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E lo chiamano lavoro…
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E-book125 pagine1 ora

E lo chiamano lavoro…

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Il lavoro non c’è, e quando c’è, è sottopagato, precario, privo di diritti e di garanzie. Il numero dei disoccupati è in continua crescita e non bastano, a invertire la tendenza, il moltiplicarsi di tipologie contrattuali sempre meno garantite. La situazione è determinata, certo, da ragioni economiche ma ad esse si accompagnano, nel definirla, ragioni culturali e politiche altrettanto profonde. Contrapporre il lavoro ai diritti, quasi che fossero questi ultimi a ostacolare la crescita del primo, infatti, non ha nulla a che fare con l’occupazione ma serve a ridefinire l’organizzazione della società e le sue gerarchie. Lo dice in modo evidente la parabola del diritto del lavoro, dallo Statuto del 1970 al jobs act. In poco più di quarant’anni è cambiato tutto e lo Statuto sembra, oggi, un guscio vuoto: il dilagare del mito della flessibilità, dipinto come risorsa per distribuire meglio tempi di vita e risorse economiche, non ha favorito lo sviluppo dell’occupazione, ma ha determinato impoverimento e insicurezza. Indietro, peraltro, non si torna. E si apre, dunque, il problema del che fare.
LinguaItaliano
Data di uscita8 nov 2016
ISBN9788865791608
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    Anteprima del libro

    E lo chiamano lavoro… - Carla Ponterio

    E lo chiamano lavoro…

    Edizioni Gruppo Abele

    © 2014 Edizioni Gruppo Abele onlus

    corso Trapani 95 - 10141 Torino

    tel. 011 3859500 - fax 011 389881

    www.edizionigruppoabele.it

    edizioni@gruppoabele.org

    isbn 978-88-6579-160-8

    In copertina: Personaggio flessibile di Dalia Del Bue

    Indice

    Introduzione

    La democrazia e la fabbrica

    Un giudice per Cipputi

    Reazioni

    Cattivi maestri

    Meno diritti e meno lavoro

    Perseverare?

    Spunti per un nuovo paradigma

    Quando un’azienda ti licenzia, è ben consapevole che ti sta facendo un favore, che ti sta strappando all’anacronistico lavoro di ieri per instradarti nel dinamico lavoro di oggi. I licenziati saranno felici di entrare negli uffici caldi e accoglienti dell’agenzia di ricollocazione e di sedersi a un tavolo con un professionista sensibile, saranno felici di trovare una persona con cui parlare dei problemi che hanno da quando hanno perso il lavoro, e saranno felici di sentirsi dire che alla fin fine questa è una bella opportunità. D’altra parte l’azienda che ti ha licenziato paga il professionista sensibile dell’agenzia appositamente per guardarti in modo rassicurante e ascoltarti quando dici: «Non so più come tirare a campare».

    Andrea Bajani, Mi spezzo ma non m’impiego

    Introduzione

    Immersi nell’attualità e nella sua accecante retorica non riusciamo più a pensare al lavoro secondo i caratteri con cui, per formazione e per cultura, lo abbiamo sempre definito. Di lavoro ce n’è sempre meno e quello che resta è diventato via via un altro lavoro: mercificato, precario, deprezzato, spesso nemmeno retribuito. Ossia, nella sostanza, un lavoro non dignitoso; così come non dignitose sono le esistenze che ad esso sono condannate.

    La parabola di questi anni ha velocemente travolto la gerarchia dei rapporti. Per dirla con la straordinaria semplicità di Gustavo Zagrebelsky, «La Costituzione pone il lavoro come fondamento, come principio di ciò che ne segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l’economia»¹. In poco più di sessant’anni, la piramide si è capovolta: dall’economia dipendono le politiche economiche e da queste i diritti e i doveri del lavoro che, lungi dall’affermarsi come valore primario e incondizionato, deve dar prova di compatibilità con altre esigenze e priorità.

    Le regole poste storicamente a tutela del lavoro sono state via via manomesse, dopo che erano state create le condizioni perché non potessero, nei fatti, funzionare. Oggi si promette la grande riforma, ma intanto si procede sulla strada della liberalizzazione e della normalizzazione della precarietà.

    Ricostruire come tutto questo sia avvenuto, impone uno sforzo innanzitutto di memoria e, poi, di riflessione. Perché la risposta all’interrogativo quale lavoro deciderà non solo le sorti di chi un lavoro lo deve ancora trovare, ma anche il modello di società in cui a tutti (occupati e non) toccherà vivere.

    Parlare di lavoro significa parlare dell’uomo e della sua vita: nel bene e nel male, in termini di sfruttamento ma anche di emancipazione, di protagonismo, di progresso. La storia del lavoro e delle sue diverse concezioni è, infatti, la storia dell’umanità.

    Agli albori di quella storia il lavoro ne rappresenta, in realtà, la maledizione. «All’uomo disse: maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. […] Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Genesi, 3, 17-19): è stato così per molti secoli, in cui era considerato lavoro solo l’attività manuale. Gli intellettuali non lavoravano, ma compivano un’opera. Nella civiltà degli antichi il lavoro, pur se indispensabile per la vita di tutti, era un’attività sostanzialmente disprezzata. Anche nella democratica Atene:

    quella che noi abbiamo definito virtù del cittadino s’ha da dire che non appartiene a tutti, e neppure all’uomo libero soltanto, bensì a quanti sono liberi dai lavori necessari. Riguardo ai lavori necessari quelli che li fanno per uno sono schiavi, quelli che li fanno per il pubblico sono gli operai meccanici e i teti².

    E ancora, in modo ancor più sprezzante:

    La natura non ha creato né calzolaio né fabbro: tali occupazioni degradano le persone che le svolgono, vili mercenari, miserabili senza nome che sono esclusi dal loro stesso stato dai diritti politici. Quanto ai mercanti abituati a mentire e imbrogliare, li si sopporterà nella città soltanto come male necessario. Il cittadino che si avvilirà nel commercio della bottega sarà perseguito per questo delitto. Se è pentito sarà condannato a un anno di prigione, se è recidivo la punizione sarà raddoppiata³.

    Quella concezione non cambia lungo tutte le fasi dell’epoca romana e nel Medioevo: il lavoro resta ai margini dei rapporti sociali e viene valorizzato sul piano spirituale solo in alcune regole monastiche, se e in quanto affiancato alla preghiera («ora et labora»). Ancora nella Francia del sedicesimo secolo si sostituiscono i termini precedentemente in uso, labourer e ouvrer, con il sostantivo travail, che sino a quel momento indicava in realtà una macchina a tre pali (tripalium), spesso utilizzata come strumento di tortura.

    L’ascesa del lavoro, dalla più disprezzata alla più stimata tra le attività umane, ha inizio in Inghilterra, a partire dal Seicento, con le riflessioni di Locke, che indica nel lavoro la fonte di ogni proprietà⁴, e si conferma con Adam Smith che, nella sua teoria economica, lo considera fonte di ogni ricchezza⁵. Il lavoro diventa misura del valore delle merci. Esso produce un aumento di ricchezza, anche in chi lo pratica: e, dunque, può essere compensato, avere un prezzo. Il suo riscatto, peraltro, passa attraverso il divenire una merce, come le altre.

    Dal piano economico, agli inizi dell’Ottocento, si passa a quello etico: per Hegel, il lavoro è l’attività spirituale grazie alla quale lo Spirito, al fine di conoscere se stesso, si oppone a un dato esterno, in qualche modo si inventa degli ostacoli esterni, per costringersi a svelare le proprie potenzialità. Il lavoro è posto come il mediatore tra la natura e lo Spirito⁶. Sta qui l’apporto specifico del diciannovesimo secolo: la costruzione di un’essenza del lavoro, come ideale di creazione e di realizzazione di sé.

    Per Marx, poi, il lavoro è la stessa essenza dell’essere umano. Ma questa essenza vede la propria realizzazione ostacolata, perché il lavoro reale è alienato, nel duplice significato di lavoro venduto e di lavoro estraneo al proprio interesse. L’obiettivo è l’utopia, la costruzione della società comunista in cui arrivare alla realizzazione dell’individuo attraverso il lavoro:

    Appena il lavoro diventa diviso, ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva, che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico e tale deve restare se non vuole perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva, ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia⁷.

    Nel mondo contemporaneo si affermano in parallelo tre grandi filoni di pensiero: quello cristiano, quello umanistico di matrice non cristiana, quello marxista, che considerano il lavoro in termini diversi per contenuto e funzioni. Il primo gli attribuisce un carattere marcatamente antropologico, fatto di creatività, fonte di sofferenza e insieme mezzo per la realizzazione di sé; il secondo lo interpreta come legame sociale, fattore di sociabilità; il terzo gli attribuisce la speranza di una trasformazione che gli consenta di uscire dalla sfera della alienazione per trovare il suo autentico volto. Tutte queste correnti di pensiero contribuiscono all’affermazione moderna del mito del lavoro, che diventa impegno assorbente di vita e scopo nobilitante dell’esistenza, sino a raggiungere i risvolti con cui si esalta, nelle società socialiste, il lavoratore-macchina, impersonificato dall’operaio Stakhanof il cui nome è stato consegnato, dalla propaganda sovietica, alla mitologia universale come esempio di produttività oltre ogni limite umano.

    Anche Gramsci si spinge, sul piano teorico, a celebrare la moderna organizzazione capitalistica e ad esaltare la figura dell’operaio totale: c’è, in lui, ammirazione per l’organizzazione di fabbrica e la capacità di creare dentro l’officina una figura adeguata di lavoratore collettivo, «che operi come una macchina dentro un sistema di macchine»⁸. Gramsci, peraltro, mette a fuoco la drammatica contrapposizione tra la parcellizzazione del lavoro e la «spiritualità del lavoratore»: per rimediarvi, propone una organizzazione del lavoro fondata su forme di autogoverno e di autocoercizione dei lavoratori, legittimate dall’obiettivo della costruzione della nuova società. In quest’ottica, la liberazione del lavoro è ipotizzata da Gramsci in termini diversi da quelli a cui pensava Marx. Dal concreto rapporto di oppressione ci si libera in via politica, realizzando la vocazione della classe operaia all’autogoverno. Il dominio sulle forme di organizzazione politica della società compensa in qualche misura il concreto carattere, sempre opprimente, del lavoro prestato in fabbrica.

    Quest’ultimo passaggio dà il segno della grande trasformazione che, tra l’Ottocento e il Novecento, investe, in Occidente, il lavoro che, da prevalentemente agricolo, si industrializza, inurbandosi e proletarizzandosi.

    In Italia, nel giro di pochi decenni, si ridimensiona notevolmente la categoria in cui si era quasi completamente impersonificato il lavoro: quella dei contadini. Gli operai diventano classe e scendono in lotta contro il fascismo. L’8 marzo 1944 nel Paese occupato dai nazisti è indetto lo sciopero generale (pur ancora punito con

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