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Trovare le parole: Abbecedario per una comunicazione consapevole
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E-book227 pagine3 ore

Trovare le parole: Abbecedario per una comunicazione consapevole

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Info su questo ebook

I rapporti sociali sono fondati sulle parole, senza le quali si ridurrebbero a poca cosa. Da sempre. Ma oggi il peso delle parole è accresciuto dalla moltiplicazione e dalla pervasività dei mezzi di comunicazione e, soprattutto, dei social. 
Accade così che le parole, sganciate dal contatto fisico tra le persone, diventino incontrollate. Ciò ne favorisce un uso improprio e, talora, aggressivo. Con conseguenze gravissime, sul piano personale e su quello sociale, quando sfociano in “discorsi d’odio”.
Riappropriarsi delle parole, del loro senso, delle loro implicazioni, della loro portata comunicativa è, dunque, l’imperativo della nostra epoca. Per farne un uso consapevole, anche ricorrendo a un abbecedario ragionato.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2021
ISBN9788865792513
Trovare le parole: Abbecedario per una comunicazione consapevole

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    Anteprima del libro

    Trovare le parole - Federico Faloppa

    Il libro

    I rapporti sociali sono fondati sulle parole, senza le quali si ridurrebbero a poca cosa. Da sempre. Ma oggi il peso delle parole è accresciuto dalla moltiplicazione e dalla pervasività dei mezzi di comunicazione e, soprattutto, dei social.

    Accade così che le parole, sganciate dal contatto fisico tra le persone, diventino incontrollate. Ciò ne favorisce un uso improprio e, talora, aggressivo. Con conseguenze gravissime, sul piano personale e su quello sociale, quando sfociano in discorsi d’odio.

    Riappropriarsi delle parole, del loro senso, delle loro implicazioni, della loro portata comunicativa è, dunque, l’imperativo della nostra epoca. Per farne un uso consapevole, anche ricorrendo a un abbecedario ragionato.

    L’autore/L’autrice

    Federico Faloppa, insegna Storia della lingua italiana e Sociolinguistica nel Dipartimento di Languages and Cultures dell’università di Reading (Regno Unito). Da oltre vent’anni è impegnato nello studio degli stereotipi etnici e della costruzione linguistica della diversità.

    Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale, traduttrice dall’ungherese e aspirante divulgatrice, dopo una lunga esperienza all’Accademia della Crusca oggi collabora con Zanichelli. Insegna all’Università di Firenze.

    Indice

    Perché questo libro

    A come ascolto

    B come balcone

    C come community standard

    D come deragliamenti

    E come educazione

    F come forme linguistiche

    G come gogna

    H come hate speech

    I come ingiustizia discorsiva e inclusione

    J come Jo Cox (piano istituzionale)

    K come Klout

    L come legislazione

    M come misinformazione

    N come narrazione

    O come othering

    P come politicamente corretto

    Q come QAnon e altri complottismi

    R come responsabilità e consapevolezza

    S come social media

    T come tecnologia

    U come under-recording e under-reporting

    V come vittima

    W come web

    X come xenofobia

    Y come yahoo

    Z come zen

    Nota

    Nel testo cartaceo abbiamo deciso di sperimentare l’uso, in alcuni casi circoscritti, dello schwa al posto del maschile sovraesteso o della doppia forma. Questo simbolo è una delle soluzioni proposte oggi per creare una lingua più inclusiva (o meglio: una lingua attenta alla convivenza delle differenze) pensando anche a chi non si riconosce nel binarismo di genere, cioè nel maschile e nel femminile. Nell’ebook, per un problema di font, lo schwa è stato sostituito dal simbolo @. Nel corso del libro, inoltre, il rimando ad altra voce dell’abbecedario è segnalato come collegamento ipertestuale.

    Perché questo libro

    Da un po’ di tempo, con internet e la globalizzazione, il mondo si è ristretto. E con i social media si sono invece ampliate le possibilità di sentirsi al centro del mondo. Basta connettersi. Nei social interagiamo quotidianamente con persone che spesso non abbiamo mai neppure visto faccia a faccia, o conosciuto oltre uno schermo. E ci confrontiamo – almeno questa è l’impressione – con una pluralità di contenuti e istanze molto diversi tra loro, in continuo aggiornamento.

    Siamo costantemente sollecitati, iper-stimolati. Tutto è rapido, istantaneo, quasi frenetico. A cominciare dall’uso dei mezzi: quello tecnologico, innanzitutto, che sfruttiamo compulsivamente, ma della cui portata, potenzialità, rischi non sempre siamo consapevoli. E quello linguistico: il modo in cui ci esprimiamo, le frasi che digitiamo, le parole che usiamo, leggiamo, ascoltiamo. Ogni giorno siamo espost@ non solo a termini e concetti nuovi, ma anche a nuove sensibilità sociali, a nuove modalità di trasmissione di informazioni, idee, stati d’animo.

    Tuttavia, più siamo immersi in queste dinamiche, meno sembriamo renderci conto del loro funzionamento – che diamo per scontato, per assodato – e dei nostri limiti nel tentare di gestirle. Anzi, più interagiamo, meno riusciamo a osservare con un po’ di distacco ciò che stiamo facendo. E come lo stiamo facendo. Sul piano dell’espressione linguistica tendiamo alla semplificazione e all’economia, senza interrogarci sulle competenze di cui avremmo bisogno per essere efficacemente semplici e sintetici, o al contrario per costruire argomenti solidi, logici, convincenti.

    Certo, possiamo esprimerci come vogliamo: in Occidente non siamo mai stati più liberi di così di scrivere, leggere, dire. Ma non è detto che lo sappiamo fare sempre nel modo migliore, più appropriato alle situazioni comunicative, più consapevole. O che lo vogliamo fare per costruire dialogo e confronto, come sappiamo dalla grande quantità di linguaggio d’odio che circola in Rete, e non solo. Usiamo le parole, certo. Ma non sempre riflettiamo abbastanza sul loro significato, sul modo in cui possono essere percepite dall’altra parte dello schermo. D’altronde, abbiamo davvero il tempo, la voglia, gli strumenti necessari per farlo? Proprio perché siamo spesso ipercinetici (sulla tastiera, nella nostra vita offline) non sempre ci prendiamo cura di ciò che diciamo, e di come lo diciamo. Non c’è tempo. Ma mancano anche le motivazioni: tanto si capisce lo stesso, no? E se non si capisce, è colpa di chi non capisce, non certo mia…

    Maneggiata in modo approssimativo, distratto, noncurante, la parola può diventare un limite. Escludere ed escluderci, offendere e offenderci. Ma è anche, la parola, possibilità, logos, conoscenza. Duttile e potentissimo attrezzo per costruire socialità, negoziare appartenenze. Con le parole ci presentiamo agli altri come persone singole e come membri di una – o molteplici – comunità. Con le stesse parole accogliamo dialetticamente – o respingiamo – gli altri. Funziona da sempre così. E oggi, grazie ai mezzi di cui disponiamo, ancora di più che in passato. Possiamo scegliere se usare le parole con più consapevolezza, comunicare bene (e sempre meglio), in un contesto complesso come quello attuale, o se far finta che il problema non ci riguardi.

    Noi crediamo che il problema – se così si può chiamare – riguardi invece tutt@. Che farsi comprendere e comprendere bene non possa essere più prerogativa di chi, con le parole, ci lavora, ma che sia al contrario necessario, e utile, a ogni persona che nel mondo ristretto e iperconnesso voglia avere piena cittadinanza.

    È nato così, questo abbecedario: dal tentativo e dal desiderio di creare uno strumento utile per chi sente la necessità di vivere con più serenità la complessità del presente, sia offline che online (o onlife, come dice il filosofo Luciano Floridi). Ogni lettera contiene la breve trattazione di un concetto che abbiamo ritenuto importante da sviluppare per aiutarci a capire meglio il funzionamento della comunicazione, oggi, compresi tutti gli aspetti che concorrono a farla deragliare, a interromperla, a incattivirla.

    Abbiamo dovuto fare, ovviamente, una selezione. E siamo consapevoli che il discorso non solo non si esaurisca qui, ma che debba e possa continuare – a partire da qui? – nelle scuole, nei webinar, negli spazi che sapremo condividere per ragionare intorno a queste e altre voci. Con la speranza che ciò che abbiamo qui raccolto possa essere un punto di partenza, o almeno un modo per facilitare il dialogo. In un mondo in cui è così facile ritrovarsi a odiare o essere odiati, in una società che sta provando – faticosamente, ma necessariamente – ad andare nella direzione di una pacifica convivenza delle differenze, lo sforzo di comunicare meglio deve essere collettivo, e deve coinvolgerci tutti in prima persona. Il percorso non può che nascere dalle parole: quelle che più consapevolmente vorremmo usare, quelle che sapremo condividere più responsabilmente.

    Firenze-Reading

    maggio 2021

    A come ascolto

    Bello che questa parola sia anche la prima, nel nostro abbecedario. Perché l’ascolto, per noi, non è solo l’atto dell’ascoltare, il sentire attentamente, il prestare orecchio. Né è soltanto (come sosteneva Burrhus Skinner, ma si tratta di una vexata quaestio)¹ la chiave per acquisire il linguaggio attraverso i sensi dell’udito o, in termini più generali, per ricevere informazioni attraverso sequenze di suoni che poi il nostro cervello deve processare. O ancora, uno strumento per interagire con gli altri secondo gli schemi della conversazione, per attivare consapevolmente processi psicologici («Udire è un fenomeno fisiologico; ascoltare è un atto psicologico», diceva Roland Barthes)² e interpretativi, decifrando segni e significati.

    Ascolto indica per noi un metodo, un componente fondamentale della nostra militanza, un modo per mettere in discussione non soltanto noi stessi, ma anche lo spazio e le pratiche dell’agire.

    Una ipotetica storia dell’ascolto dovrebbe partire, ovviamente, dai dialoghi platonici – nel contesto dialogico l’ascolto dell’interlocutore socratico non è solo un ascolto passivo: gli scambi di Socrate sono innanzitutto oggetto di ascolto, e gli ascoltatori non sono soltanto i personaggi del dialogo, ma anche il suo pubblico attivo – per arrivare almeno all’ascolto del silenzio del linguaggio (in quanto logos) come dimensione originaria del pensare ermeneutico, di cui scrive il filosofo Martin Heidegger in In cammino verso il linguaggio³, passando per il «fides ex auditu» (la fede viene dall’ascolto) di sant’Agostino che cita la decima Lettera ai romani di san Paolo. Tuttavia questa storia richiederebbe, da sola, un libro a parte.

    Ci bastino quindi alcuni spunti sull’oggi.

    La fortuna della parola ascolto è cresciuta molto negli ultimi trent’anni. Fino ad alcuni decenni fa, infatti, il termine non si usava quasi mai da solo, ma serviva soprattutto per formare locuzioni avverbiali, come essere in ascolto, rimanere in ascolto, o con valore verbale, come dare ascolto, prestare ascolto nel senso di fare attenzione. Poi sono arrivate le guide all’ascolto (della musica classica, della musica sinfonica, di Bach, di Mozart, di Beethoven, dell’opera lirica, di musiche non familiari etc.), per insegnare a comprendere una sinfonia e la sua complessità, a cogliere fraseggi o suoni che – nel bailamme degli stimoli uditivi a cui siamo tutti i giorni sottoposti – non riusciamo più a discernere o riconoscere. Poi, non necessariamente in quest’ordine cronologico, si è fatto strada l’ascolto del sé (del proprio corpo, dei propri bisogni, in rapporto con la natura etc.) e l’ascolto degli altri o, più genericamente, dell’altro (da sé).

    Abbiamo capito nel tempo che l’ascolto è un costrutto multidimensionale, che consiste in processi affettivi, comportamentali e cognitivi. Sul piano relazionale, abbiamo imparato soprattutto a essere attenti a chi ci sta di fronte. Con lo psicologo statunitense Thomas Gordon abbiamo scoperto le quattro fasi dell’ascolto attivo (l’ascolto passivo o silenzio, per dare spazio all’altro; l’accoglimento, fatto di segnali incoraggianti per mostrare interesse; gli inviti calorosi per spingere l’interlocutore ad approfondire quello che sta dicendo; l’ascolto riflessivo, per restituire empaticamente quello che ci viene detto, ma con parole diverse)⁴. Grazie all’etnografa Marianella Sclavi conosciamo alcune regole per renderlo efficace: non avere fretta di arrivare a delle conclusioni; vedere da un’altra angolazione la propria prospettiva; partire dal presupposto che il nostro interlocutore possa aver ragione, e chiedergli di aiutarci a capire perché; cogliere i segnali incongruenti con le proprie certezze (e per questo fastidiosi e irritanti, e per questo importanti) e accogliere i paradossi del proprio pensiero; affrontare i dissensi come occasione costruttiva eccetera⁵.

    L’ascolto è così diventato uno strumento fondamentale non solo per comunicare, ma anche per gestire l’interazione, il dubbio, il conflitto, i punti di vista altrui. E per costruire quindi partecipazione, coinvolgimento, coesistenza.

    È l’ascolto maieutico di Danilo Dolci: l’ascolto che si fa metodo, non solo conoscitivo e relazionale, ma anche politico. Invece che dispensare verità, Dolci riteneva che nessun vero cambiamento può prescindere dal coinvolgimento, dall’esperienza e dalla partecipazione diretta degli interessati, attraverso un lavoro di capacitazione delle persone generalmente escluse dal potere e dalle decisioni (in inglese si userebbe la parola empowerment). Durante le riunioni che animava – nella febbrile attività che lo vedeva in giro per l’Italia, tra gli anni Sessanta e Settanta – ciascuno si interrogava e imparava a confrontarsi con gli altri, ad ascoltare, e poi a decidere: insieme⁶.

    È, ancora, l’ascolto di cui scriveva Alexander Langer nel 1994, ne I tanti modi di essere piccoli⁷, un metodo per i «piccoli della terra» di acquisire spazi in un mondo dominato dai «Grandi» (poteri):

    Piccoli si è oggi in tante maniere: mancando di soldi o carte di credito, di diplomi ed impieghi, di pane e di casa, di influenza e di fama, di armi e di laboratori. E quasi tutti corrono per diventare grandi, per avere successo, per essere rispettati e temuti, per conquistare il controllo dei pacchetti azionari, della fertilità, dell’audience, dello spazio, delle borse, delle menti. Per essere competitivi bisogna essere grandi, per essere grandi bisogna essere competitivi. Sono queste le regole della corsa. C’è un modo particolarmente penoso di restare piccoli e di non poter crescere: chi usa la propria voce, la propria scrittura, la comunicazione da persona a persona, la discussione nella comunità come modo di far sapere e per confrontarsi, oggi sa di non poter uscire dalla piccola dimensione, dalla marginalità […]. Chi dispone della grande comunicazione può irradiare i suoi messaggi, può sedurre e conquistare le masse, può trasformare l’immagine in realtà […]. Siamo alla moltiplicazione senza qualità, al messaggio senza verità. Chi invece non dispone dei mezzi di amplificazione del suo messaggio e della sua immagine, si ritrova con la propria debole e magari qualificatissima voce che circola in un ambito in cui esiste reciprocità, possibilità di interrogare e di interrompere, facoltà di inter-agire, costruzione di un discorso e di una sensibilità comune tra persone: qualità senza moltiplicazione, verità senza ascolto. Una marginalità ricca di preziose risorse, ma probabilmente destinata a soccombere, se obbligata alla competizione. Persino il grido, persino la protesta, la richiesta, la testimonianza corale restano inascoltate senza moltiplicazione. Ecco: tra le richieste dei piccoli della terra ai cosiddetti Grandi, forse bisogna mettere anche questa: silenziate per un po’, per favore, i vostri altoparlanti, moderate le vostre televisioni, limitate le vostre pubblicità, contenete le vostre telenovelas! Date spazio e voce, ospitalità e megafono alle molte voci dei piccoli, alle voci del sud, alle voci di coloro che non scelgono di gridare o che non hanno più fiato per farlo. Abbiamo bisogno che le voci dei piccoli ricevano cittadinanza e possibilità di ascolto non sfigurate dalla grande comunicazione, e che il fragore delle voci dei Grandi lasci almeno degli interstizi: spazi che non possono essere comperati o occupati dai potenti, che non possano essere venduti alla finzione, ma solo essere riempiti da chi è piccolo e radicato nella quotidiana realtà dei piccoli. Se oggi ci troviamo costretti a ricorrere all’istituzione di parchi per avere qualche arca di Noè che salvi delle porzioni di ambiente, di territorio, di fauna e di flora, in attesa di un mondo globalmente più amico della natura, perché non garantire qualche arca di Noè della comunicazione alle voci dei piccoli, in attesa e nell’impegno di un mondo che ristabilisca giustizia e pari possibilità di ascolto tra le voci? Abbiamo bisogno che le voci dei piccoli ricevano cittadinanza e possibilità di ascolto non sfigurate dalla grande comunicazione, e che il fragore delle voci dei Grandi lasci almeno degli interstizi.

    È l’ascolto delle listening zones, per citare il titolo di un progetto che ha messo in luce quanto poco i «piccoli» hanno davvero la possibilità di farsi ascoltare⁸. Quanto eterodiretto e monologico può essere anche il contro-discorso della solidarietà, della cooperazione, delle cosiddette contronarrazioni, se a gestirlo sono sempre gli stessi.

    È l’ascolto come spazio politico: da prendere o conquistare per non venire sfigurati dal fragore delle voci più potenti. Ma anche da concedere a chi ha meno occasione di farsi ascoltare. Da mettere in gioco, e cedere, facendosi da parte: perché non si può sempre parlare al posto di qualcun altro.

    È l’ascolto-scontro: fuori dalle comfort zones.

    È l’ascolto-sfida, l’ascolto-incontro.

    Per approfondire

    Giornelli G. e Sclavi M. (a cura di), La scuola e l’arte di ascoltare. Gli ingredienti delle scuole felici, Feltrinelli, Milano, 2014.

    Langer A., Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Rabini E. e Sofri A. (a cura di), introduzione di Fofi G., Sellerio, Palermo, 2011.

    Novara D., L’ascolto si impara. Domande legittime per una pedagogia dell’ascolto,

    ega

    , Torino, 1997.

    1 B.F. Skinner, Verbal behavior, Appleton-Century-Crofts, New York, 1957; id., The behavior of the listener, in S.C. Hayes (a cura di), Rule-governed behavior. Cognition, contingencies, and instructional control, Context Press (New Harbinger publications), Reno (NV), 2004 (ed. originale Springer, 1989), pp. 85-96.

    2 R. Barthes, L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino, 1985, p. 292.

    3 M. Heidegger, In cammino verso il Linguaggio, Mursia, Milano, 1973 (ed. originale 1959); cfr. anche G. Ripanti, Parola e ascolto, Morcelliana, Brescia, 1993.

    4 Cfr. T. Gordon, T.E.T. Teacher effectiveness training, Three Rivers Press (CA), 2003 (Edizione rivista e aggiornata).

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