interpretazione letterale di tale libro[136] non rinunciando però ad una riflessione approfondita che lo avrebbe portato forse ad attingere a stili interpretativi già esistenti, ma creando il proprio metodo esegetico[137]. È tale approccio che userò anch’io nell’interpretazione dei testi biblici, perché grazie a Rashi "le classi ebraiche più umili poterono elevarsi alla perfetta comprensione dello spirito e del significato della Tôráh"[138] e io lo seguo cercando di rendere il testo e la sua bellezza, tacendo laddove non so e cercando di essere semplicemente comprensibile dove esprimo delle parole, così come faceva il rabbino di Troyes che, pur non avendo un incarico ufficiale, si dimostrò un maestro che attraverso la sua opera insegna anche alle generazioni odierne.

    5.2 La vita di Rashi

    Riguardo a Rashi esistono pochissime notizie biografiche. Si chiamava R. Shelomon bên Yishaq e così firmo alcuni dei suoi responsi, tuttavia la sua forma abbreviata è stata quella maggiormente usata nel corso dei secoli[139].

    Rashi nacque a Troyes, capitale del ducato della Champagne. L’anno di nascita è fissato dalla tradizione nel 1040, tuttavia non è certo. Tutte le fonti invece attestano che la sua morte avvenne nel 1105[140]. Fortunatamente i Libri della scuola di Rashi presentano alcune notizie biografiche del commentatore ebraico.

    Rashi trascorse la fanciullezza a Troyes e successivamente studiò nelle scuole renane di Worms e di Magonza, dove insegnavano i successori del famoso dottore del Talmud Gershom bên Yehudah (950-1028). In tali anni, in cui tali scuole erano all’apice del loro splendore, Rashi si formò in maniera decisiva in relazione alla cultura talmudica[141].

    Ritornato a Troyes all’età di 25 anni, dove si impiegò in un’industria vinicola, fondò una piccola scuola dove insegnò a pochi discepoli e cominciò contemporaneamente a compilare i suoi commenti alla Bibbia ed al Talmud. È interessante notare proprio come si guadagnasse da vivere col lavoro vinicolo e sottolineare come Troyes nel XI secolo fosse una città ricca e piena d’attività dove si svolgevano due fiere annuali molto importanti, in cui era possibile scambiare informazioni ed idee con mercanti provenienti dall’intera Europa[142]. Gli ebrei mantenevano rapporti normali coi cristiani e lo stesso Rashi afferma che il cristianesimo non era da considerarsi tra le religioni pagane. La apertura mentale di Rashi si mostra anche in occasione della prima crociata (1096-1099), in quell’occasione infatti, si pronunciò con favore nei confronti del ritorno degli ebrei che, costretti al battesimo, ritornavano alla fede dei padri[143].

    Rashi, nonostante la crescente tensione tra la Chiesa e la Sinagoga della II metà del XI secolo, visse sempre una vita tranquilla e poté compiere la sua opera d’esegeta. La vastità di tale opera comprende il commento a tutto il Talmud Babilonese ed un commento a tutta la Scrittura, fatta eccezione per i libri di Esdra, Neemia e Cronache. Questi ultimi, essendo gli ultimi libri del canone ebraico, non sono stati commentati probabilmente proprio in seguito alla sua morte prematura[144].

    5.3 Il pensiero filosofico ebraico

    I filosofi ebrei, per quanto riguarda il pensiero aristotelico, furono a volte critici mentre altre volte lo accettarono in parte, soprattutto per quanto riguarda la fisica e la metafisica; va detto però che la logica aristotelica fu praticamente sempre accettata[145]. Filosofi come Isaac Israeli (855c.-955c.) accettarono qualcosa del pensiero aristotelico inerente l’intelletto razionale, animale e vegetativo, unito alla teoria neoplatonica dell’emanazione. Altri filosofi come ad esempio Solomon ibn Gabirol (1020-1057 o 1070) furono anch’essi influenzati dal neoplatonismo e dalla teologia negativa, in particolare Gabirol, il quale scrisse in latino ed ebbe probabili influenze anche sul pensiero filosofico cristiano successivo.

    Vi furono filosofi come Abraham bar Hiyya, il quale visse nella prima metà del XII secolo in Spagna, che fu matematico ed astronomo e subì ebbe influenze sia neoplatoniche che aristoteliche. Ma il primo vero giudeo aristotelico è Abraham ibn Daud (1110-1180), che prese da Aristotele la teoria dell’intelletto attivo, per la filosofia della conoscenza, e le categorie di motore primo e necessità (mediate da Avicenna) per dimostrare l’esistenza di D-o[146]. Tale annotazione è importante, perché Rashi morì prima della nascita del filosofo appena citato e ciò conferma l’originalità di Rashi rispetto al pensiero dello stagirita.

    5.4 Introduzione al pensiero rabbinico

    Questo breve paragrafo lo dedico ad una breve analisi del pensiero rabbinico da me utilizzato, la quale mostra come negli autori successivi a Rashi vi fosse una chiara influenza del pensiero aristotelico, quest’ultima determinata da un confronto inevitabile della cultura rabbinica col pensiero dello stagirita. Inizio l’argomento in questione con una breve analisi del pensiero di Maimonide, il quale, pur non essendo presente direttamente nei commenti da me riportati, è il padre d’ogni commentatore biblico ebreo che a lui succede e, come emergerà dalle argomentazioni che riporterò, Aristotele è vivo e presente in tutto il pensiero rabbinico da Maimonide in poi.

    5.4.1 Maimonide e Ramban

    Maimonide è fondamentale per tutti i commenti rabbinici che sono oggetto del mio lavoro, infatti, fu il formatore di Ramban, di cui ho riportato alcuni commenti riguardanti i testi masoretici da me utilizzati, ed inoltre influenzò tutti i commentatori che gli succedettero; infatti, come già evidenziato in precedenza, vige il detto Da Mosè (il legislatore) a Mosè (Maimonide) non ci fu nessuno simile a Mosè (Maimonide)[147]. Sottolineare tale fatto è fondamentale, perché le coincidenze tra i commenti rabbinici da me utilizzati e la concezione estetica greca non sono casuali. Maimonide studiò i testi aristotelici e la sua riflessione ne fu fortemente influenzata, pur se conobbe il pensiero del filosofo greco attraverso le tradizioni e gli intermediari arabi. Va detto inoltre che considerò il pensiero di Aristotele come la più alta espressione della conoscenza umana[148].In realtà la discussione più accesa e che assorbì la maggior parte delle energie filosofiche di quel tempo (rabbiniche, ma anche arabe e cristiane), in relazione al confronto con Aristotele, vertì sul concetto di creazione ex-nihilo e quindi sull’idea stessa inerente la comprensione nei confronti di D-o[149]. In ogni modo, proprio in virtù del suo carattere metafisico, tale dialogo incise direttamente sui fondamenti di ogni altro aspetto filosofico, anche estetico.

    Maimonide privilegiava talmente Aristotele che affermò come sia il suo pensiero, che quello ebraico ortodosso, non era in grado di dimostrare la creazione dal nulla, dunque era accettabile utilizzare un errore dello stagirita inerente l’idea di eternità della materia, dal momento che tale passaggio permetteva di sostenere l’esistenza di D-o. Ciò fu un fatto straordinario, perché a differenza di altri filosofi, come ad esempio Averroè, il quale fu considerato il commentatore per eccellenza di Aristotele, Maimonide riuscì a conciliare ortodossia ebraica e pensiero aristotelici senza incorrere nelle scomuniche che colpirono i suoi colleghi arabi. Inoltre lo stesso filosofo ebreo utilizzò e sviluppò i concetti aristotelici del movimento e dell’eternità del tempo (libro ottavo della Fisica), implementandoli con i concetti filtrati da Avicenna ed Al-Farabi di Essere necessario e di movente e mosso, per dimostrare l’unicità e l’incorporeità di D-o[150].

    Altro aspetto che differenzia Maimonide dal suo contemporaneo musulmano Averroè fu la sua convinzione che la filosofia, cui ho appena accennato, fosse divulgabile alle masse; mentre il pensatore arabo riteneva che tali riflessioni fossero appannaggio di una categoria minoritaria di uomini. Infine, come già rilevato, affermò sempre la creazione ex-nihilo a differenza sia di Al-Farabi sia dello stesso Averroè[151]. Dunque Maimonide fu influenzato dal pensiero aristotelico filtrato dai pensatori arabi citati, in particolare Averroè, per tale motivo credo sia utile descrivere brevemente tale pensatore.

    Averroè nacque a Cordova (1126-1198) studiò diritto e medicina e mentre era già giudice iniziò gli studi di astronomia, matematica e filosofia. Cercò di conciliare Aristotele ed il Corano, ma finì col far prevalere il pensiero greco, tanto che fu allontanato dalla comunità di cui faceva parte, soprattutto a causa della confessionalità statale vigente[152].Il pensatore arabo considerò la filosofia come la conoscenza e l’interpretazione più elevata possibile, anche rispetto al Corano. Stimava a tal punto lo stagirita da affermare come la dottrina di Aristotele coincidesse con la suprema verità ed egli fosse stato creato e ci fosse stato donato dalla provvidenza divina, perché ci fosse possibile conoscere quanto è conoscibile[153]. In ogni caso pur cercando il pensiero aristotelico originale, quest’ultimo rimase comunque filtrato da interpretazioni neoplatoniche introdotte da Avicenna ed Al-Farabi[154].

    Nella dottrina d’Averroè è importante sottolineare, oltre alla ripresa della dottrina ilemorfica e causale, il recupero della teoria dell’atto e della potenza; in quanto grazie ad essa spiegò il muoversi degli astri dovuto al desiderio di raggiungere l’Atto da cui dipende[155]. Tale teoria è direttamente relazionabile al rapporto esistente tra D-o e la Creazione, rapporto esplicitato nei testi genesiaci da me presi in esame. Averroè inoltre concordò con Avicenna laddove esprime la teoria dell’idea di intelletto agente che muove la conoscenza umana dalla potenza all’atto. Purtroppo il passo successivo sarà quello di negare l’immortalità dell’anima e la creazione ex-nihilo, passo che gli costa l’esilio a cui ho accennato[156].

    Ritornando a Maimonide credo sia sufficiente ricordare i nomi dei filosofi che Maimonide influenzò, per sottolinearne ulteriormente l’importanza e per concludere la breve presentazione che gli ho dedicato. Infatti, oltre ai commentatori talmudici Abarbanel e Radak, a cui dedicherò alcune righe successivamente, il suo pensiero fu importante per Moses Mendelsohn (il nonno di Felix Mendelsohn), ma anche per i più famosi Spinoza e Leibnitz.[157] Maimonide, come già detto, maestro diretto di Ramban (Rav Moshe bên Nachman 1194-1270), il quale fu un filosofo, un commentatore biblico, un poeta ed un fisico. Quest’ultimo fu anche leader nella scuola della Tôráh e della letteratura talmudica. Ramban, nato a Girona in Spagna, è praticamente il successore di Maimonide, e già a 16 anni pubblica i suoi primi lavori sul Talmud. Nel 1263, in seguito ad una disputa pubblica con l’apostata Pablo Christiani, è costretto all’esilio dal re James I. Emigra a Eretz Yisrael dove muore[158].

    5.4.2 Radak

    Rabbì Kimhi David, questo il nome completo di Radak, nacque a Narbonne in Provenza probabilmente nel 1160 e morì intorno al 1235. Radak fu un importante grammatico ed esegeta ed è conosciuto anche per la sua attività d’insegnante e per il suo impegno nelle cause pubbliche. Tra queste ultime è ricordato per aver partecipato al giudizio (tra il 1205 ed il 1218) nei confronti di alcune persone provenienti da Barcellona, le quali disonoravano il nome di Rashi. È inoltre conosciuto per essersi schierato con forza dalla parte delle tesi di Maimonide, nella controversia maimonidea del 1232.

    Tale commentatore ebraico fece importanti studi di filologia e come esegeta iniziò con un lavoro dedicato all’interpretazione del libro delle Cronache, pubblicato postumo a Venezia nel 1548. Dopo tale lavoro si dedicò al libro della Genesi ed in seguito ad un commento a tutti i profeti, per giungere infine a scrivere un libro sui Salmi. Il suo apporto esegetico è molto importante, perché rispetto ai predecessori distingue i commenti derivanti dalle omelie da quelli provenienti dal metodo della Peshat, quest’ultimo già utilizzato da Rashi.

    Il suo pensiero filosofico non è originale, ma è importante sottolineare come fosse affine a quello di Maimonide, infatti, Radak utilizzò come sua guida filosofica la Guida dei perplessi, ossia l’opera filosofica fondamentale dello stesso Maimonide. Non è un caso dunque che Radak concordi con quest’ultimo nella visione inerente la profezia ed il problema della provvidenza. In polemica col pensiero cristiano afferma che quest’ultima è speciale nei confronti del popolo ebraico, non riuscendo però a dimostrarlo[159].

    5.4.3 Ralbag

    Levi Bên Gershom, nome vero dell’acronimo Ralbag, fu un matematico, astronomo, filosofo e commentatore biblico. Nato probabilmente a Bagnols-sur-Cèze nel 1288, visse ad Orange e poi brevemente ad Avignone, dove morì nel 1344. Mantenne contatti con importanti personalità cristiane, probabilmente proprio grazie al suo soggiorno avignonese. Scrisse libri scientifici di aritmetica, geometria, trigonometria ed astronomia. Il suo primo libro si intitola Il libro dei numeri, che scrisse nel 1321 e che affronta argomenti aritmetici che vanno dalle semplici addizioni all’estrazione di radici. Nel 1343 scrisse un altro libro di matematica per il vescovo di Meaux (Filippo di Vitry) e commentando le tesi euclidee, ne sostituisce gli assiomi con proprie intuizioni.

    Per quanto riguarda la sua opera di commentatore biblico affrontò molti tra i libri del canone ebraico, in particolare il pentateuco, il libro di Giobbe ed il Cantico dei Cantici. La sua caratteristica peculiare nel lavoro ermeneutico, rispetto ai testi biblici, risiedeva nell’utilizzare l’esegesi insieme alla filosofia. È grazie a tale completezza che riusciva a trarre dal suo lavoro insegnamenti di carattere etico, filosofico e religioso. Insegnamenti che poi sono stati riuniti in una collezione.

    Ralbag apprese il pensiero aristotelico da Averroè e scrisse commenti, ai commenti del filosofo arabo, in merito ad opere di Aristotele quali la Fisica, il De Generatione et Corruptione, il De Caelo, la Meteorologica, l’Organon, il De Animalibus, il De Anima ed i Parva Naturalia. Tali lavori furono composti tra il 1321 ed il 1324 ed è interessante notare come una parte del commento all’Organon fu tradotto in latino e pubblicato a Venezia nel primo volume delle opere aristoteliche (1550-52). Pur comunque avendo studiato il pensiero avverroista ed aristotelico, Ralbag restò indipendente nelle sue affermazioni. A dimostrazione di tale fatto vi è il metodo utilizzato nelle sue opere, le quali riportavano il pensiero ora aristotelico, ora avverroista, seguito dalla correzione preceduta da: Levi dice.

    Il libro in cui è riassunto il pensiero filosofico di Levi è Il libro della guerra del Signore (1317-1329), in cui lo stesso Levi cerca di dare una risposta ai problemi lasciati insoddisfatti dallo stesso Maimonide. Tale libro è diviso in sei parti, le quali affrontano problemi che vanno dall’essenza di D-o alla possibilità conoscitiva dell’uomo, passando per il problema della Creazione. Ciò che è fondamentale notare è che Ralbag critica sia la posizione aristotelica che quella di Maimonide, ad esempio sostituisce il motore primo con l’intelligenza creatrice, quest’ultima dedotta dall’ordine esistente, ordine che dev’essere prodotto da un Chi; Chi che l’autore ebraico chiama per l’appunto Intelligenza. Contro Maimonide afferma inoltre la possibilità di una conoscenza positiva di D-o, partendo dalle azioni visibili divine. Infine afferma come, pur esistendo un ordine creato da D-o e dunque una natura di cui D-o conosce ogni atto, lo stesso Creatore lascia all’uomo la libertà per uscire da tale determinismo e le azioni prodotte da tale libertà sono inconoscibili perfino a Lui.

    Un’altra riflessione filosofica di Ralbag, che credo sia importante rilevare, riguarda la possibilità o meno di provare la Creazione filosoficamente, come aveva fatto Aristotele giungendo a negare la Creazione ex-nihilo. Ralbag nega tale possibilità filosofica, criticando lo stesso Aristotele, il quale utilizzò leggi e conoscenze fisiche create dopo l’universo e quindi inesistenti al momento in cui lo stesso universo fu creato. In tale creato l’uomo è fatto per accordarsi col maggior bene e bello possibile e possiede un intelletto individuale immortale. E anche in tale idea d’intelletto Ralbag prende chiaramente le distanze dal pensiero maimonideo. La visione filosofica appena accennata, inerente il pensiero del filosofo d’Avignone, porta come diretta conseguenza l’affermazione che i miracoli sono imprevedibili ed ingiudicabili secondo le leggi fisiche conosciute, infatti, D-o può fare miracoli anche contro natura, proprio perché i miracoli godono di leggi proprie.

    Chiudo questa sintesi del pensiero di Ralbag accennando alla sua escatologia. In tale visione è chiaramente fondamentale il Messia, il quale sarà più grande di Mosè e sarà in grado di far risorgere i morti. Tale venuta fu calcolata da Ralbag per il 1358, in tale epoca gli uomini avrebbero continuato a morire come prima, ma il loro cuore avrà conosciuto D-o e ciascuno agirà per il bene.

    Ralbag fu molto criticato, specialmente dai suoi colleghi, tra cui Abarbanel[160]. Non c’è da stupirsi se ciò avvenne, visto che contrastò radicalmente il pensiero di Maimonide e che alcune sue riflessioni possono coincidere con affermazioni cristiane riguardo all’opera del Messia.

    5.4.4 Abarbanel

    Il commentatore più famoso e più riportato, oltre a Rashi e Maimonide, nei commenti rabbinici inerenti i testi del Primo Testamento che ho utilizzato, è sicuramente Abarbanel e di lui, infatti, è stato possibile rintracciare delle notizie che spiegano la chiara ed inequivocabile influenza del pensiero aristotelico nei suoi scritti.

    Isaac bên Judah, questo il nome completo del rabbino, nacque a Lisbona nel 1437. Oltre ad essere stato un grande commentatore biblico ebraico, ha studiato diversi scritti inerenti la teologia cristiana ed è inoltre annoverato tra i filosofi ebrei più importanti. Come già detto per altri rabbini anche Abarbanel è influenzato dal pensiero di Maimonide e con tale pensiero si confronta opponendovisi, o meglio rifiutandone alcune teorie portanti espresse nella Guida dei perplessi. Nel 1503 parte per Venezia dove termina i commenti a Geremia (pubblicato nel 1504), ai profeti minori, al libro della Genesi ed all’Esodo (pubblicato nel 1505). Morto a Venezia fu sepolto a Padova dove una ricognizione recente ne ha individuato le ossa rimaste.

    Per quanto riguarda i suoi commenti bisogna rilevare che prendono spesso spunto sia dai predecessori, sia da omelie fatte in sinagoga. Per ciò che concerne il Pentateuco spesso ricorre ad interpretazioni filosofiche, propendendo comunque per un’interpretazione letterale contro l’allegoria indicata da Maimonide. L’innovazione di Abarbanel sta nel suo confrontarsi con la società in cui viveva, tanto da interpretare le Scritture, inerenti la monarchia, col sistema politico in cui viveva; propendendo per la politica veneziana come la migliore conosciuta. Inoltre accetta il pensiero cristiano cristologico laddove non fosse in aperto contrasto con la sua fede. Infine compie anche un’innovazione didattica riguardo ai suoi libri, premettendo un’introduzione esplicativa ai suoi lavori, come nessuno dei suoi predecessori non aveva mai fatto.

    A confermare il legame aristotelico vi è il suo modo di investigare, figlio dello spirito medioevale della scolastica. A sua volta alcuni dei suoi scritti, tradotti in latino, hanno influenzato circoli di pensiero cristiani.

    Il pensiero filosofico di Abarbanel è suddivisibile in tre filoni: 1) La profezia, che lui considera la comunicazione diretta della verità da parte di D-o. Profezia influenzata dalla cosmologia aristotelica-tolemaica e dai filosofi che lo precedettero, tra cui lo stesso Maimonide. A quest’ultimo però si oppone, considerando la profezia superiore ad ogni conoscenza filosofica derivante dalla Scrittura. 2) La politica, in cui afferma la monarchia come governo necessario dopo l’uscita dalla Teocrazia presente nell’Eden. 3) L’escatologia, la quale viene dedotta dal libro di Daniele e in cui lui interpreta il 1503 come anno di inizio del tempo finale e della venuta del messia, tempo in cui le anime diventeranno immortali e potranno contemplare l’essenza di D-o. Tale pensiero influenzerà e contribuirà alla formazione di movimenti messianici nel XVI, ma anche nel XVII secolo[161].

    Riguardo al periodo in cui Abarbanel scrisse i commenti al libro della Genesi, da me utilizzati, è interessante notare la certa influenza aristotelica incontrata proprio a Venezia. Nel 1135-36 Giacomo da Venezia scoprì l’aristotelismo a Costantinopoli e nei dieci anni successivi tradusse le opere aristoteliche. Tali opere influenzeranno lo studio della medicina nell’Università di Padova dal XV secolo in poi, periodo in cui Padova era dominata da Venezia ed aveva la sola università medica riconosciuta legalmente dalla Repubblica della Serenissima. Non deve sorprendere l’accostamento dello studio di Aristotele alla medicina, visto che in quel tempo si credeva in un’influenza degli astri per quanto concerne il corpo umano. Non è un caso dunque se anche Abarbanel lo pensasse e non è un caso se proprio verso la fine del XV secolo iniziarono le prime lezioni di filosofie a Rialto. Per precisare quanto fosse tenuto in considerazione a Venezia lo studio delle opere di Aristotele è sufficiente ricordare come lo stesso Petrarca fosse ritenuto ignorante, proprio per la mancanza da parte sua dello studio delle opere dello stagirita, perché come scrisse Dante dovevano essere conosciute da tutti color che sanno[162].

    5.4.5 Vilna Gaon

    Eliyah bên Solomon Zalman (Vilna Gaon) nacque nel 1720 e morì nel 1797. Fu una grande personalità e quando aveva appena sei anni e mezzo stupì il rabbì, durante un’omelia, per le sue risposte. Studiò da autodidatta astronomia, geometria, algebra e geografia, il tutto per comprendere meglio le Scritture e le discussioni talmudiche. Viaggiò attraverso la Polonia e la Germania, per poi giungere a Berlino ed infine visse a Vilna, in Lituania, dove morì. Visse sempre per imparare e studiare, dormiva circa due ore il giorno e mai per più di una mezz’ora di seguito. La sua influenza spirituale è stata grande ed è viva ancora oggi.

    Scrisse su tutte le questioni fondamentali del giudaismo e redasse una lunga lista di scritti inerenti le scienze generali, la geometria, l’astronomia e la medicina. In merito al suo utilizzo, nei commenti che seguiranno il libro della Genesi ed il Cantico dei Cantici, è fondamentale ricordare come Vilna Gaon considerasse il commento di Rashi come esempio ideale per lo studio del Talmud. Si scontrò col pensiero filosofico di Maimonide, in particolare laddove quest’ultimo rigettava l’efficacia dell’uso del Nome Divino e degli amuleti. Riguardo alle Scritture è importante sottolineare come tale pensatore ebreo consigliasse di insegnarle anche alle donne, in particolare il libro dei Proverbi. In totale, in relazione ai libri delle Scritture ed ai lavori scientifici, scrisse più di settanta opere, commentando praticamente ogni libro del canone[163].

    5.4.6 Ytzchack ed Hirsch

    Ytzchack (Arama Rav Yitzchak bên Mosheni 1420-1424) visse in Spagna fino al 1492, quando i giudei furono espulsi, e successivamente si trasferì a Napoli, dove morì due anni più tardi. Fu molto apprezzato come filosofo e tra le sue opere più conosciute vi sono un commento ai cinque Megillà (pubblicato nel 1573) ed un commento ai Proverbi in ricordo di suo fratello, quest’ultimo morto prematuramente poco dopo essersi sposato[164].

    Hirsch è il padre della moderna ortodossia tedesca (1808-1888). Leader, brillante scrittore e profondo educatore. Parlamentare in Boemia e Moravia cercò di rivitalizzare la Tôráh ed il giudaismo a Francoforte. È stato ed è molto apprezzato per il suo brillante approccio filosofico a testi come i Salmi[165].

    5.5 Aristotele

    Per comprendere quale influenza e quale relazione vi fosse tra il pensiero aristotelico e quello dei rabbini da me utilizzato, credo sia bene accennare in breve a quanto vi fosse di concordante e di discordante in Aristotele rispetto a quanto da me sviluppato, in relazione all’analisi di alcuni passi delle Scritture riguardanti la concezione estetica biblica.

    Aristotele afferma come in tutte le realtà naturali vi sia qualcosa di meraviglioso[166], il che concorda con quanto affermato non solo dai commenti rabbinici inerenti il giudizio sulla Creazione; ma anche dai commenti di alcuni padri della Chiesa che ho evidenziato nell’introduzione alla seconda parte del mio lavoro, quella inerente il Testamento Primo, in cui in apertura ho evidenziato il profondo legame esistente tra il Testo Masoretico, la Traduzione dei LXX e dunque lo stesso testo greco del Testamento Primo

    Per quanto riguarda il Primo Testamento, ma soprattutto in relazione al Testamento Primo, in particolare alla parte dedicata alla ri-composizione estetica operata da Cristo, è interessante notare come Aristotele dia un giudizio di inferiorità dei sensi rispetto alla ragione, infatti, scrive: La percezione è una forma di conoscenza. La sua apprezzabilità o la disprezzabilità varia molto a seconda che la si valuti in confronto all’intelligenza umana o al genere delle cose inanimate. Il tatto ed il gusto sono irrilevanti rispetto al pensare, ma in confronto ad una pianta sono sorprendenti[167]. Tale affermazione può sembrare logica ed, infatti, lo è, ma è contraria all’opera evidenziata da Cristo, cioè dal paradosso che ri-compone i sensi. Cristo, infatti, non si preoccupa di esporre discorsi logico-scientifici, ma anzi va oltre ogni logica preoccupandosi in maniera fondamentale dell’estetica umana, cioè dei sensi, sconfessando in tal modo l’esclusività dell’interpretazione allegorica data al Cantico dei Cantici proprio in relazione all’aspetto sensuale.

    Comunque, oltre a tale differenza, vi è anche un’uguaglianza tra il modo di pensare aristotelico e l’azione di Cristo, questi, infatti, si è preoccupato di guarire tutti i sensi, salvaguardandone l’unità, ed a proposito di tale unità lo stagirita afferma: quando si tratta della natura, si parla della totalità sintetica della cosa stessa, non di quelle parti che non si danno mai separate dalla cosa stessa cui appartengono[168].Ovviamente Aristotele non si riferisce solamente alle parti in cui risiedono i cinque sensi umani, ma è altrettanto vero che queste ultime vengono prese come un insieme. Inoltre l’unità antropologica affermata dalla metafisica aristotelica è accostabile all’unità antropologica biblica, la quale invece è stata erroneamente divulgata come divisa e ciò a motivo di influenze neoplatoniche sulla dottrina cristiana, dottrina che ha dominato per secoli l’ufficialità del pensiero cristiano.

    Nel mio lavoro l’analisi dei sensi è legata in maniera indissolubile alla bellezza ed in particolare al bello e buono presente nella Creazione fin dall’inizio e ri-creato ancora una volta dall’opera di Cristo. Anche in tal caso vanno citate alcune parole di Aristotele, le quali chiariranno lo stretto legame tra il significato di bellezza delle Scritture e quello greco, il filosofo in questione scrive, riferendosi all’Etica Eudemia: ...lo scopo al quale tende tutta la presente indagine: cioè lo stabilire da quali fonti provenga la possibilità di ottenere una vita buona e bella, per non dire la parola più ambiziosa, ‘beata’[169]. Quest’ultimo termine completa e rende ragione, almeno in parte, del perché abbia dedicato un’analisi al termine makários nelle Scritture.

    Infine riporto la soluzione che Aristotele dà alla ricerca appena accennata riguardo alla felicità, egli scrive come siano tre gli elementi che conferiscono all’esistenza felicità, ovvero la virtù, la saggezza ed il piacere e tre scelte esistenziali compie chi ne ha la possibilità, ossia la politica, la filosofia o l’edonismo. Da queste ultime derivano rispettivamente le azioni belle, la saggezza e la contemplazione della verità ed i piaceri del corpo[170]. In tal senso credo si possa considerare la superiorità dell’opera compiuta da Cristo, il quale non considera separate le tre possibilità analizzate da Aristotele; infatti, insegna a compiere opere belle, mostrando la saggezza e la contemplazione della verità che incarna

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