Piccole battaglie, grandi storie
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Info su questo ebook
Il libro è la raccolta di cinque racconti di cronaca realizzati da cinque giornalisti latinoamericani.
Prologo di Roberto Herrscher, giornalista, reporter specializzato in cultura, società e ambiente, e professore di giornalismo. Laureato in Sociologia presso l’Università di Buenos Aires con Master in Giornalismo alla Columbia University. Dirige e insegna nel Master di Giornalismo BCN_NY, organizzato dalla IL3-Università di Barcellona e l’Università di Columbia a New York. Corrispondente in Spagna della rivista Opera News. Ha impartito lezioni e seminari presso l’Ithaca College (USA), l’Università degli Studi di Milano, Colonia (Germania), Católica de Valparaíso e Finis Terrae (Cile) e insegna nel Master di Giornalismo di Clarín/San Andrés (Argentina), dell’Universidad Complutense di Madrid/ABC (Spagna), tra le altre.
Cinque le cronache giornalistiche, cinque i loro autori:
1- La giornalista venezuelana Melissa Silva inizia la serie fornendo il ritratto di un’anziana donna della Corea, Gil Won, che rivela la sua storia e quella di altre 200mila adolescenti durante la Seconda Guerra Mondiale, quando furono sequestrate e violentate e trasformate in “Donne di conforto”. Una storia ancora non raccontata della Seconda Guerra Mondiale.
2- Il giornalista peruviano Luis Felipe Gamarra segue il padre di un poliziotto morto in un torbido scontro con gli indigeni in rivolta. Anche la lotta di Felipe Bazán Caballero è per la memoria e la dignità del figlio. Il suo ultimo ritratto: una foto con il volto insanguinato, scattata mentre tentava di sgomberare una strada dell’ Amazzonia peruviana occupata dagli abitanti della zona. Il padre vuole ritrovarlo, vivo o morto che sia.
3- Il cronista peruviano Nilton Torres Varillas si cimenta con un avventuriero catalano, Anselm Pi, che trovò la Chinkana, un segreto preispanico che la Chiesa non vuole rivelare perché potrebbe cambiare la storia…
4- La giornalista venezuelana Clavel Rangel Jiménez ci fornisce il profilo di un personaggio multiforme e complesso, a volte eroico, a volte problematico: Vallita, la combattente della comunità di un quartiere violento di Ciudad Guayana, una madre venezuelana che combatte con le altre madri per seminare la pace in uno dei quartieri più pericolosi del Venezuela. Si fanno chiamare “Le Madri promotrici di Pace” (Las Madres Promotoras de Paz).
5- Infine, l’agguerrito reporter salvadoregno Roberto Valencia narra la storia insolita di un famoso commentatore sportivo argentino che si è trasformato in gestore di progetti educativi per dare un futuro alla gioventù disperata del Salvador, uno dei paesi più violenti al mondo.
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Anteprima del libro
Piccole battaglie, grandi storie - Melissa Silva Franco
Piccole battaglie, grandi storie
Piccole battaglie,
grandi storie
Cinque cronache, cinque personaggi, una ricerca
Melissa Silva Franco
Luis Felipe Gamarra
Clavel Rangel Jiménez
Nilton Torres Varillas
Roberto Valencia
Prologo di Roberto Herrscher
––––––––
Traduzione di Daniela Caracosta
MG Group Publishing logo update 2 DN grandeCopyryght © 2016
MG Group Publishing
Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o utilizzata in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, grafico, elettronico o meccanico, comprese fotocopie o informazioni e sistemi di recupero, senza il permesso scritto degli autori e dell’editore.
––––––––
Editore: MG Group Publishing
Correttrice principale: Anna Palao
Correttrice: Carmen Zorrilla
Prima edizione aprile 2016
INDICE
Prologo: giovani cronisti che arrivano in orario, con l’orecchio vigile e la penna affilata
Gil Won, l’anziana nonna che persegue la sua battaglia contro l’oblio
Nel nome del figlio. La via crucis di Felipe Bazán Caballero
Vallita, la guerriera della pace
Alla ricerca della Chinkana perduta
Chisciotte Gutman
Gli Autori
Melissa Silva Franco
Luis Felipe Gamarra
Clavel Rangel Jiménez
Nilton Torres Varillas
Roberto Valencia
Daniela Caracostas
Prologo: giovani cronisti che arrivano in orario, con l’orecchio vigile e la penna affilata
Roberto Herrscher
Fu durante la metà dell’ottobre del 2007, il primo giorno di lezione del Master di Giornalismo dell’Università di Barcellona. Nella mia funzione di direttore guastafeste, stavo raccomandando agli studenti di non arrivare mai tardi, né alle lezioni né a una conferenza stampa né a un avvenimento di cui bisogna garantire la copertura informativa. Usai allora una frase che ripeto come un mantra da decenni: Non è mai troppo presto
.
Melissa Silva era seduta sul lato sinistro dell’aula e alzò la mano con educazione, ma decisa. A volte sì, é troppo presto
, disse con quel tono canterino tipico dei venezuelani. Ci stavamo appena conoscendo e mi colpì la sicurezza con cui mi contaddiceva. Che significa che si può arrivare troppo presto?
E allora ci raccontò la sua storia. Era una giovanissima reporter di cronaca in un quotidiano di Puerto Ordaz e l’editore l’aveva mandata in una zona isolata dove il capo della polizia avrebbe dovuto rilasciare alcune dichiarazioni.
Poiché non conosceva la strada e il traffico era intenso, si era mossa con largo anticipo. Arrivata nell’area desolata, vide da lontano alcuni poliziotti che portavano un uomo malconcio, ma vivo, verso la macchia. Mancavano almeno due ore alla comparizione dell’ufficiale. I colleghi giunsero per lo più all’orario fissato. Quando il capo arrivò, annunciò che un pericoloso delinquente era scappato, aveva sparato agli agenti, questi si erano difesi e nella sparatoria il malvivente era morto.
Di ritorno alla redazione, continuò a raccontare Melissa, aveva parlato con l’editore: era tutta un’enorme bugia, non c’era stata nessuna sparatoria, lo avevano fucilato e lei aveva visto tutto. Era infuriata. L’uomo le aveva sorriso, le aveva consigliato di calmarsi e le aveva rivolto un simpatico rimprovero: Cara ragazza, è che sei arrivata troppo presto!
.
Non ho mai dimenticato la storia che Melissa Silva raccontò quella mattina. E ho sempre saputo che, benché agli inizi della sua carriera, lei già era a conoscenza del fatto che bisogna arrivare presto, anche se ciò ci arreca problemi, anche se può irritare l’editore che vuole mantenere buoni rapporti con il potere. Melissa conosceva già le gioie e gli affanni dell’arrivare in anticipo.
Per questo non mi stupisco che ora, quasi un decennio dopo, sia lei a sollecitare che sia io a terminare questo prologo. Vuole arrivare in tempo con questa straordinaria collezione di cronache realizzate con quattro compagni di studi: i cronisti del presente e del futuro.
La stessa Melissa Silva inizia la serie con il ritratto di un’anziana donna coreana che lotta per i diritti delle vittime della schiavitù sessuale dall’esercito giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale. In una cronaca che combina sapientemente quanto Gil ricorda della terribile storia passata con le giornate spese ad affrontare le telecamere e il suo coraggioso viaggio in Giappone, il personaggio si delinea agli occhi del lettore come più di una figura militante a causa del suo passato: la sua lotta è per la verità, per la dignità di tutti.
Il cronista peruviano Nilton Torres Varillas si cimenta con la storia di un avventuriero catalano che ha scoperto la Chinkana, un segreto preispanico che la Chiesa non vuole sia rivelato. È il racconto di una ricerca dall’altro lato della terra, di una vocazione e di sogni portati all’estremo, narrato con perizia e arte.
Il suo compatriota Luis Felipe Gamarra segue il padre di un poliziotto morto in un torbido scontro con gli indigeni in protesta. Anche la lotta di Felipe Bazán Caballero è per la memoria e la dignità di suo figlio. Una storia emozionante di dolore e resistenza.
L’agguerrito reporter salvadoregno Roberto Valencia narra la storia curiosa di un famoso commentatore sportivo argentino trasformatosi in gestore di progetti per garantire un’istruzione e un futuro alla gioventù disperata del Salvador. Nei suoi viaggi con il donchisciottesco Alejandro Gutman, Valencia a volte funge da Sancho Panza a volte da dottor Watson, attento alle strane sentenze e alla capacità ispiratrice del suo affascinante personaggio.
Infine, la giornalista venezuelana Clavel Rangel delinea un personaggio multiforme, complesso, a volte eroico e a volte problematico: Vallita, la combattente della comunità di un quartiere violento di Ciudad Guayana. Vallita racconta una vita a pugni chiusi, di grande dolore ed effimera speranza, un continuo dare e ricevere colpi. Rangel non la giustifica: la ritrae e ci permette di entrare nell’animo oscuro di chi restituisce il colpo o soccombe.
Cinque storie, cinque personaggi ben distinti, cinque forme narrative che dimostrano che la cronaca giornalistico-letteraria è viva nell’America Latina e ha molto da raccontare. Nessuno di questi racconti apparirà sulla prima pagina dei giornali o nei titoli del telegiornale: non si tratta di presidenti, né di imprenditori di successo, né di sportivi famosi o modelli o attori di telenovelas. Sono combattenti: sanno cosa li spinge e dove vogliono arrivare. Si esprimono con passione e chiarezza. Non si fanno illusioni sui loro paesi ingiusti e lacerati. Le loro storie sono drammi, non tragedie: lasciano tutte uno spiraglio aperto alla speranza.
Ho conosciuto questi cinque autori, che sono lettori, reporter e scrittori incalliti, lungo la strada dell’esercizio della cronaca e dell’insegnamento del giornalismo rilevante, quello che ci prende e ci rimane attaccato alla pelle. Provo grande ammirazione per tutti loro: sono coraggiosi, affrontano pericoli, ritengono che il mestiere del giornalista abbia una forte componente etica, di impegno con la verità, con la giustizia. Vedono il loro lavoro come il costante riscatto di voci azzittite, dimenticate, che possono finalmente ottenere lo spazio che meritano.
E pensare che accadde tutto quasi dieci anni fa, quando dissi in classe che non è mai troppo presto per arrivare, senza sospettare che dal lato sinistro dell’aula avrei visto alzare il braccio di Melissa Silva per contraddirmi e, allo stesso tempo, donarmi quella dolorosa storia che mi avrebbe dato ragione.
Questi cinque testi di combattenti, per la verità, arrivano al momento giusto.
Gil Won, l’anziana nonna che persegue la sua battaglia contro l’oblio
Melissa Silva Franco
Gil Won ama cantare.
Ha una voce acuta e un tono basso che richiede attenzione nell’ascolto. Quando canta, il corpo minuto di Gil si erge con fermezza e la fa apparire più alta. L’espressione del suo volto si accorda con le parole delle canzoni che evocano, per lo più, storie d’amore interrotte da una guerra, la passione degli innamorati nel ritrovarsi e l’estasi dei fiori e dei campi nel frastorno della natura.
Gil ha 86 anni e nella sua memoria, che non si arrende alla dimenticanza, trovano rifugio parole e melodie di più di mezzo secolo di canzoni tradizionali di quella Corea che, un tempo, fu un unico paese, finché una guerra –con bomba atomica inclusa– la divise in due metà e provocò una ferita di 234 chilometri che dal 1953 assolve con efficacia le funzioni di frontiera.
Gil canticchia tutti i giorni le parole di alcune di quelle canzoni che i sopravvissuti come lei stentano sempre più a ricordare.
***
Mercoledì 8 settembre 2004. L’orologio da parete segna le sette. Gil è stanca. Da più di sessant’anni soffre di crampi alle gambe ed è solita dormire per poche ore perché tormentata da incubi che la vedono sempre perdersi in stanze oscure. Stasera si sta apprestando a cenare quando, all’improvviso, una di queste 50 canzoni–appese nella memoria– si propaga dallo schermo che occupa un angolo del salone.
Gil supera il fastidio del momento, prende il telecomando per alzare il volume della tv e si sforza di capire perchè una canzone così lontana nel tempo le ritorni alle orecchie.
Louis –il figlio di Gil– e sua moglie, Kim, cenano accanto a lei. La tv diventa la protagonista della notte. I tre rimangono fissi davanti allo schermo a osservare una cinquantina di giovani appartenenti a organizzazioni femministe che gridano pretendiamo scuse
, vogliamo giustizia
, di fronte al robusto edificio grigio, con più di 60 minuscole finestre, che protegge il corpo diplomatico del Giappone a Seul.
L’animo di Gil si altera quando tra gli striscioni, i fischi e i battiti di mani, la telecamera si fissa sul volto di Kim Hak-Sun, la prima donna che ha rivelato il suo passato durante un’affollata conferenza stampa a Tokio, il 14 agosto 1991.
La conduttrice spiega che Hak-Sun è il simbolo di una lotta. Dopo aver denunciato il governo del Giappone nel dicembre 1991, altre 237 donne si sono unite nell’impresa titanica di rendere visibili le loro storie dalla Cina, dall’Indonesia, dall’Olanda, dalla Corea e dalle Filippine.
Il programma televisivo presenta come un evento storico la presenza di Hak-Sun davanti all’Ambasciata del Giappone, da dove colpisce il pubblico con un discorso disinvolto e diretto.
La donna coreana racconta che la sua adolescenza fu segnata dalle violenze dei soldati giapponesi, che durante il suo sequestro fu costretta ad assumere droghe e alcol fino a diventarne seriamente dipendente, e che sessant’anni dopo ancora trema al solo vedere una bandiera giapponese.
Gil s’indigna.
– A che serve protestare in questo modo? Perchè parlare di faccende intime che riguardano il vissuto di alcune donne? Ė come istigare i giapponesi a sputarti di nuovo in faccia– mormora.
– Che dici, mamma?– chiede Louis.
Gil non risponde, né pronuncia un’altra sola parola. Rimane immobile davanti alla tv per ore, anche a programma finito.
Quella sera gli incubi entrano dalla finestra della sua memoria prima del solito, svolazzando nel ricordo di Gil Won come pipistrelli affamati.
Quell’ 8 di settembre il dolore penetrò di nuovo fino alle ossa di quel fragile corpo di Gil Won, pieno di ferite non ancora cicatrizzate.
Qualcosa cambiò.
***
Gil Won