Lavorare meno: Se otto ore vi sembran poche
Di Sandro Busso
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Condizioni imprescindibili per realizzare questa “rivoluzione”, insieme all’emancipazione e al rifiuto del lavoro insostenibile, sono nuove e radicali forme di redistribuzione del reddito: «Esistono a oggi le condizioni perché il lavoro esca dall’orizzonte della necessità e dell’obbligo».
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Anteprima del libro
Lavorare meno - Sandro Busso
Sandro Busso
Lavorare meno
Se otto ore vi sembran poche
297.jpgEdizioni Gruppo Abele
© 2023 Edizioni Gruppo Abele Impresa Sociale srl
corso Trapani 95 - 10141 Torino
tel. 011 3859500
edizionigruppoabele.it
edizioni@gruppoabele.org
ISBN 9788865792889
Prima edizione digitale: aprile 2023
In copertina:
illustrazione di Francesco Lopomo
Le traduzioni delle citazioni tratte da opere
in lingua originale sono a cura dell’autore
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Il libro
«Lavorare meno è per molti un sogno e per alcuni un obiettivo, ma una pratica per pochi. Da queste basi nasce l’idea di fondo del volume: oggi lavorare meno è un traguardo che, forse a differenza di un tempo, non si può raggiungere ex lege normando la durata della giornata lavorativa, ma richiede una trasformazione radicale che va ben oltre i confini del mercato del lavoro. [...] È infatti indispensabile un cambiamento di paradigma che crei innanzitutto spazi di legittimità politica per questa opzione al di là della sua mera sostenibilità economica. Una trasformazione verso un modello di società in cui il lavoro rivesta un ruolo meno centrale non solo in termini di organizzazione della vita quotidiana e gestione del tempo, ma anche in termini di costruzione delle identità individuali, politiche e sociali».
Condizioni imprescindibili per realizzare questa rivoluzione
, insieme all’emancipazione e al rifiuto del lavoro insostenibile, sono nuove e radicali forme di redistribuzione del reddito: «Esistono a oggi le condizioni perché il lavoro esca dall’orizzonte della necessità e dell’obbligo».
L’autore
Sandro Busso è professore associato di Sociologia dei fenomeni politici presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino. Nel 2022 ha curato per Mimesis, con E. Graziano, l’edizione italiana di J. Soss, R.C. Fording, S.F. Schram, Disciplinare i poveri. Paternalismo neoliberale e dimensione razziale nel governo della povertà.
Indice
Premessa
Parte I - Promesse non mantenute
I. L’automazione e la fine del lavoro
Una storia di sogni e di incubi
II. Un mondo al lavoro
Una panoramica sullo scenario attuale
III. Lavorare tutti, lavorare peggio
Il governo dei numeri e la scomparsa della qualità
IV. Liberi dal lavoro, libere di lavorare
Lo statuto incerto del welfare
V. Chi non lavora non fa l’amore
Etica del lavoro, passione, autosfruttamento
Parte II - Invertire la rotta
VI. Otto ore per quello che ci pare
Riduzione dell’orario e diritto al tempo
VII. Quando l’orario non esiste
Abbattere i falsi miti della flessibilità e della performance
VIII. Un’esistenza libera e dignitosa
Salario minimo e redistribuzione attraverso il lavoro
IX. Dobbiamo davvero lavorare tutti?
Reddito di base, libertà e lavoro
X. Resistenze, fughe, conflitti
Immaginare una politica del tempo tra individuale e collettivo
A Federico e Arianna
perché il loro sia, davvero, un tempo nuovo
Premessa
Come molti uomini della mia generazione, fui allevato secondo i precetti del proverbio che dice l’ozio è il padre di tutti i vizi
. Poiché ero un ragazzino assai virtuoso, credevo a tutto ciò che mi dicevano e fu così che la mia coscienza prese l’abitudine di costringermi a lavorare sodo fino ad oggi. Ma sebbene la mia coscienza abbia controllato le mie azioni, le mie opinioni subirono un processo rivoluzionario. Io penso che in questo mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa; insomma, nei moderni paesi industriali bisogna predicare in modo ben diverso da come si è predicato sinora.
B. Russell, Elogio dell’ozio, 1935
Ci sono almeno due motivi per cui il passaggio di Bertrand Russell rappresenta l’attacco inevitabile di questo saggio. Il primo, se mai ce ne fosse bisogno, è che ci ricorda che l’idea di lavorare meno, e le lotte per darle concretezza, sono una tappa fondamentale e troppo spesso dimenticata della nostra storia politica. «Se otto ore vi sembran poche – cantavano le mondine nei primi anni del Novecento – provate voi a lavorare e sentirete la differenza di lavorar e di comandar». Più di un secolo dopo, indebolite le retoriche di classe (ma non le dinamiche di potere a essa legate), il canto ha ancora una straordinaria attualità. Paradossalmente, infatti, proprio le otto ore e la rivendicazione di quel diritto sono diventate l’emblema di formalismo, mancanza di slancio e dedizione: immagine stereotipata di una salvaguardia egoistica del proprio tempo, che non si cura dell’interesse generale. Esatto opposto di un modello di lavoratore che è imprenditore di sé stesso, incurante del tempo e della fatica. A molti, insomma, otto ore sembrano ancora poche. Da qui il secondo e forse più rilevante motivo, che sta nel riferimento a quei precetti che hanno servito le esigenze di un sistema economico costruendo un’idea di merito che si regge sul principio del «lavorare sodo». Mutata nelle retoriche, l’etica del lavoro continua a essere viva e vitale nel dar forma alle vite di molti e molte. E dove non arriva la coscienza, è l’attuale scenario di precarietà e insicurezza dilagante a costringere non solo a «lavorare sodo», ma spesso a «lavorare troppo». Se non per scelta, per necessità. Ma la straordinaria attualità del passaggio sta senza dubbio nel valorizzare la divaricazione, che sfocia talvolta in aperto conflitto, tra azioni e opinioni: lavorare meno è per molti un sogno e per alcuni un obiettivo, ma una pratica per pochi.
Da queste basi nasce l’idea di fondo del volume: oggi lavorare meno è un traguardo che, forse a differenza di un tempo, non si può raggiungere ex lege normando la durata della giornata lavorativa, ma richiede una trasformazione radicale che va ben oltre i confini del mercato del lavoro. Le caratteristiche del lavoro sono quindi condizioni sì necessarie, ma non sufficienti. È infatti indispensabile un cambiamento di paradigma che crei innanzitutto spazi di legittimità politica per questa opzione al di là della sua mera sostenibilità economica. Una trasformazione verso un modello di società in cui il lavoro rivesta un ruolo meno centrale non solo in termini di organizzazione della vita quotidiana e gestione del tempo, ma anche in termini di costruzione delle identità individuali, politiche e sociali. Se la portata delle trasformazioni necessarie fa tremare le gambe, la buona notizia è che, però, alcune delle condizioni che le rendono possibili sono a oggi una realtà. In primo luogo quell’aumento di produttività, dovuto al progresso tecnologico ma non solo, che aveva alimentato le profezie di una società senza lavoro o quasi si è almeno in parte verificato. Il perché questo non abbia portato a una riduzione degli orari dipende dal fatto che tale produttività non si è tradotta in un’analoga crescita dei salari: i benefici che essa ha portato hanno alimentato le disuguaglianze, di fatto rendendo i ricchi ancora più ricchi. Come cantavano le mondine, il nodo è ancora la «differenza tra lavorare e comandare». In secondo luogo, questo orizzonte di possibilità ha alimentato la ripresa di forme di azione politica e culturale che, con repertori e contenuti diversi da un tempo, stanno faticosamente rilanciando un dibattito che sembrava sopito e anche aprendo a nuove prospettive. Non solo l’idea di emancipazione o di rifiuto del lavoro quando questo diviene fonte di malessere, ma anche le proposte di nuove e radicali forme di redistribuzione come il reddito di base universale: esistono a oggi le condizioni perché il lavoro esca dall’orizzonte della necessità e dell’obbligo.
Muovendo da questi presupposti, il testo si articola in due parti. La prima affronta le promesse mancate di una società libera dal lavoro, riflettendo sui fattori e sulle dinamiche che, a dispetto delle aspettative, fanno sì che il lavoro sia nella società odierna ancora più centrale sia a livello pratico che simbolico, e al contempo reso ancora più insicuro dal dirompente avvento della precarietà. La seconda analizza invece gli ingredienti, le possibilità e le proposte necessarie a invertire la rotta, che vengono riprese alla luce dello scenario contemporaneo in chiave propositiva: dalla persistente attualità dell’idea di lavorare meno all’ipotesi di «non lavorare tutti», in un mondo in cui il diritto al reddito sia garantito attraverso strumenti altri dal lavoro retribuito.
Entrambe le parti sono sviluppate tenendo insieme diverse prospettive e sguardi sul lavoro. Da un lato quello, più vicino alla politica economica, centrato sulle condizioni strutturali che spingono all’iperlavoro. Trovano qui spazio le normative, i modelli di sviluppo economico, il ruolo del welfare state, l’orientamento alla performance e al «governo con i numeri» contrapposto alle idee di giustizia. Dall’altro, una prospettiva centrata sulla dimensione culturale, che guarda al lavoro come elemento cruciale della costruzione dell’identità, ai processi di legittimazione che questo innesca, all’etica del lavoro e alla passione come strumenti di disciplinamento e autosfruttamento.
I due approcci sono in qualche misura imprescindibili stante l’obiettivo di guardare al lavoro, riprendendo Kathi Weeks, come a un fenomeno a pieno titolo politico, e non soltanto economico. A legarli, infatti, è la circolarità del rapporto che in senso più ampio lega la politica e la società.
Da ultimo, una riflessione come quella proposta in questo volume sta inevitabilmente all’incrocio tra la riflessione teorica e il vissuto personale e professionale di chi la scrive. In questo senso credo sia impossibile non notare come l’accademia incarni a pieno titolo le ambiguità con cui si apre questa breve premessa: capace di alimentare riflessioni innovative e talvolta rivoluzionarie, e al tempo stesso tristemente inadeguata nel mettere in atto quei precetti tutelando il benessere dei suoi lavoratori e delle sue lavoratrici. Che una riflessione sul lavorare meno nasca in questo contesto può suonare certamente ironico a chi lo vive quotidianamente, e certamente lo è per me. Ma forse è soltanto un modo per ricordare a sé stessi che esistono spazi di manovra per riconnettere, con Russell, opinioni, coscienza e azioni.
Molte persone, fuori e dentro l’accademia, hanno alimentato le riflessioni confluite in questo testo, che è il frutto di letture ma soprattutto di scambi e momenti di condivisione preziosi.
Ringrazio sentitamente Livio Pepino e Francesca Rascazzo, per aver creduto nel progetto, per il confronto costante e ancor più per aver accettato che questo libro, coerentemente con i suoi contenuti, non venisse scritto nelle sere e nei weekend. Ora possiamo orgogliosamente dire che nessun lavoratore è stato costretto a «lavorare di più» per scriverlo.
Grazie a chi direttamente o indirettamente ha contribuito a sviluppare i contenuti di questo testo. Su tutti, Antonella Meo alla quale devo molto della crescita di questi anni, Maddalena Cannito per il confronto, i suggerimenti e i commenti al testo, Costanza Guazzo per le intuizioni e gli spunti, Enrico Gargiulo e Gianfranco Ragona per lo scambio costante, sempre ricco e mai banale.
Grazie infine a Marina Panato, che sul posto del lavoro mi ha aiutato a pensare, a Marcello Kuharic che il tempo lo sa moltiplicare e a Paolo «Diabbo» Fanfani che mi ricorda la differenza tra il dire e il fare.
Grazie ai precari e alle precarie di oggi, e a quanti tra quelli di ieri non si sono scordati com’era e non sono diventati predicatori dell’odioso «ci siamo passati tutti».
Il ringraziamento più grande è però per chi, compagna di vita, più di tutti mi ha insegnato giorno dopo giorno che il nostro tempo è prezioso, inevitabile e soprattutto ci appartiene.
Parte I
Promesse non mantenute
I. L’automazione e la fine del lavoro
Una storia di sogni e di incubi
¹
Il libro XVIII dell’Iliade narra di Teti, madre di Achille, che si reca nella fucina di Efesto per chiedere al dio una nuova armatura e nuove armi per il figlio. Lo spettacolo che le si para davanti è stupefacente. Il dio era infatti intento a forgiare tripodi in grado di muoversi da soli su rotelle d’oro, ed era sostenuto da ancelle, d’oro anch’esse, in tutto e per tutto simili a giovinette, capaci di intelletto, parola e sentimenti, ma anche dotate di una forza che permetteva loro di essere istruite al lavoro e di svolgere compiti faticosi come quello di sostenere Efesto, dalla mole imponente ma afflitto da una zoppia.
I tripodi e le ancelle di Efesto sono a tutti gli effetti ciò che oggi definiremo automi, e non a caso il passaggio dell’Iliade è considerato da molti il primo riferimento all’idea di intelligenza artificiale. Per questo rappresenta un buon punto di partenza per una riflessione sull’automazione e sull’idea che da questa nascano profezie, sogni e incubi sulla fine del lavoro. La visione di un mondo popolato da macchine in grado di svolgere – come e se non meglio – le mansioni degli esseri umani non nasce infatti con la modernità e con l’accelerazione del progresso tecnologico che questa ha portato. Piuttosto, essa rappresenta un filo sottile che unisce i miti dell’antichità con le più recenti sperimentazioni sull’intelligenza artificiale, e le narrazioni epiche dell’ingegno umano con le visioni di romanzieri di fantascienza e le analisi di economisti e sociologi del Novecento.
Il passo dal mito alla contemporaneità, e dalle macchine immaginate a quelle reali, è ovviamente molto lungo. Le rivoluzioni industriali hanno mostrato come il progresso tecnologico non abbia per nulla portato alla liberazione dal lavoro, e più di due secoli di riflessioni hanno chiarito che non esiste un nesso automatico, o perché no magico, tra sviluppo di nuovi mezzi di produzione e quantità di lavoro umano. Ma non per questo il sogno di lavorare