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Trattato di Sociologia: Critica Economica. Volume 3/4
Trattato di Sociologia: Critica Economica. Volume 3/4
Trattato di Sociologia: Critica Economica. Volume 3/4
E-book473 pagine6 ore

Trattato di Sociologia: Critica Economica. Volume 3/4

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Il Trattato di Sociologia è la Magnum Opus di Mirco Mariucci. L’Opera è suddivisa in 4 volumi ed in 7 parti: Teoria ed Ecologia [Vol. 1]; Lavoro [Vol. 2]; Economia [Vol. 3]; Società, Utopia ed Esoterismo [Vol. 4]. Al loro interno l’autore espone per la prima volta le leggi fondamentali della sociologia, formula un nuovo paradigma economico ed illustra la sua concezione di società ideale: l’Utopia Razionale. Argomento dopo argomento l’immaginario collettivo viene decostruito. Analisi, previsioni e soluzioni si susseguono delineando un quadro unitario. Il fine è di donare all’umanità una nuova visione del mondo da impiegare come motore ideale per trasformare la realtà sociale in senso rivoluzionario...
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2019
ISBN9788835324898
Trattato di Sociologia: Critica Economica. Volume 3/4

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    Trattato di Sociologia - Mirco Mariucci

    Trattato di Sociologia

    Volume 3/4

    Critica Economica

    28 ottobre 2019

    Mirco Mariucci

    Introduzione

    Il Trattato di Sociologia è la Magnum Opus di Mirco Mariucci.

    L’Opera è suddivisa in 4 volumi ed in 7 parti: Teoria ed Ecologia [Vol. 1]; Lavoro [Vol. 2]; Economia [Vol. 3]; Società, Utopia ed Esoterismo [Vol. 4].

    Al loro interno l’autore espone per la prima volta le leggi fondamentali della sociologia, formula un nuovo paradigma economico ed illustra la sua concezione di società ideale: l’Utopia Razionale.

    Argomento dopo argomento l’immaginario collettivo viene decostruito. Analisi, previsioni e soluzioni si susseguono delineando un quadro unitario.

    Il fine è di donare all’umanità una nuova visione del mondo da impiegare come motore ideale per trasformare la realtà sociale in senso rivoluzionario...

    Sintesi dei Contenuti

    1 contenuti athanor

    L’Opera contiene:

    I risultati di ricerca conseguiti dall’autore dell’Opera nell’ambito della sociologia adottando un approccio multidisciplinare. [Vol. 1 - 2 - 3 - 4]

    Uno spaccato dell’odierna società con un’ampia collezione di dati, analisi, critiche, idee, previsioni e soluzioni riguardanti: alimentazione; automazione; capitalismo; controllo sociale; decrescita; democrazia; demografia; denaro; disoccupazione; disuguaglianza; ecologia; economia; energia; esoterismo; felicità; filosofia della scienza; giustizia; guerra; inquinamento; lavoro; libertà; migrazioni; occultismo; povertà; profitto; ricchezza; salute; spiritualità; trasporti; utopia... e molto altro ancora. Il tutto è arricchito da oltre 1.500 fonti consultabili on-line. [Vol. 1 - 2 - 3 - 4]

    La definizione di sociologia, così come intesa dall’autore dell’Opera. [Vol. 1]

    L’enunciazione delle leggi fondamentali della sociologia scoperte dall’autore dell’Opera e delle loro principali conseguenze in ambito sociale. [Vol. 1]

    Un approfondimento in merito alla questione ecologica condotto affrontando le seguenti tematiche principali: demografia; inquinamento; riciclaggio; energia; trasporti; consumismo. [Vol. 1 - 3]

    Una critica all’odierna ecologia, con particolare riferimento all’economia circolare, volta ad individuare le migliori soluzioni per risolvere la questione ecologica. [Vol. 1]

    Un’analisi della filosofia vegana e delle sue potenziali conseguenze a livello sociale. [Vol. 1]

    Un’analisi comparativa delle principali classi di soluzioni da impiegare per risolvere i problemi del mondo del lavoro: creazione di nuovo lavoro; redistribuzione del lavoro; riduzione del lavoro; reddito di cittadinanza condizionato; reddito di esistenza incondizionato; riorganizzazione del mondo del lavoro in senso rivoluzionario. [Vol. 2]

    Una critica radicale all’odierna economia capitalistica volta ad individuare le problematiche da risolvere e superare tramite la formulazione e l’adozione di un nuovo paradigma economico. [Vol. 3]

    L’esposizione dei tratti essenziali dell’Econofisica: un innovativo paradigma economico fondato sulla fisica che non ha bisogno né del mercato, né del denaro, per funzionare. [Vol. 3 - 4]

    Una critica all’odierna concezione della democrazia rappresentativa con delle soluzioni concepite per implementare una vera forma di democrazia che non rischi di trasformarsi nell’ennesimo strumento utilizzato dal Potere a danno dell’umanità. [Vol. 4]

    Un’analisi relativa a come gli odierni gruppi di potere stiano impiegando la tecnologia per implementare un nuovo sistema di controllo sociale globale al fine di instaurare una tecnodittatura. [Vol. 4]

    Un’analisi geopolitica che guarda al futuro dell’umanità effettuata sulla base delle criticità dovute all’incompatibilità tra la finitezza delle risorse del pianeta ed il mantenimento dell’odierno modello economico basato sulla continua ricerca della crescita. [Vol. 4]

    Un nuovo modello socio-economico-culturale, denominato Utopia Razionale, concepito dall’autore dell’Opera per risolvere le principali problematiche dell’odierna società. [Vol. 4]

    Idee, linee guida e soluzioni concrete per migliorare la società e realizzare un mondo ideale, passando dall’odierna Distopia Capitalistica all’Utopia Razionale. [Vol. 1 - 2 - 3 - 4]

    L’esposizione di una scala, concepita dall’autore dell’Opera, per misurare il livello di evoluzione sociale di una società di esseri umani. [Vol. 4]

    La discussione di alcune verità esoteriche inerenti all’ambito della sociologia. [Vol. 4]

    Un messaggio occulto che soltanto gli iniziati alla tradizione ermetica riusciranno a cogliere... [Vol. 1 - 2 - 3 - 4]

    Indice dell’Opera

    2 indice labirinto

    Volume 3/4

    Critica Economica

    Parte IV: Economia

    6 drago economiadel giudice

    «L’organismo vivente funziona bene se ha una fase ben definita.

    Il suo istinto di sopravvivenza lo spinge ad avere una simile fase.

    Ma per avere una fase ben definita, il numero di oscillatori deve essere indefinito, cioè quell’organismo dev’essere aperto all’amore.

    Se non ama, non ha un fase ben definita. Ecco la base naturale dell’essere umano che è stata osservata.

    Però c’è un problema: l’insieme di oscillatori esistenti accetterà di risuonare con me?

    Qua casca l’asino e qua avviene la grande contraddizione, per cui sociologi e psicologi debbono dialogare tra di loro. Perché?

    La società si è costituita con sue leggi che non sono la conseguenza delle leggi della biologia. Si tratta delle leggi dell’economia che, in linea di principio, sono leggi diverse.

    I vari professori delle facoltà diverse da quella di biologia c’insegnano che il principio della saggezza per l’economia è la competizione.

    Ma la competizione è l’esatto contrario della risonanza.

    Come faccio a risuonare con un mio simile se debbo stare attento a che non me lo infili in quel posto? È evidente che non posso!

    Come faccio a risuonare con quell’individuo se debbo competere con lui, ed essere più bravo di lui, perché il posto di lavoro o ce l’ho io, o ce l’ha lui, ma non tutti e due insieme?

    La legge della biologia richiede la cooperazione, mentre la legge dell’economia richiede la competizione.

    Quindi, in questo senso, l’economia è intrinsecamente un fatto patologico, che genera malattia, perché m’impedisce di essere una persona di facili costumi.

    Anzi debbo essere di costumi austeri: non debbo risuonare con chicchessia, perché mi può portar via il posto di lavoro, o vende la sua merce e non fa vendere la mia... e così via.

    Il mio maestro benamato, Karl Marx, usava dire che finora, nella storia umana, l’umanità ha vissuto nella preistoria.

    Perché nella preistoria? Perché la specie umana, come tale, non ha mai avuto la possibilità di formarsi.

    Infatti, per formare una vera specie umana, i suoi componenti dovrebbero risuonare tra di loro.

    Lo possono fare? No!

    Capite quindi che un regime in cui si stabilisce la coerenza tra tutti gli esseri umani è il regime economico che corrisponde alle esigenze della biologia.

    E su questo, credo, ci sia poco da discutere, professori o non professori.

    In questo senso, finché esiste un regime fondato sulla competizione, il problema della salute e della felicità non potrà mai essere risolto.

    Gli psicologi potranno dar fondo a tutte le loro esperienze, potranno fare sedute ad oltranza, gruppi etc, ma i loro risultati saranno transitori.

    Il povero pazienze esce, e viene informato che lui nella sua azienda è di troppo, e quindi viene licenziato.

    A questo punto tutto il lavoro psicologico fatto, è perduto!».

    Emilio Del Giudice

    Nota: estratto da una conferenza tenuta da Emilio Del Giudice.

    Fonte:

    https://www.youtube.com/watch?v=kBRTy6LL5qE

    Alle origini della disuguaglianza

    L’indice di Gini

    Il coefficiente di Gini è uno degli indicatori sintetici più utilizzati per misurare la disuguaglianza economica.

    Si tratta di un indice che può assumere valori reali compresi tra 0 e 1 (estremi inclusi) e che può essere così interpretato: più il coefficiente si avvicina ad 1 e più la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi individui o, se preferite, maggiore è la disuguaglianza sociale.

    Un indice di Gini pari a 0 caratterizza una società totalmente egualitaria in cui la ricchezza è perfettamente equidistribuita; all’opposto, quando l’indice è pari a 1, si verifica una situazione in cui la ricchezza della società in esame è interamente concentra nelle mani di un solo individuo.

    Il coefficiente di Gini può riferirsi sia alla ricchezza che ai redditi.

    I cacciatori-raccoglitori

    Da un punto di vista storico, l’organizzazione sociale più egualitaria che sia mai esistita è quella adottata dai cacciatori-raccoglitori, la quale, stando alla storia ufficiale, rappresentava anche l’unica tipologia di società, fin quando non iniziarono a diffondersi l’agricoltura e la pastorizia circa 10.000 anni fa.

    Siccome l’Homo Sapiens era presente sulla Terra già 200.000 anni fa, ne deduciamo che la specie umana ha vissuto in società egualitarie non stratificate, in cui la cooperazione e la condivisione dei beni erano la norma, per più di 190.000 anni, vale a dire per almeno il 95% della sua storia.

    Chi si è divertito a stimare l’indice di Gini per le società di cacciatori-raccoglitori del passato sostiene che si attestasse mediamente sul valore di 0,17.

    C’è da dire che le minime differenze di ricchezza rese possibili dal modo di vita dei cacciatori-raccoglitori, ammesso che ve ne siano, non sarebbero neanche percepite come tali dai membri di quelle popolazioni.

    Non a caso c’è chi ha definito questo genere di organizzazioni sociali come quelle in cui le differenze tra gli individui non comportano delle connotazioni valoriali.

    Le società dei cacciatori-raccoglitori sono anche note come società acquisitive, in quanto i loro membri si nutrono soltanto di ciò che la Terra è in grado di offrire spontaneamente da sé, senza intervenire su di essa per accrescerne la produttività.

    Contrariamente a quanto si possa ingenuamente pensare, vivere di caccia e raccolta non era affatto difficoltoso, tanto che le antiche comunità di cacciatori-raccoglitori vengono altresì definite come società dell’abbondanza.

    Per comprendere come ciò sia possibile, si tenga presente che anche gli attuali cacciatori-raccoglitori dedicano al lavoro un tempo molto basso, se comparato con le modalità lavorative delle civiltà avanzate, pur vivendo in un ambiente decisamente più ostile rispetto a quello dei loro antenati, che era assai più ricco di flora e fauna.

    Ad esempio, gli odierni boscimani, una delle ultime popolazioni di cacciatori-raccoglitori ancora esistenti, dedicano alla ricerca di cibo dalle 12 alle 19 ore alla settimana. Di certo, non conducono una vita d’ozio, ma è errato sostenere che lavorino più dei loro vicini agricoltori.

    Essi si procurano l’acqua succhiandola dal terreno con delle rudimentali cannucce munite di filtri, oppure scavando delle buche alla ricerca di grandi tuberi acquosi; per conservare e trasportare l’acqua, utilizzano delle uova di struzzo.

    La loro dieta è costituita per il 75% da alimenti di origine vegetale, principalmente raccolti dalle donne, mentre il restante 25% è fornito dalla carne procurata dagli uomini durante le sessioni di caccia condotte con archi e frecce dalla punta avvelenata.

    Traendo nutrimento da più di 70 piante diverse, la dieta dei boscimani risulta molto variegata, scongiurando così il verificarsi di carenze nutrizionali. Mediamente, nei periodi di abbondanza, l’assunzione giornaliera di cibo è in grado di fornire a ciascun individuo circa 2.140 calorie, con 93 grammi di proteine.

    Nonostante la mortalità infantile sia elevata (il 50% dei bambini muore senza aver compiuto i 15 anni), l’aspettativa di vita media dei Boscimani è di circa 45-50 anni, con un 10% d’individui che riescono a superare i 60 anni di età.

    Qualcuno penserà che 45 anni siano pochi, ma forse non saprà che stiamo parlando di un popolo che, a causa delle pressioni esterne esercitate da allevatori, agricoltori e aziende interessate all’estrazione di diamanti, è stato cacciato dalle proprie terre natie per esser confinato nella zona desertica del Kalahari!

    Inoltre, bisognerebbe valutare se il trascorrere 75-80 anni di vita nello stress e nel grigiore delle città, sacrificando la maggior parte del proprio tempo per uno studio ed un lavoro forzosi, garantisca effettivamente un’esistenza più lunga e serena rispetto al vivere soli 45-50 anni in libertà, immersi nella pace e nella bellezza della natura... ma per il momento lasciamo stare.

    Trattamenti analoghi a quelli dei boscimani sono stati riservati dai membri delle civiltà avanzate anche alle altre popolazioni di cacciatori-raccoglitori sparse per le foreste del mondo.

    Ad esempio, negli ultimi 50 anni, alla tribù degli Hadza sono state sottratte ben il 90% delle loro terre d’origine e ormai, dopo aver subito numerose pressioni volte a farli stabilizzare, soltanto 400 di essi continuano lo stesso a vivere di caccia e raccolta, dedicando, nonostante tutto, soltanto 14 ore a settimana a quello che si potrebbe definire lavoro.

    Ciò che accade quando alle popolazioni indigene vengono imposte la civilizzazione ed il progresso secondo la concezione occidentale, è a dir poco sconvolgente: la loro salute ed il loro generale benessere psico-fisico precipitano, i livelli di depressione salgono, così come le dipendenze, l’obesità, le malattie ed i suicidi.

    Paradossalmente, se messi a confronto con i loro compagni forzosamente civilizzati, gli indigeni che continuano a vivere liberamente secondo la loro cultura, godono di una qualità di vita di gran lunga migliore, perfino rispetto a quella dei milioni di poveri marginalizzati nelle città o dei lavoratori sfruttati nell’odierna società capitalistica.

    Ciò che fa precipitare nella miseria esistenziale le popolazioni di cacciatori-raccoglitori, sia da un punto di vista fisico che mentale, non è la loro presupposta arretratezza ma il sistematico furto delle terre da essi subito.

    L’evidenza empirica, infatti, mostra che fin quando i cacciatori-raccoglitori possono mantenere il controllo della loro alimentazione e dello stile di vita, disponendo liberamente della terra, essi godono di ottima salute.

    Una dieta varia e naturale combinata con una quotidiana attività fisica, fa in modo che i valori di colesterolo e pressione sanguigna siano molto più bassi rispetto a quelli degli occidentali. Obesità, diabete e ipertensione sono praticamente sconosciuti, così come i tumori.

    Il loro principale problema riguarda le malattie contro cui non hanno rimedi efficaci, in particolar modo quelle di tipo infettivo. Le patologie degenerative, però, sono assai rare, così come i problemi cardiovascolari.

    Di norma, gli adulti si mantengono in forze e rimangono vigorosi per tutto il resto della loro vita, fin quando non sopraggiunge un peculiare processo d’invecchiamento, molto più rapido rispetto a quello che si verifica nelle società avanzate, che li accompagna in breve tempo alla morte.

    Ciò accade perché l’aspettativa di vita dei cacciatori-raccoglitori tende a coincidere con l’aspettativa di vita sana, cosa che invece non si verifica nei Paesi industrializzati.

    Ad esempio, oggi, in Italia, la speranza di vita alla nascita è di 80,3 anni per gli uomini e di 84,6 anni per le donne, ma la speranza di vita in buona salute, ovvero il numero di anni che una persona può aspettarsi di vivere prima di diventare malato cronico o disabile, è di soli 59,2 anni per gli uomini e di 57,3 anni per le donne.

    Ciò significa che gli italiani dovranno vivere da malati per 21,1 anni, se sono uomini, e 27,3 anni, se sono donne. Un gran bell’affare, per le case farmaceutiche.

    Se consideriamo che convivere con una malattia cronica e/o invalidante non sia poi così divertente, e che l’aspettativa di vita dei cacciatori-raccoglitori coincide quasi con l’aspettativa di vita sana, ci rendiamo conto che lo scarto effettivo tra la durata di vita dei membri delle società avanzate e gli arretrati componenti delle società acquisitive, si riduce ancor più rispetto a quanto si è comunemente abituati a pensare.

    Onestamente, mi resta davvero difficile credere che i cacciatori-raccoglitori del passato, disponendo di un analogo bagaglio culturale-tecnologico rispetto a quello dei boscimani ma di un ambiente decisamente più ampio, florido e accogliente rispetto ad una zona desertica, possano aver sperimentato condizioni di vita peggiori rispetto ad oggi.

    Osservando gli odierni cacciatori-raccoglitori, la narrazione dominante, che descrive la passata esistenza dei lontani antenati umani come una continua, brutale e disperata lotta alla sopravvivenza, in cui si moriva come mosche, senza neanche raggiungere i 30 anni, e si doveva impiegare tutto il tempo alla disperata ricerca di cibo, sotto la costante spinta del morso della fame... è quanto di più ridicolo si possa sostenere.

    Sulla base di studi scientifici effettuati sulle odierne popolazioni acquisitive pure, ovvero quelle che non sono state influenzate dalla tecnologia e dalla cultura occidentale (Kung, Ache, Agta, Hadza, Hiwi), è emerso un modello di aspettativa di vita del tutto peculiare così caratterizzato: il tasso di mortalità alla nascita è molto elevato, ma diminuisce fortemente durante l’infanzia e nella fase adolescenziale, fino a stabilizzarsi per tutta l’età adulta. Oltre i 40 anni, la mortalità ricomincia a salire.

    Più precisamente, da un punto di vista quantitativo: il 57% dei bambini raggiunge il 15-esimo anno di età; il 64% di chi supera l’adolescenza raggiunge i 45 anni di età; una volta raggiunti i 45 anni, l’aspettativa di vita media è di circa 20,7 anni.

    L’età modale della morte riferito all’età adulta (>15 anni), vale a dire il valore che si presenta con maggior frequenza nella distribuzione scartando i dati relativi a bambini e adolescenti, è di poco superiore ai 70 anni.

    Si tenga conto che questi dati si riferiscono a popolazioni che ignorano anche le più rudimentali procedure igieniche e che non dispongono di alcun supporto medico.

    Sarei veramente curioso di vedere che cosa accadrebbe se si fornisse ad una popolazione di cacciatori-raccoglitori un’ampia ed incontaminata riserva con abbondanza di cibo, sia in varietà che in quantità, e se, al contempo, li si educasse all’igiene e gli si fornisse assistenza medica, soltanto in caso di reale necessità.

    Sono pronto a scommettere che, in media, vivrebbero più a lungo e con un vigore fisico assai maggiore rispetto ai cittadini del Principato di Monaco, i quali, ad oggi, vantano l’aspettativa di vita più elevata al mondo (circa 90 anni).

    In ogni caso, la logica suggerisce che i cacciatori-raccoglitori di un tempo, posti nel loro ambiente originario, senza pressioni ambientali dovute alla scarsità di cibo, lavorassero ancor meno e vivessero più a lungo rispetto agli odierni boscimani, e non il contrario, come invece vorrebbero farci intendere.

    Per giunta, la relativa abbondanza, avrebbe anche scongiurato i conflitti tra i vari gruppi di cacciatori-raccoglitori, i quali, in assenza di scarsità e di dinamiche di accumulazione, non avrebbero neanche avuto motivazioni ragionevoli per mettersi a combattere con i propri simili rischiando la vita per accaparrare del cibo in eccesso, che poi sarebbe inevitabilmente finito per marcire.

    L’abbandono dello stato di natura

    Ad un certo punto della storia, però, dopo centinaia di millenni di anni di caccia e raccolta, e forse ancor prima di solo frugivorismo, avvenne una transizione progressiva verso l’agricoltura e l’allevamento.

    Le cause di questo cambiamento non sono del tutto chiare.

    Si è sempre ritenuto che fosse l’introduzione dell’agricoltura ad aver consentito l’esplosione demografica dell’Homo Sapiens, ma ultimamente questa versione dei fatti è stata rimessa in discussione invertendo il nesso causale.

    In altri termini, siccome l’agricoltura consente di sfamare un maggior numero di persone rispetto alla caccia e alla raccolta, c’è chi ha ipotizzato che la transizione sia avvenuta in seguito a pressioni demografiche, e non il contrario.

    Da un punto di vista empirico, l’inversione causale tra avvento dell’agricoltura ed espansione demografica è supportata da recenti studi scientifici, che hanno messo in evidenza come, in realtà, l’incremento demografico sia avvenuto subito dopo la fine dell’ultima grande glaciazione, quando ancora l’umanità non coltivava la terra.

    In ogni caso, è noto che la suddetta transizione avvenne a discapito della qualità di vita degli esseri umani.

    La narrazione progressista secondo cui il passaggio all’agricoltura avvenne perché quest’ultima consentiva di migliorare l’esistenza degli individui è in contrasto con le evidenze empiriche a nostra disposizione.

    Gli scheletri rivenuti in Grecia e in Turchia mostrano che, verso la fine delle ere glaciali, l’altezza media dei cacciatori-raccoglitori era superiore al metro e 75 cm per gli uomini, mentre le donne misuravano in media un metro e 65 cm; ma con l’adozione dell’agricoltura, la statura media crollò, tanto che verso il 3.000 a.C. aveva raggiunto una quota di soli 160 cm per gli uomini e di 152 cm per le donne.

    Successivamente l’altezza media riprese ad aumentare, ma per superare i valori dei cacciatori-raccoglitori si dovette aspettare l’epoca moderna.

    È noto che all’aumentare delle generali condizioni di benessere si verifichi un incremento della statura, e viceversa. I fattori determinanti per il raggiungimento di una maggiore altezza media sono intimamente legati a miglioramenti in fatto di nutrizione, salute e qualità della vita.

    Le prove a supporto di questa teoria sono numerose e possono essere facilmente individuate nella storia dell’umanità.

    Ad esempio, i sopravvissuti alla Peste nera, godettero di un lungo lasso di tempo in cui le condizioni di vita erano nettamente migliori rispetto al passato; di conseguenza la loro statura media aumentò rispetto a chi li precedette.

    Si consideri che dall’inizio del Novecento c’è stato un incremento dell’altezza media di 3-5 cm in gran parte d’Europa. I 18enni italiani di oggi hanno raggiunto i 178 centimetri in media, mentre i loro coetanei di 100 anni fa misuravano appena 165 centimetri.

    Un altro esempio significativo, che testimonia la diminuzione della qualità di vita degli agricoltori nella fase di transizione, è rappresentato dall’analisi di circa 800 scheletri riesumati dai tumuli funerari nelle valli dei fiumi Illinois e Ohio, due tra i principali affluenti del Mississippi.

    In quella zona del mondo, verso il 1150 a.C., i cacciatori-raccoglitori diedero il via alla coltivazione estensiva di mais, pagando un prezzo in termini salutistici.

    In confronto ai loro predecessori, infatti, gli agricoltori manifestavano un 50% in più di difetti nello smalto dei denti (ipoplasia), che rappresenta un chiaro segnale di malnutrizione e malattie subite nell’età infantile, durante il periodo di sviluppo delle corone dentali;

    inoltre, si riscontrarono un incremento di 4 volte dell’anemia da carenza di ferro, testimoniata dalla presenza di iperostosi porosa, e di 3 volte delle lesioni ossee dovute a malattie infettive;

    per finire, vi fu anche un aumento delle condizioni degenerative della colonna vertebrale, probabilmente causato da modalità di lavoro eccessivamente dure, legate alle attività svolte nei campi.

    La riprova che le nuove condizioni di vita, caratterizzate da carenze nutrizionali, maggiori sforzi fisici e malattie, stessero minando la salute dei novelli agricoltori, si ha analizzando l’aspettativa di vita delle popolazioni di quell’epoca che diminuì di circa 7 anni, passando dai 26 anni delle comunità pre-agricole ai 19 anni di quelle agricole.

    Abbiamo già ricordato come gli odierni boscimani che vivono di caccia e raccolta lavorino di meno rispetto ai loro vicini contadini, ottenendo per giunta una dieta più ricca, varia e proteica.

    Ed è ragionevole pensare che qualcosa di analogo accadde anche 10.000 anni fa, quando l’agricoltura iniziò a diffondersi, dato che le conoscenze erano scarse, se comparate con quelle odierne, e i mezzi per lavorare la terra risultavano piuttosto rudimentali.

    Ci sono degli ulteriori elementi di riflessione che aiutano a comprendere perché la transizione verso l’agricoltura fu dannosa per i cacciatori-raccoglitori.

    Se da un lato è vero che grazie all’agricoltura e ad un maggior lavoro si riuscì a sfamare un sempre più grande numero d’individui che iniziarono a vivere in modo stanziale, dall’altro è altrettanto vero che ciò avvenne a scapito della qualità alimentare.

    Mentre i cacciatori-raccoglitori si nutrivano di un vasto numero di erbe, frutti, tuberi e animali selvatici, gli agricoltori si concentrarono sulla produzione di poche monocolture.

    Così facendo, però, l’alimentazione s’impoverì.

    Si tenga presente che, ancora oggi, gli alimenti più consumati al mondo sono riso, grano e mais, ma se ci si nutrisse solo di essi, anche in gran quantità, si andrebbe lo stesso incontro a importanti carenze nutrizionali.

    Inoltre, l’agricoltura esponeva i contadini al rischio di carestie, dato che se, per qual si voglia motivo (si pensi al maltempo), il raccolto fosse andato perduto, non si avrebbe avuto cibo a sufficienza per sfamarsi.

    È altresì noto che le monocolture impoveriscono i terreni, oltre a rendere più vulnerabili i raccolti, in particolar modo nei confronti degli attacchi dei parassiti.

    Tutto ciò minava la complessiva sicurezza alimentare.

    Non a caso il problema delle carestie perseguitò l’umanità per tutti i secoli che seguirono l’introduzione dell’agricoltura, continuando a mietere vittime fino ad oggi, in particolar modo nei Paesi in via di sviluppo.

    È curioso osservare come lo stile alimentare dei cacciatori-raccoglitori, tipicamente caratterizzato da una grande varietà di cibo tratto da un ambiente con colture non intensive e fortemente diversificate, fornisse loro una sorta di protezione naturale dalle carestie, mentre ancora nel 1845, in Irlanda, un milione di persone moriva di fame, mentre un altro milione migrava all’estero, perché all’improvviso si diffuse un fungo che ridusse le patate coltivate in un ammasso marcescente immangiabile.

    Il peculiare stile di vita dei cacciatori-raccoglitori non li proteggeva soltanto dalle carestie, ma anche dalle epidemie; queste ultime, infatti, quando le popolazioni erano sparse in piccoli gruppi che si spostavano alla ricerca di cibo, non riuscivano a diffondersi.

    Con l’avvento dell’agricoltura, invece, ed ancor più dell’allevamento, crebbero da un lato le malattie, molte delle quali vennero trasmesse agli umani proprio dagli animali allevati, e dall’altro s’incrementò anche la concentrazione demografica.

    Vivendo a stretto contatto con il bestiame, le generali condizioni igieniche peggiorarono. Al contempo, la costruzione di comunità stanziali, anche di grandi dimensioni, che intrattenevano sistematicamente commerci con altre città, più o meno affollate, rappresentava un perfetto vettore per la diffusione di parassiti e malattie infettive.

    Tutte queste circostanze furono esiziali in un gran numero d’occasioni: con la rivoluzione agricola si verificarono anche le prime epidemie di tubercolosi e di diarrea; con la costruzione delle grandi città si manifestarono la peste e il morbillo.

    Tutto ciò avvalora le tesi dell’abbandono forzoso dello stile di vita basato sulla caccia e la raccolta dovuto alla crescente pressione demografica, piuttosto che una transizione volontaria basata sui presunti vantaggi legati all’agricoltura.

    Del resto, per quale motivo si dovrebbe scegliere di lavorare di più, peggiorando la qualità della dieta ed il livello di sicurezza alimentare, se non si fosse, in qualche modo, costretti a farlo?

    L’inizio della disuguaglianza sociale

    Come se non bastasse, l’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento non comportò soltanto un incremento dell’orario di lavoro, una diminuzione dell’aspettativa di vita e dell’altezza media, esponendo gli esseri umani a malnutrizione, epidemie e carestie, ma diede anche origine ad un’altra piaga sociale, da cui l’umanità non è ancora riuscita a liberarsi: quella della stratificazione sociale.

    Dopo aver vissuto per millenni e millenni in società fortemente egualitarie, basate sulla cooperazione e la condivisione, cominciarono a formarsi per la prima volta classi d’individui parassitarie, che si assicuravano condizioni di vita più elevate rispetto a quelle dei loro simili. Come? Sfruttando il lavoro altrui.

    Dall’analisi dei reperti recuperati nelle tombe greche, emerge che l’élite vissuta nel 1500 a.C. godeva di un’alimentazione qualitativamente superiore rispetto ai comuni cittadini, dato che i loro scheletri misuravano dai 5 ai 7,5 cm in più ed avevano denti migliori.

    Analoghe condizioni sussistono anche per le mummie ritrovate in Cile, dove gli scheletri dei più benestanti mostravano un tasso di lesioni ossee dovute a malattie infettive 4 volte inferiore rispetto agli altri cittadini.

    Ciò mostra come con l’avvento dell’agricoltura un piccolo gruppo d’individui migliorò la propria condizione di vita, mentre la restante parte della popolazione la peggiorò.

    Per spiegare questo cambiamento di organizzazione sociale bisogna comprendere che il passaggio dalla caccia e la raccolta all’agricoltura e l’allevamento comportò anche una trasformazione del livello di pensiero.

    I cacciatori-raccoglitori si sentono parte di un tutto e traggono nutrimento da ciò che la natura dona spontaneamente. Nel loro modo di vivere non c’è un rapporto di dominio, né verso la natura, né verso i propri simili.

    Siccome il cibo è già a loro disposizione e non bisogna lavorare per produrlo, quando vi è abbondanza, se ciascuno contribuisce alla comunità in base alle proprie capacità, non c’è alcun motivo di conflitto sociale, né ragioni per non condividere con gli altri ciò di cui si dispone.

    Gli agricoltori, invece, iniziano a comprendere di poter dominare la natura. In particolare, il cibo da cui traggono nutrimento dipende direttamente dalle fatiche messe in atto per produrlo.

    Per ottenere del cibo c’è bisogno di appropriarsi ed accudire un pezzo di terreno. Inoltre, una volta che il raccolto è giunto a maturazione, bisogna difenderlo dalle eventuali razzie di chi non ha contribuito alla produzione ma vuole lo stesso entrarne in possesso.

    Così facendo viene alla luce un nuovo elemento di conflitto sociale, che si acuisce ancor più in caso di scarsità: il cibo coltivato non è più di tutti, in quanto messo a disposizione di tutti dalla natura, ma appartiene a chi ha contribuito a produrlo, a chi lo ha difeso, o a chi ha avuto l’astuzia o la forza per ottenerne il controllo.

    Ed ecco che l’essere umano si estrania dal tutto e adotta una visione dualistica, tra sé e ciò che percepisce come altro rispetto a sé.

    Il pensiero muta e diviene il seguente: così come la natura può essere sfruttata per raggiungere i miei fini, anche gli altri esseri viventi possono essere assoggettati alla mia volontà.

    Il modo di rapportarsi si trasforma e diviene un rapporto di dominio, basato sull’esercizio del potere.

    Come la stratificazione sociale avvenne, e perché un'élite di parassiti non produttivi salì al vertice della piramide sociale, assicurandosi dei privilegi, non è affatto chiaro.

    È possibile che la nuova esigenza di difendere i raccolti e le mandrie abbia dato origine ad una sorta di esercito, che, per forza di cose, dovette essere mantenuto dalla collettività, e che, al contempo, i più scaltri abbiano fiutato la possibilità di non lavorare, vivendo a spese degli altri, con la scusa di coordinare l’azione sociale e/o d’incrementare la resa dei terreni invocando i presunti poteri di qualche spirito/divinità.

    Resta il fatto, che i ruoli si diversificarono e, a differenza di quanto avveniva nelle società dei cacciatori-raccoglitori, ciò comportò un’iniqua distribuzione della ricchezza.

    Non a caso l’indice di Gini salì, fino a raggiungere una media di 0,27, per le piccole comunità di orticoltori, e di 0,35, per le società più grandi basate sull’agricoltura.

    Nei periodi successivi ebbe luogo un fenomeno curioso: mentre nel Nuovo Mondo raramente l’indice di Gini superava quota 0,3, nel Vecchio Mondo si raggiunsero anche dei picchi di 0,59.

    Ciò significa che le popolazioni del Vecchio Mondo videro crescere maggiormente la disuguaglianza sociale rispetto ai popoli del Nuovo Mondo.

    Uno dei motivi che contribuì a questa diversificazione risiede nella domesticazione dei grandi animali da soma, che, a differenza di quanto avvenne in America, nel Vecchio Mondo furono largamente utilizzati per il lavoro nei campi, gli spostamenti di esseri umani, animali, merci e per combattere le guerre.

    Si pensi solo che quando gli europei sbarcarono in America

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