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L’equilibrio molteplice dell’uno
L’equilibrio molteplice dell’uno
L’equilibrio molteplice dell’uno
E-book255 pagine2 ore

L’equilibrio molteplice dell’uno

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Info su questo ebook

«Avvicinatevi a quest’opera con gli occhi di un bambino curioso del mondo, con lo stupore nello sguardo, meravigliato di ogni scoperta, appagato di ogni piccola conquista, con quella fiamma nel cuore che lo porta a dire “ora e ancora”. Questo è l’atteggiamento dell’uomo che si mette in cammino, un cammino che lo porterà alla scoperta del mondo e prima ancora di se stesso, in un fluire di prosa e poesia che si alternano danzando tra sogno e realtà, mito, leggenda e storia. Lasciatevi trasportare, allora, dalle parole e allo stesso tempo dalle immagini, che in un essenziale bianco e nero offrono lo spazio al non detto e a quell’imperscrutabile che ciascuno di noi è in grado di leggere attraverso gli occhi del cuore. Scoprirete forse un po’ di voi stessi in quell’equilibrio molteplice dell’uno».

LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2016
ISBN9788856780499
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    Anteprima del libro

    L’equilibrio molteplice dell’uno - Luca Di Bianca

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8049-9

    I edizione elettronica ottobre 2016

    Ad Anna

    la portavoce della mia esistenza

    Prefazione

    Vado citando uno dei miei libri preferiti – Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino – che inizia proprio così «Stai iniziando a leggere ... Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: No, non voglio vedere la televisione! ... o se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace. Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato ... Sul letto, naturalmente, o dentro il letto. Puoi anche metterti a testa in giù, in posizione yoga. Col libro capovolto, si capisce»¹.

    È esattamente così che ogni lettore dovrebbe avvicinarsi a questo libro, trovando una personale predisposizione fisica prima e spirituale poi al raccoglimento, una preparazione ad un viaggio che è quasi un itinerarium mentis verso l’interiorità dell’uomo da una parte e ciò che è infinito e universale dall’altra.

    Se da una parte la dimensione storica dei racconti si incardina con l’essere hic et nunc dell’uomo, che riscopre, custodisce e protegge le sue radici, le tradizioni, un passato che deve continuare a vivere nel presente come nell’Ultimo Griot, o nelle Tre Fiamme; dall’altra c’è un uomo che mette in gioco se stesso per riscoprire radici che sono spirituali, un’eredità che viene non dal tempo o da un popolo, ma dai propri avi, e allo stesso tempo diventa esigenza di scoperta e di risoluzione come In Viaggio nel suo Nome.

    Eppure questo essere incardinati nel mondo e nella storia non si ferma alla realtà del momento, ma si riverbera come necessità di cambiamento, tensione verso il rinnovamento, fame di conoscenza, sete di continua scoperta. Ecco allora che gli elementi della natura diventano via via specchio in cui riconoscersi (Il mondo fuori è la mia stessa imitazione/Ho il sole, la luna e stelle nel mio cuore), occasione di riflessione su se stessi (inseguendo illusori orizzonti sfuggenti/sono schiacciato da un masso, come insetto dagli eventi), appagamento degli occhi e dello spirito (Mi commuovo nel vederti oh sole ardente/gioioso nel cielo di splendere liberamente).

    È un pellegrino l’uomo, un cacciatore errante sempre in cerca di una meta che lo appaghi nella sua ricerca di profondità, come già in precedenza si cantava

    A braccia aperte il mio cuore va anelando

    come fiamma di vita vado errando

    con le mie piccole tasche e senza fondo

    e mai riempite dall’infinita bellezza di questo mondo²

    A volte guida, a volte cercatore, sempre in cammino, mai stanco di spalancare gli occhi sulla bellezza del mondo e della natura, mai appagato nella conoscenza di ciò che lo circonda, nell’intima consapevolezza di vedere in se stesso e negli altri una goccia di divino.

    Lasciatevi trasportare, allora, dalle parole e allo stesso tempo dalle immagini, che in un essenziale bianco e nero offrono lo spazio al non detto e a quell’imperscrutabile che ciascuno di noi è in grado di leggere attraverso gli occhi del cuore.

    Scoprirete forse un po’ di voi stessi in quell’equilibrio molteplice dell’uno.

    Margherita D’Alessandro

    1 I. Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Mondadori, 2000, p. 3.

    2 L. Di Bianca, Fiamma, da Il cacciatore errante, Gruppo Albatros, 2014, p. 71.

    Introduzione

    L’uomo, con un infinito desiderio di conoscenza, è come se fosse preda di un impeto divino, un furore eroico che si pone sopra l’appagamento materiale dell’uomo comune, perché anela a quello spirituale.

    La sua è una ricerca dove alla meta non si giunge con la preghiera, con un guardare il cielo ed alzar le mani, ma con il venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé, anima delle anime, vita delle vite, essenza delle essenze.

    Questo impeto si impossessa dell’uomo trasformandolo in un cacciatore, che pieno di passione fa della sua vita una caccia dettata dall’amore verso il tutto che lo circonda, verso il mistero dell’esistenza.

    Una continua ricerca che lo purifica, un’aspirazione dell’anima che lo eleva all’unione con Dio con la consapevolezza di non poterlo raggiungere; ma dove non si arriva con la ragione, ci si arriva con il cuore ed allora ecco che l’uomo si appaga nell’abbraccio della natura, che è della divinità la genitura, la cosa più bella che si possa contemplare, un’immagine in cui ci si può specchiare.

    Questo eroico furore è il cane da caccia che divora il corpo dello stesso cacciatore, il quale diviene preda e meta del suo vagare; ma allo stesso tempo gli libera l’anima donandole le ali, spingendola verso la fusione con la divinità nella natura, nella luce che filtra dalla materia.

    Catturato dalla sua ricerca, viene assorbito dal mondo come un nascituro, è moltitudine ma vede tutto come Uno:

    "Universo spazio infinito vuoto, terra aria acqua e fuoco;

    uomini anime alberi e animali, nuvole vulcani pietre e minerali;

    sole luna alba e tramonto, gambe braccia cuore e volto.

    Un disegno divino che non appartiene a nessuno.

    NOI, l’equilibrio molteplice dell’Uno".

    Nota dell’autore

    Di rimando a quanto scritto nell’introduzione, un’interpretazione libera ispirata agli Eroici Furori di Giordano Bruno, l’opera seguente presenta una varietà di stili e di componimenti che vedono nella prima parte quattro racconti inediti, i cui accadimenti sono frutto della mia fantasia: Le Tre Fiamme, ambientato in Mongolia; L’Ultimo Griot, Africa Occidentale; La Vera Faccia delle Luna, Birmania; Nkuba - La Grande Pioggia, Uganda.

    A questi racconti fanno seguito Partorire Pensieri, Immagini e Parole e Un Ponte per la Luna, due percorsi esistenziali tra prosa e poesia che sono stati messi in scena in diversi palcoscenici insieme all’amico e cantautore Frank Polucci in un progetto di musica, immagini e parole.

    Nella terza parte c’è una breve raccolta di poesie inedite, L’equilibrio Molteplice dell’Uno, il cui titolo rimanda a quello principale dell’opera.

    Chiude Ad Limina Sancti Jacobi, una breve guida storica sul Cammino di Santiago de Compostela, scritta durante il periodo universitario e precedentemente disponibile solamente on line sul mio sito.

    Racconti, prosa, poesie e immagini, un lavoro molteplice, in equilibrio all’interno di un’unica opera: L’equilibrio Molteplice dell’Uno.

    Se nell’opera precedente, Il Cacciatore Errante, l’uomo errava affamato di conoscenza, ora continua a farlo, ma con la consapevolezza di scoprire e scoprirsi attraverso l’immagine della divinità riflessa nel mondo.

    Come per i precedenti componimenti, anche l’intero guadagno di questo verrà da me destinato a diverse associazioni caritatevoli elencate nella biografia.

    Potete seguire tutti i progetti in corso direttamente sul sito www.lucadibianca.it

    Le immagini all’interno dell’opera sono di mia proprietà.

    Abuna Yemata Guh - Etiopia

    PARTE PRIMA

    -racconti-

    Mongolia

    era vanto dei mongoli che una vergine sola,

    sopra un mulo carico d’oro,

    attraversasse indenne i domini del Khan

    IL GRANDE CAMPO

    Mongolia inizio XX secolo

    Terra selvaggia e affascinante, dove si insegue di continuo un orizzonte sfuggente; terra senza meta. Cambia dal deserto arido alle distese verdeggianti, madre di animali in libertà, cammelli bactriani, yak e cavalli galoppanti. Accarezzata da un basso cielo, cielo che non duole, celeste e profondo, impreziosito da nubi soffici ovattate a tutto tondo, tracciato da orbite di falchi e aquile raggianti.

    Questi sono il Padre Cielo e la Madre Terra del popolo nomade della steppa, da sempre, rimasti immutati nei secoli dei secoli. Un popolo geneticamente errante, non avvezzo a dominare la natura, né a piegarla ai propri fini; al contrario la conosce, la rispetta, la capisce e vi si adatta, lasciandosi sottomettere agli spazi e ai tempi del suo mondo, riuscendo senza paura a domare il vuoto intorno.

    Il loro stesso corpo è il risultato dell’adattamento al proprio habitat: pelle scura, bruciata dal sole; piccoli occhi per difendersi da forti venti invernali; gote rosse per scaldare grandi guance, ammortizzando così i lunghi periodi di gelo. L’abitudine costante di vita all’aria aperta, a cavalcare di giorno e di notte, ha prodotto una popolazione di forte resistenza. Uomini e donne hanno le gambe arcate, gambe che si sono adattate sopra il dorso e attorno la pancia del cavallo, gambe di un popolo a cavallo, nei secoli dei secoli.

    Stessa cosa per il loro stile di vita, in continuo movimento seguendo i propri armenti, alla ricerca di terre più ospitali, soggette al cambio di stagione; addestrare e allevare, per i mongoli, sono discipline etiche e morali. Il loro sistema di produzione è un’autarchia familiare, un circolo di autosufficienza biologica: erba-bestiame-latte-carne-sterco per il riscaldamento; né troppo né poco, questi sono termini che non esistono nel linguaggio mongolo, esiste il solo "necessario".

    La vita nomade impone molte limitazioni come la dimora, piccola, che impedisce l’accumulo e la conservazione di beni mobili, una dimora facilmente trasportabile: la gher, citata già da Erodoto nel 400 a.C. e rimasta immutata nei secoli dei secoli. Si tratta di una tenda rotonda con l’ossatura in legno, coperta da diversi strati di feltro; un foro centrale sulla cupola per far passare la luce ed il tubo della stufa; una sola porta, rivolta verso sud.

    Questa è la Mongolia e il suo popolo, e fra loro, i discendenti del clan dei Khalka che agli inizi del XX secolo vivevano nella capitale Ikh Khuree, il cui significato è il Grande Campo, una città mobile che si spostava quando l’erba si seccava, un campo di tende di feltro. Tsaigan dei Khalka era il più piccolo del clan, orfano di madre, viveva insieme alle tre sorelle, al padre e al nonno paterno; la loro era una famiglia come le altre, una famiglia mongola, il cui stile di vita era rimasto immutato, nei secoli dei secoli.

    Ikh Gazriin Chuluu - Mongolia

    IL CLAN DEI KHALKA

    Tsaigan e suo cugino Enky stavano giocando alla corsa dei cavalli con gli shagai, gli astragali di animali. Il gioco consiste nel lanciare quattro di queste ossa come dei dadi, le cui facce rappresentano un cavallo, un cammello, una capra ed una pecora; il numero delle facce dello stesso animale che esce equivale al numero dei passi che l’astragalo-cavallo che si è scelto deve fare. Vince chi per primo attraversa diametralmente l’interno della gher.

    Mentre il padre di Tsaigan gridava «Basta con questi giochi da bambini, oramai siete degli uomini!» il nonno era lì che sorrideva alle grida concitate dei ragazzi e faceva da arbitro nel conteggio dei passi.

    Quasi settanta anni di età, era il più anziano del clan, rispettato da tutti per la sua saggezza e per la sua lunga vita da nomade.

    Indossava sempre il suo deel, l’abito tradizionale mongolo, di colore celeste come il cielo, con la particolare chiusura ricamata sul colletto destro; lo teneva sempre pulito, quasi a voler esaltare la propria identità; l’ampia cintura color arancio lo teneva stretto in vita ed i pantaloni andavano a stringersi all’interno dei robusti stivali di cuoio, sempre lucidi, con la tipica punta rivolta verso l’alto, perché ai mongoli piace pensare che in questo modo non si possa ferire, con la punta degli stivali, la terra su cui si cammina. Il copricapo in feltro, con le quattro tese riunite sulla punta con una sorta di bottone di metallo, sul quale era inciso in caratteri mongoli il nome del clan Khalka; la stessa incisione era sulla custodia in cuoio di un oggetto da lui ritenuto sacro: una zampa di capra segata.

    «La vedete questa ragazzi? Con questa mio nonno da giovane vinse la gara di cavalcata del Nadaam; con questo unghione riuscì a punzecchiare al punto giusto il suo cavallo, da farlo correre più veloce di tutti! Voglio proprio vedere se ci riuscirà mai qualcuno di voi!».

    Il Nadaam è la grande festa

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