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Mai più nessuno come noi
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E-book386 pagine5 ore

Mai più nessuno come noi

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Info su questo ebook

In una sorta di autofinzione il narratore e il protagonista di questa opera si sovrappongono nella figura di un ragazzo degli anni ’80 che svela le peripezie e le avventure di quel periodo, mettendosi in gioco e mostrando la propria anima con naturalezza.
È un ragazzo che l’autore di questo libro ha conosciuto molto bene, al quale è indissolubilmente legato, ma che ora non esiste più, almeno fisicamente.
Al suo posto c’è l’uomo di quasi cinquantanove anni che ha scritto questi racconti e che pur soddisfatto della propria vita non riesce a soffocare una struggente nostalgia nei confronti di quel ragazzo e di tutto ciò che in un modo o nell’altro è entrato a far parte della sua orbita.

Amicizie, amori, canzoni, viaggi ai confini del mondo, alla ricerca di una consapevolezza che spesso tenta di sfuggire e di non farsi catturare. Lorenzo forgia intorno a sé l’immagine di un personaggio tosto, disposto a mettersi alla prova e sempre aperto a nuove esperienze. Ma all’insaputa dei suoi compagni divora i libri di Hemingway, Kerouac e Bukowski e nei momenti di solitudine scrive poesie.
Legge perché la sua anima ha bisogno di volare in alto e scrive per tentare in qualche modo di liberare la passione che sente bruciare dentro, un fuoco alimentato dalla coscienza di vivere un tempo e una dimensione storicamente irripetibili – gli anni ’80 – che risuonerà come un mantra in tutte le sue fibre: Mai più nessuno come noi! 

Un paio d’anni fa transitai casualmente in una piccola stazione ferroviaria di paese. Completamente solo, per un istante mi ritrovai avvolto in un silenzio irreale. Lo sguardo rimase impigliato in quei ciottoli bianchi ai bordi dei binari che sembravano rimandare l’arsura del sole pomeridiano d’inizio estate.
Davanti a me solo una distesa di campi coltivati.
Fu allora che rividi quel ragazzo. Stava sdraiato su una panchina di ferro e il sacco a pelo arrotolato sullo zaino militare gli faceva da appoggio dietro alla schiena.
Teneva una mano sotto la testa, mentre con l’altra, mollemente adagiata sulla coscia, stringeva una sigaretta tra le dita. In quel momento pensai che forse ci poteva essere un modo per farlo ritornare e io, attraverso i suoi occhi, l’entusiasmo e la passione dei suoi vent’anni, avrei potuto rivivere indimenticabili avventure.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2022
ISBN9791222020334
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    Anteprima del libro

    Mai più nessuno come noi - Corrado Grossi

    PORTBOU

    Estate 1983

    "Immagino di essere un magnete che anziché attrarre materiali ferrosi, catalizzi su di sé i raggi del sole. Investite dalla sua luce, le gocce che mi ricoprono da capo a piedi sembrano tanti piccoli diamanti e questo semplice fenomeno produce su di me uno strano effetto. Lo osservo e ho l’impressione di vedere il mio corpo per la prima volta.

    Solo un paio di mutande sbiadite dai troppi lavaggi ricopre un lembo della mia pelle luminosa e abbronzata, che esibisco come quella di un serpente.

    Questa mattina, affascinato dalla vita segreta dei granchi in mezzo agli scogli, mi sono spinto verso sud, seguendo la linea irregolare e frastagliata della costa, scoprendo questo posto.

    Mi è subito parso familiare, come se i miei passi avessero seguito il ritmo di un richiamo lontano.

    È una piccola spiaggia di sassi bianchi levigati dall’acqua e dal tempo, circondata da alte pareti rocciose a picco sul mare. Per raggiungerla ho dovuto percorrere l’ultimo tratto a nuoto, dopo aver camminato a piedi nudi sugli scogli aguzzi per una mezz’ora.

    Questa caletta è un rifugio naturale dove ci si può lasciare alle spalle il resto del mondo… proprio ciò di cui avevo bisogno!

    Davanti a me, il blu intenso del cielo è separato dal mare solo dalla linea curva dell’orizzonte.

    Il meraviglioso silenzio che solo la natura sa regalare è rotto, di tanto in tanto, dai versi striduli di qualche gabbiano che plana sul pelo dell’acqua in cerca di cibo.

    Mi abbandono al dolce sciabordio delle onde, al sussurro ipnotico della loro voce, dalla quale non riesco a distogliermi.

    Sono steso con il bacino a terra e i gomiti puntati all’indietro a sostenere il peso delle spalle e del capo. Lo sguardo perso lontano, in un punto a caso nel mare, senza fissare veramente qualcosa.

    Sullo sfondo due barchette a vela in prospettive molto diverse: una a qualche centinaio di metri dalla riva, l’altra un puntino minuscolo appena visibile in mare aperto, in balìa dei capricci del vento.

    Potrebbero essere il soggetto di un quadretto classico, di quelli che trovi stampati con la cornice colorata nei negozi di souvenir.

    Quando sono sdraiato finisco sempre per assumere questa posizione, che è la mia preferita e più si addice alla mia corporatura. Rimango completamente immobile, come un rettile al sole che ha bisogno di aumentare la propria temperatura interna. Cerco di ridurre al minimo l’attività cerebrale e mi metto in ascolto delle molteplici sensazioni che si sovrappongono.

    In un libro di Carlos Castaneda ho letto che per ognuno di noi è riservato in qualche parte del mondo un cosiddetto posto ideale. Dopo aver frequentato per diversi anni la scuola di un grande sciamano yaqui del Messico, il famoso antropologo racchiuse le sue straordinarie esperienze in diversi libri, che ho letteralmente divorato.

    Nei suoi scritti fa riferimento a luoghi particolarmente carichi di energia, ognuno dei quali destinato a una e una sola persona. Una volta avvenuta questa fortuita quanto improbabile combinazione, Castaneda mette in primo piano la reale possibilità di rafforzare il proprio potere personale .

    L’unico problema, tutt’altro che irrilevante, consiste nel trovare, e quindi saper riconoscere, questo polo energetico tanto speciale.

    L’autore racconta del cammino intrapreso con Don Juan, lo sciamano, per aumentare la propria consapevolezza e diventare un uomo di potere .

    Concetti che hanno esercitato su di me un fascino immenso e una forte curiosità.

    Da sempre sono fermamente convinto che la nostra società, tanto civilizzata e progredita, abbia perduto lungo la strada parte della propria memoria. Conoscenze e capacità, affinate da antiche popolazioni che vivevano in semplicità e a stretto contatto con la natura e i suoi fenomeni.

    Penso agli Aborigeni degli sterminati spazi australiani, che fino all’inizio del secolo scorso, prima di subire l’influsso deleterio e devastante dei colonizzatori bianchi, potevano comunicare tra di loro con il cuore e con la mente, per mezzo di una misteriosa forma di telepatia.

    Assaporo con indicibile piacere questo momento di solitudine tanto assoluta quanto rara.

    LA SOLITUDINE DI UN UOMO SOLO DAVANTI AL MARE … potrebbe essere il titolo di un libro.

    La sua voce e i colori sgargianti del paesaggio mi riempiono i sensi con violenza, lasciandomi in preda a una sorta di rapimento contemplativo.

    E proprio in questi particolari stati di coscienza, sento, come mai, di essere vivo. Da qualche angolo remoto sale e si fa largo l’urgenza, il bisogno primitivo di ritrovare le mie origini nell’universo. Microscopica particella, ma comunque unica e inscindibile dal tutto.

    Chiudo gli occhi e inspiro avidamente, sia pur senza fretta, l’aria salmastra che espande i polmoni e diffonde un vigore inaspettato al mio corpo. Vorrei che la spuma bianca di queste piccole onde delicate arrivasse a lambire le mie membra, e come un bambino essere cullato dal loro moto perpetuo e rassicurante; trasportato su remoti lidi inesplorati, dove trovare la quiete e l’ispirazione per poter scrivere i miei pensieri. Ma, come spesso accade, nei momenti in cui percepisco tanto intensamente le vibrazioni che mi giungono dall’esterno, arrivo in cima, immagazzino tutto ciò che i sensi mi trasmettono, poi senza un motivo... l’incantesimo si spezza. Il panico mi assale e comincio a rotolare giù.

    S’insinua la maledetta, fottuta consapevolezza, che da un momento all’altro questo piccolo frammento di estasi... svanirà. Che non ci sarà mai più un’opportunità perfettamente identica a questa. Ed è proprio la certezza delle caratteristiche uniche e irripetibili di ogni situazione che mi fa impazzire!

    Mentre sono qui, steso al sole con tutte le mie cazzate poetiche in testa, avverto, ancor prima che finisca, la nostalgia per ciò che sto vivendo.

    Proprio così. Fin da quando posso ricordare, la nostalgia è il sentimento dominante nel mio complicato, e in continuo subbuglio, mondo interiore. Nell’archivio dei miei vissuti, rappresenta quel valore aggiunto che rende meritevoli di essere ricordate e raccontate le esperienze che in un modo o nell’altro mi smuovono qualcosa dentro.

    La nostalgia segna dentro di me il confine immaginario tra ciò che ho l’opportunità di provare per qualche istante e il desiderio frustrato di prolungare a mio piacimento quella particolare situazione. Desiderio che, proprio perché assaporato in maniera fugace, è destinato a non essere appagato fino in fondo e a rimanere sempre vivo e ardente. Essere uno spirito nostalgico m’è d’aiuto e di stimolo a proseguire nella mia disordinata ricerca personale.

    Sono arrivato a coniare un nuovo termine per indicare la nostalgia verso luoghi mai visti o addirittura nei confronti di tutte quelle persone che non avrò mai modo di incontrare, né di conoscere nel corso della mia vita: NOSTASSENZA.

    Questo è uno stralcio di ciò che scrissi il giorno dopo quella mattina solitaria sulla spiaggia.

    Me ne stavo comodamente seduto con carta e penna, a un tavolo della birreria di Antonio a Port Bou, dove trascorsi giorni indimenticabili.

    Stretta in mezzo ad altre case colorate, occupava la parte centrale di una piazzetta adiacente al mare, immersa nell’ombra fresca e ventilata di quattro platani enormi.

    Da qualche giorno ero arrivato in Spagna, completamente solo e in autostop.

    Davanti a me un caffè pessimo, nel quale inzuppavo svogliatamente una brioche al cioccolato ancora calda di forno.

    Ero teso nell’atto di rievocare lo stato d’animo e la magia del giorno precedente, per mettere tutto su carta prima che il tempo potesse stemperarne il ricordo. Tuttavia, mi guardavo intorno come un leprotto curioso, ruotando la testa da ogni lato per non perdere nulla di quella luce meravigliosa. Avevo bisogno di fissare nella mente forme calde e colorate che mi avrebbero aiutato l’inverno seguente a rendere più sopportabili le lunghe e tristi giornate di nebbia.

    Quella fu un’estate favolosa, all’insegna di avventure indimenticabili... L’ultima vissuta da studente.

    Ancora oggi mi sorprendo a rimpiangere quel perenne stato di eccitazione e quel genuino stupore davanti alla vita.

    Una volta passato anche settembre, avrei voltato pagina. E come ripetevano incessantemente i miei genitori da qualche tempo, sarebbe finito il periodo balordo e iniziata la fase più importante per gettare le fondamenta del mio futuro.

    Mi sarebbe toccato anche l’anno di naia, dodici mesi lontano da casa, durante i quali ragazzi come me avrebbero imparato a stare al mondo e abbassato un po’ la cresta!

    In realtà non fu proprio così. Ricordo la caserma di carristi a Maddaloni, in mezzo alle montagne di Caserta e il distretto militare sulla collina di San Giusto a Trieste, con un pizzico di rimpianto.

    La convivenza stretta con qualche anima molto simile alla mia, favorì la nascita di amicizie fraterne.

    Con alcuni di questi ragazzi azzardai imprese pazzesche che farò meglio a non menzionare, perché ho il timore che anche dopo quarant’anni, qualche ufficiale dell’esercito potrebbe mettersi sulle nostre tracce.

    Infine, dico infine, ma in realtà sarebbe stato l’inizio, mi sarei trovato un buon lavoro, sgravando così la situazione economica della mia famiglia, già piuttosto pesante.

    Avevo passato gli esami di maturità senza stupide ansie da scolaretto, attento a non superare mai una certa soglia minima d’impegno. Mi ero portato a casa quaranta sessantesimi, un risultato mediocre, ma più che accettabile dal mio personale punto di vista. Avevo vissuto quei sei memorabili anni (uno mi era talmente piaciuto, da volerlo ripetere) nel migliore dei modi, senza farmi mancare nulla, riuscendo allo stesso tempo a limitare i danni. Mi era andata bene... ero stato un vero paraculo e tutto sommato ne ero uscito illeso.

    Davanti alla teca dov’era esposto l’esito finale, ricordo con chiarezza il momento in cui scorrevo l’indice sulle righe con i nomi degli studenti. In quel preciso istante, che anticipava di una manciata di secondi il verdetto, avvertii istintivamente che l’aver trovato una parola piuttosto che un’altra, avrebbe concluso un capitolo importante della mia breve carriera. E uno nuovo, del tutto sconosciuto, zeppo di aspettative nei miei confronti, sarebbe iniziato.

    Quindi esitai un poco, il dito bloccato sulla lettera D… De Luca, Dolfi, Durrini... Intanto mille immagini confuse di scene e volti mi affollavano la mente. Una valanga di ricordi più o meno remoti mi investì senza che li avessi richiamati e questo improvviso ingorgo di emozioni mi provocò una leggera sfasatura.

    Gerati, Giampedri, Golini… A quel punto, una scena spazzò via tutte le altre, diventando sempre più nitida, finché, come una videocassetta che riparte dall’inizio, prese a scorrere nella mia testa.

    Stavo seduto al mio posto in classe, davanti a me lunghe file di banchi occupate dai miei compagni e alla cattedra il professor Tosoni che ci guardava costernato, con espressione dispiaciuta.

    Alla sua destra, invece, il preside ci ammoniva, urlando con il volto paonazzo. Mentre si aspettava il cambio dell’ora, Golini si era seduto sulla finestra con le gambe a penzoloni nel vuoto per leggere un libro alla luce del sole.

    Severino, così si chiamava il mio vicino di banco, era un piccoletto, la cui solida struttura era costituita da un unico fascio di nervi che manteneva sempre in perenne tensione.

    Il suo passatempo preferito consisteva nel provare salti mortali e capriole in avanti e all’indietro. Era capace di continuare per tutto un pomeriggio... così, per puro divertimento. Abituato a passare la maggior parte del tempo nei campi di suo padre, aveva la costituzione muscolosa e scattante di chi è cresciuto giocando e lavorando all’aria aperta, baciato dal sole e dalla pioggia.

    Al termine della quarta ora di quel mattino, si appollaiò sulla finestra per prendere una boccata d’aria, come fosse la posizione più naturale del mondo.

    In aula non volava una mosca. Nel tenere il suo sermone sulla sicurezza negli ambienti scolastici, il preside gesticolava in modo enfatico, come se stesse interpretando una tragedia di Sofocle.

    Disse che eravamo dei selvaggi e che non era ammissibile tollerare atteggiamenti tanto irresponsabili e scellerati. Poi, in tono grave, volle sottolineare che precipitando dal secondo piano, il nostro sciagurato compagno, così lo definì, avrebbe potuto anche morire o rimanere paralizzato e in quel caso di chi sarebbe stata…

    Ma un movimento inaspettato distolse l’attenzione di tutti e anche il preside si fermò di colpo.

    Dal fondo dello stanzone, ecco Golini alzarsi lentamente dal banco e con fare deciso, andargli incontro.

    Per un istante ritornai davanti alla teca con i nostri nomi. Ero rimasto col dito sulla riga di Golini e non c’era verso di proseguire.

    Ma il nastro riprese a girare dal punto in cui s’era interrotto.

    Golini che si dirigeva verso il preside. La notevole differenza di statura tra i due sovrappose nella mia mente le loro figure a quelle di Davide e Golia: il giovane pastorello che affronta il gigante Filisteo.

    Giunto a una distanza di pochi passi, improvvisò quella cosa incredibile.

    Quasi da fermo, si lanciò in un salto spettacolare girando in aria su sé stesso, per cadere poi a piedi pari, poco distante dal dirigente scolastico, il quale, colto di sorpresa e probabilmente convinto si trattasse di un’allucinazione, seguì quella formidabile esibizione con gli occhi sgranati e l’espressione estatica di un santo a cui appare la Madonna! Per completare la rappresentazione, mancava solo che s’inginocchiasse facendo il segno della croce.

    Nell’incredulità e lo stupore generale, un particolare insignificante colpì l’attenzione di tutti.

    E fu l’appiglio che ci mantenne ancorati a quella strana realtà, la cui consistenza si avvicinava sempre più a quella di un paludoso terreno tropicale…

    Gli occhialetti di metallo fine color oro, che il preside non toglieva mai, erano scivolati sulla punta del suo naso affilato e lì si erano inspiegabilmente fermati. La posizione precaria, per non dire surreale, di quello stupido oggetto in bilico, contribuì ad aumentare il senso di ansia collettiva che si era diffuso tra la classe come un virus.

    Nei minuti che seguirono, la totale assenza di suoni e di rumori aprì uno spiraglio nella mia immaginazione malata.

    Avvertivo il peso di una minaccia tremenda che incombeva su di noi e che prima o poi ci avrebbe colpiti. Il presente fluttuava in un’atmosfera di sospensione provvisoria, nell’attesa che il futuro immediato si manifestasse, togliendoci da quella situazione ormai insostenibile.

    Gli occhi di tutta la classe erano puntati sul volto del preside. Anzi, per essere precisi, sul suo naso e su quel paio di vecchi, ridicoli occhiali che sembravano aver perso il loro punto di equilibrio.

    E fu proprio nel corso di quel buco spazio-temporale creato dal folle gesto atletico di Severino, che un bel momento, li vedemmo muoversi impercettibilmente e scivolare verso il pavimento.

    Parecchi anni dopo, mi sarei chiesto per quale scherzo del destino, quegli occhiali fottuti avessero deciso di lasciarsi cadere e frantumarsi in tanti piccoli pezzetti, proprio dopo la strepitosa dimostrazione del mitico Golini.

    Il preside fino a quel punto incapace di reagire, riacquistò finalmente le facoltà mentali e l’energia che di colpo lo avevano abbandonato. Le sue urla ci fecero riemergere dall’apnea in cui eravamo precipitati da un tempo indefinito e contemporaneamente si alzò nell’aria un generale sospiro di sollievo: Golini, da questo momento sei sospeso da questa scuola fino a nuovo ordine! Con effetto immediato! FUORIIIIII!!!.

    Il nostro compagno lo guardò appena con aria assente, come se la cosa non lo riguardasse affatto e lui non fosse più lì. Forse si trattò solo di suggestione, ma dietro a quell’espressione vuota, fui certo di cogliere i suoi pensieri, già proiettati verso nuove e improbabili avventure acrobatiche. Era un selvaggio, uno spirito libero, e di sicuro in quella scuola sarebbe stato sprecato.

    Raccolse le sue cose, si avvicinò alla porta senza mostrare alcuna emozione, ci rivolse un ultimo sguardo emblematico e se ne andò senza una parola. Nemmeno ciao, ci vediamo, a presto... Niente di niente!

    Di lui conservo con affetto l’immagine memorabile di quella piroetta in classe, perché non vidi mai più nessuno fare una cosa del genere.

    … Grandi, Grimaldi, Grossi… finalmente la riga che cercavo. Esitai un paio di secondi prima di leggere il responso, finché fui pronto per svelare quella parolina magica...

    PROMOSSO!!! Wow! Ce l’avevo fatta!

    Ero fuori! Ero libero!! I’M FREE come cantava Roger Daltrey nel film musicale TOMMY.

    E ora, definitivamente assolti gli impegni scolastici, mi sarei buttato a capofitto nel progetto che da un po’ di tempo mi frullava in testa.

    Da quel momento in poi, i miei pensieri si concentrarono unicamente sul viaggio in Spagna.

    Non che dovessi organizzare o preparare granché, si trattava soprattutto di tracciare a grandi linee un percorso, che avrei tenuto come riferimento per arrivare dove volevo.

    Tutti avevano cercato di scoraggiarmi riguardo a questa vacanza strampalata.

    Posso arrivare a comprendere il tuo bisogno di avventura viaggiando in autostop... ma spiegami: per quale ragione vuoi farlo completamente solo? Come pensi che dormirò la notte, sapendoti in giro come un vagabondo e per di più senza l’appoggio di nessuno? Tu mi farai morire!

    Questa era la tattica di mia madre, basata più che altro sul ricatto emotivo-sentimentale.

    Secondo me rischi di non tornare a casa!

    Io invece dico che ce la farà, ma una volta tornato non sarà più lo stesso. È una gran bella storia, ma il pericolo è che ti si sbricioli il cervello... capisci cosa intendo?

    E questi i commenti degli amici. Solamente Rudy seppe darmi fiducia: Vai e torna vincitore!.

    In effetti, era stata veramente un’avventura arrivare in Spagna col dito.

    Da Parma in poi avevo viaggiato solo in autostrada. Mi piazzavo all’ingresso del casello con zaino e sacco a pelo e, come i detenuti nelle foto segnaletiche, tenevo tra le mani un cartello sul quale camionisti e automobilisti potevano leggere chiaramente la mia direzione. Prima Genova, poi Ventimiglia, Nizza, Marsiglia e così fino al confine con la Spagna.

    Ci fu anche qualche momento di panico, che fortunatamente superai senza grossi impicci.

    Arrivato stanco e affamato a Marsiglia nel tardo pomeriggio, decisi che ci avrei passato la notte.

    Dopo essermi riempito lo stomaco, avrei anche stabilito dove.

    Sulla panchina in legno di un parchetto quasi deserto, feci la festa a una baguette con jamon lunga mezzo metro che accompagnai giù nello stomaco con una Ceres ghiacciata.

    Fossi in te me ne andrei alla stazione ferroviaria. Certo non è come essere a casa sul divano, ma è meglio se ti togli dalla strada, prima che faccia buio mi suggerì un ragazzo italiano a cui avevo chiesto informazioni. Io sono qui da tre giorni e dormo in un ostello che fa veramente cagare, ma stare in giro di notte qui non è per niente sicuro.

    Dopo esserci salutati, m’incamminai seguendo un cartello che indicava la stazione, mentre sentivo crescere una certa inquietudine.

    Quando mi ci trovai di fronte, provai un momentaneo senso di smarrimento davanti alle imponenti scalinate e a quella struttura ben diversa dalle nostre stazioncine di paese.

    All’improvviso, fui assalito dal bisogno puerile di vedere una faccia familiare. Sperai, in fondo al cuore, d’incontrare qualcuno che in quel luogo estraneo e sconosciuto facesse parte della mia storia personale o, in qualche modo, me la ricordasse.

    Questa sensazione passò in fretta, ma durò abbastanza perché si aprisse una piccola crepa nella corteccia, nemmeno troppo spessa, che credevo di portarmi addosso.

    Io che da sempre sbandieravo questo desiderio di andarmene lontano, che mi vantavo di poter lasciare tutto e tutti in qualsiasi momento per partire alla conquista del mondo... Ebbene, dopo soli due giorni di viaggio in solitaria, mostravo già i primi segni di cedimento.

    Erano quasi le nove e la luce del giorno era ormai un ricordo. Le giornate d’agosto si erano accorciate parecchio e nonostante la calura, avvertivo già il precoce rimpianto per un’altra estate che di lì a poco sarebbe terminata.

    Malgrado l’ora, la stazione brulicava ancora di vita e questo semplice fatto mi fu di conforto, al punto da provare uno slancio di sincera gratitudine verso tutti coloro che incrociavo.

    Alla biglietteria qualche persona in coda aspettava svogliatamente il proprio turno. Tra questi colpì la mia attenzione un nano.

    Era talmente piccolo che, malgrado i miei sforzi, non riuscivo a distoglierne lo sguardo.

    A occhio e croce, stimai approssimativamente che non superasse il metro. Le braccia e le gambe erano talmente sproporzionate rispetto alla testa, grossa come un’anguria, da ricordare un collage, di quelli che facevamo alle elementari, quando tagliavamo parti da illustrazioni diverse per ricomporle poi in modo casuale.

    Indossava un completo blu su una camicia bianca, chiusa sul collo da una cravattona a pois di una tonalità in tinta col vestito. La giacca penzolava dietro alla schiena, appesa all’indice della mano destra a mo’ di artiglio. I calzoni talmente ridotti da poter essere usati come pantaloncini corti da un uomo di statura normale. Non riuscendo a soddisfare la mia curiosità, che sicuramente aveva in sé qualcosa di morboso, mi attardai nell’osservazione un attimo in più del dovuto, finché il nano dovette avvertire tutto il peso del mio sguardo indiscreto e sfacciato.

    Infastidito da tanta insistenza, reagì, indirizzandomi un’occhiataccia velenosa e cattiva.

    La fronte altissima e sporgente terminava su due occhietti piccoli che m’intimorirono al punto da dover abbassare il viso imbarazzato.

    Ben ti sta… coglione! mi rimproverai, allontanandomi con finta indifferenza.

    Lo diceva sempre il nonno di non fissare la gente, specialmente coloro che in un modo o nell’altro, erano afflitti da qualche tipo di croce. Ma finivo sempre col cascarci. Era più forte di me. Quando m’imbattevo in qualcosa o qualcuno, che per qualche motivo colpiva la mia attenzione, non riuscivo a gestire l’impellenza di osservare e studiare. Ero irrimediabilmente attratto da tutto ciò che in qualche modo si discostava dalle classificazioni più convenzionali. In altre parole, sentivo la necessità di trovare un senso alle innumerevoli sfaccettature in cui poteva sbizzarrirsi Madre Natura.

    Terminato il mio giro di perlustrazione, individuai un angolo poco esposto agli occhi della gente vicino alla biglietteria, che mi parve ideale, perché allo stesso tempo discreto e non troppo isolato.

    Mi scrollai lo zaino dalle spalle dolenti per adagiarlo contro il muro. Distesi il sacco a pelo per terra e mi ci sdraiai sopra, usando lo zaino come schienale. In una tasca posteriore dei pantaloni tenevo un pacchetto morbido di MS, ne sfilai una con i denti e l’accesi soddisfatto della postazione che mi ero conquistato. Subito dopo, imboscai in una tasca dello zaino il mio zippo della marina americana con tre tacche incise sotto, di cui ero orgoglioso e gelosissimo. Avevo imparato ad aprirlo con un sistema molto teatrale, che faceva sempre il suo effetto. Con l’indice e il medio esercitavo una forte pressione sul cappuccio verso il basso, mentre da sotto spingevo in su con il pollice. Eseguita nel modo corretto, quest’operazione faceva aprire con uno scatto il cappuccio, poi strofinavo sui jeans la rotella da cui scaturiva la scintilla e lo stoppino intriso di benzina prendeva fuoco. Accendevo o facevo accendere la sigaretta ai miei occasionali spettatori, che rimanevano sempre a bocca aperta, e infine con un colpo secco contro la coscia richiudevo il cappuccio e infilavo in tasca lo zippo con fare disinvolto.

    Esibirsi in una cosa del genere era, nel nostro giro, il più eloquente dei biglietti da visita.

    Come a dire… Ragazzi, avete davanti un tipo tosto!

    A quei tempi era un accendino prestigioso tra noi giovani, ma uno come il mio non l’aveva nessuno. L’anno precedente, in un pomeriggio di settembre, io e Tommaso eravamo andati a Brescia in Vespa.

    Di tanto in tanto si faceva una spedizione nei negozi di vestiti usati, che allora sfruttavamo parecchio, soprattutto perché costavano poco.

    Quel giorno ricordo di essere entrato al Luna Strass perché mi servivano un paio di jeans. In vetrina erano esposti un sacco di gingilli vari, tipo adesivi con l’immagine di Jim Morrison, spille del Che Guevara, cilum di legno e avorio. Tra questi, notai immediatamente quello zippo con incisa la bandiera americana e fu amore a prima vista!

    Il gestore, un rastone molto affabile che inondava il negozio con le fragranze degli incensi più svariati, mi disse che l’aveva barattato con un marinaio napoletano di passaggio in cambio di un maglione usato.

    Al porto di Napoli, gli aveva raccontato, capitava spesso che attraccassero navi americane e quando i ragazzi appena sbarcati erano a corto di soldi, vendevano questi accendini molto richiesti che loro ricevevano in dotazione.

    Aspiravo con studiata lentezza per darmi un tono e, nel frattempo, lasciavo piacevolmente scorrere lo sguardo, nell’ancora intenso viavai di viaggiatori notturni. M’intrigava parecchio guardare la gente camminare ansiosa e indaffarata, come se tutti fossero perennemente in ritardo per qualcosa che li attendeva e che nonostante tutto non riuscivano mai a raggiungere.

    Sono sempre stato colpito, forse in modo eccessivo, dall’infinita varietà di facce, corporature e movenze diverse, che mentalmente fotografavo e catalogavo giorno dopo giorno. Avevo una memoria formidabile per i visi che, per qualche strano particolare, catturavano il mio interesse.

    Una volta messi a fuoco, riuscivo a recuperarli nel mio archivio personale, anche a distanza di anni. Giocavo a indovinare da quali rapporti fossero legati gli uomini e le donne che incrociavo per strada.

    Mi divertivo un mondo a costruire le storie più inverosimili.

    Anche tu italiano? Me ne offriresti una? da dietro l’angolo della biglietteria, fece la sua comparsa una donna che portava una camicia a scacchi da uomo e un paio di jeans smunti e logori come ne avevo visti pochi.

    Senza rispondere le offrii il pacchetto con le MS sempre più schiacciate e storte.

    Grazie, fratello. E visto che ci sei, fammi anche accendere!

    Quindi prese posto alla mia sinistra, sedendomi accanto.

    Questa intrusione improvvisa s’interpose bruscamente in quello spazio di rilassamento generale che mi ero ritagliato e che pensavo di meritare. Non avevo voglia di fare conoscenza, né di parlare, perciò ripresi a fumare con indifferenza, come se fossi solo.

    Pensi di dormire qui o stai solo aspettando qualcuno? Non per farmi i fatti tuoi, ma sembri uno a posto e mi sento in dovere di dirti una cosa…Tu mi dai una sigaretta e io ti ricambio con un consiglio.

    Ora la guardavo interdetto, insistendo nel mio silenzio. Non avrei saputo darle un’età precisa, poteva avere trenta o forse anche trentacinque anni. Il viso cotto dal sole mostrava un’abbronzatura non propriamente da turista. Somigliava piuttosto a quella dei muratori, esposti di continuo all’usura degli agenti atmosferici e agli sbalzi improvvisi di temperatura. I capelli folti e scuri erano raccolti in una grossa treccia, senza però impedire che ciocche disordinate le cadessero sulla fronte.

    Questa città è come una grossa fogna. Di notte scivolano fuori dai loro buchi i ratti più schifosi e pieni di rabbia... Devi fare attenzione.

    La fissavo sempre più sbalordito, quando, improvvisamente, con la faccia divertita, esplose in una risata fragorosa che m’innervosì parecchio.

    Ma che cazzo ti ridi? E chi ti ha cercato?

    Avevo la vaga impressione che mi stesse prendendo per il culo e mi sentivo umiliato. Anche la voce mi uscì sgradevole e distorta per l’irritazione.

    Non prendertela... Stavo solo scherzando. Purtroppo in giro c’è sempre meno gente dotata di senso dell’umorismo e a me piace molto ridere.

    Nel pronunciare queste parole, si accese in un sorriso amabile e delizioso che trasformò drasticamente la percezione che avevo avuto di lei fino a quel momento.

    L’impressione iniziale di fastidio e il suo approccio inopportuno avevano fatto sì che la confinassi immediatamente nella categoria dei rompicoglioni.

    Ma quel suo modo di sorridere era andato a toccare qualche tasto sensibile. Probabilmente senza cercarlo e senza nemmeno rendersene conto, si era aperta una breccia in quel muro ostile che avevo alzato fin dall’inizio. Di colpo, desiderai che non se ne andasse, che rimanesse stesa lì vicino a me, con quel sorriso stampato sul volto. Rimasi sconcertato dalla velocità con cui poteva cambiare o, addirittura, ribaltarsi il nostro modo di vedere le persone.

    Qualcosa non va? Ti sei veramente offeso?

    Non sapevo come giustificare questo mio improvviso sbalzo d’umore. E nemmeno avrei saputo spiegarmi il fatto, a dir poco curioso, che ora mi apparisse tanto diversa.

    Come ti chiami? le chiesi per prendere tempo.

    Lei mi squadrava con gli occhi socchiusi, come se stesse soppesando varie opzioni. Non rispose subito, ma si esibì in un gesto di saluto arabo, volteggiando la mano sopra la testa per poi passarla sulla fronte, sulla bocca e sul cuore.

    "Mi faccio chiamare Brise, ma il mio vero nome è Manuela. Sono originaria di un paesino in provincia di Torino e vivo più o meno sulla Costa Azzurra."

    Senza una vera ragione, un dettaglio mi incuriosì più del suo nome: Spiegami da cosa hai capito che sono italiano.

    Niente in particolare. Però ho elaborato una teoria secondo cui i nativi di uno stesso Paese hanno dei tratti fisici che li accomunano. Prendi i tedeschi, per esempio. La maggior parte di loro sono grandi e grossi, hanno visi un po’ squadrati e sono quasi tutti biondi. I francesi li riconosco dai lineamenti fini, il profilo inconfondibile, gli occhi ben disegnati e quando parlano la loro meravigliosa lingua si somigliano tutti. Noi italiani, invece, siamo italiani e basta… Ce l’abbiamo scritto in fronte! È una cosa a pelle, non saprei bene come spiegarti.

    Aveva un modo strano di gesticolare. Muoveva in continuazione le dita lunghe e sottili come un direttore d’orchestra, che attraverso il flusso magnetico delle proprie mani, intreccia la voce degli archi, dei fiati e delle percussioni in un’unica, perfetta, melodia. E dalla combinazione delle

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