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Sul ciglio dell'infinito. La vita tra sogno e realtà
Sul ciglio dell'infinito. La vita tra sogno e realtà
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E-book293 pagine4 ore

Sul ciglio dell'infinito. La vita tra sogno e realtà

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Info su questo ebook

Sul ciglio dell’infinito (La vita tra sogno e realtà) di Valerio Eufrate è un romanzo che nasce tra le dinamiche di un mondo che sembra ripetersi ciclicamente, pur nelle sue sconvolgenti varianti. È un’opera che trae linfa da un’attenta riflessione dei percorsi interiori che quotidianamente dobbiamo intraprendere, che ci piaccia o no, in vista della sopravvivenza dell’animo e della psiche, costantemente messi alla prova dalle circostanze e dalle sfide di un mondo spesso non facile, ancor più frequentemente crudele. La percezione delle proprie nevrosi, come le definisce l’autore stesso, è il primo passo verso una narrativa che seppur non (probabilmente) autobiografia, per stessa ammissione dell’autore, diventa tuttavia estemporaneità dell’essere, con tutta la consapevolezza e veridicità che dunque le possono, in ogni caso, appartenere, rendendo la scrittura intensa e particolarmente coinvolgente.

Valerio Eufrate, già direttore di un Centro di Formazione professionale e Coordinatore di più centri di accoglienza per immigrati, è alla sua seconda esperienza letteraria avendo già pubblicato un libro dal titolo: Diario di un Cittadino. Un diario, una testimonianza di cittadinanza attiva e di ricerca storica sulle proprie radici e su quelle del territorio. Sposato e padre di tre figli , nonno felice di Athena, si è interessato anche a temi educativi operando in particolare nell’area del disagio minorile. La sua passione per la scrittura si è sviluppata grazie alla pubblicazione di diversi articoli tematici, recensioni e brevi saggi su vari temi su riviste e quotidiani.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2022
ISBN9791255370352
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    Anteprima del libro

    Sul ciglio dell'infinito. La vita tra sogno e realtà - Valerio Eufrate

    LQ.jpg

    Valerio Eufrate

    SUL CIGLIO DELL’INFINITO

    La vita tra sogno e realtà

    © 2022 Vertigo Edizioni s.r.l., Roma

    www.vertigoedizioni.it

    info@vertigoedizioni.it

    ISBN 978-88-6206-995-3

    I edizione novembre 2022

    Finito di stampare nel mese di novembre 2022

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    SUL CIGLIO DELL’INFINITO

    La vita tra sogno e realtà

    … Che ci piaccia o no, siamo noi la causa di noi stessi.

    Nascendo in questo mondo, cadiamo nell’illusione dei sensi; crediamo a ciò che appare. Ignoriamo che siamo ciechi e sordi.

    Allora ci assale la paura e dimentichiamo che siamo divini, che possiamo modificare il corso degli eventi, persino lo Zodiaco.

    Giordano Bruno.

    Prefazione

    Ho scritto questo romanzo al tempo dei due Papi, della grande pandemia, dei terrapiattisti neo-aristotelici, della terra al centro dell’universo e feroci guerre. Corsi e ricorsi storici, segnali da non sottovalutare. L’universo ci stava avvisando.

    L’ho scritto perché i dubbi, di questo tempo, ora erano di molti, e la gente non si fidava più delle certezze che la scienza, aveva assicurato fino a ora. E pagavano di più, come sofferenza, coloro che avevano nel lavoro, nell’attività fisica e nella ricerca del piacere, l’unica aspirazione di vita.

    Forse costoro non avevano coltivato abbastanza la loro psiche e la loro intelligenza, poco propensi alla cultura e alla conoscenza, si trovavano in grande difficoltà a poter fantasticare, immaginare, creare. Ed era per questo che si sentivano più soli e sentivano insopportabile quella reclusione e limitazione della libertà, che non provi se la tua anima è ricca e ti senti in pace con te stesso.

    Questo libro, dall’andamento circolare e ridondante ha, come tutte le opere letterarie, dei padri nobili, tre grandi scrittori e tre libri, tra quelli scritti, forse tra i più sconosciuti. Opere che devono essere trovate e scoperte.

    Opere criptiche e di non facile comprensione, ma di grande fascinazione. Tutte alla ricerca dell’Io profondo e di una possibile spiegazione dell’esistenza.

    E così m’imbattei, cercandoli, in questi libri: Il libro dei morti Tibetano di Bardo Thödol; Il libro Rosso di Carl Gustav Jung; L’esegesi di Philips K. Dick.

    Queste tre opere venivano fuori, con sorprendente sincronicità, quando, pagina dopo pagina, andavo elaborando il mio pensiero. Tralascio la stucchevole, per me, annosa questio, se il libro sia o no e in che misura opera autobiografica, ma è certo che prende spunto da alcune nevrosi che mi accompagnano da sempre: l’insonnia, le crisi ipnagogiche, la paura dell’ineluttabile scorrere del tempo, la caducità dell’esistenza, la comprensione, solo nella mente, dell’inesistenza del tempo.

    Da ciò la necessità di creare un luogo, un Paracosmo altrimenti inteso come: Mondo delle Idee, Bardo, Universo Olografico, costruiti sui concetti di: Sogno Lucido, Corpo Mentale e Aurea, a fondamento dello spazio dove il divino incontrava gli esseri viventi.

    Anche per questo mi sono soffermato nell’indagare il mito di Hypnos e i suoi molteplici collegamenti con altri miti e religioni.

    A tal riguardo è utile delineare per sommi capi, per quanti non siano addentro alla complessa materia del mito, chi fosse Hypnos.

    Egli era la divinità che presiedeva al sonno di Dei e mortali. Si badi bene: Dio del sonno che conteneva i sogni rappresentati dai suoi figli Morpheo, in primis e poi gli Oneroi: Fantaso, Fobetore e Momo. Ognuno specifico di un particolare tipo di sogno.

    Le problematiche relative ai rapporti incestuosi, normali nella cultura classica, rappresentano anch’essi un aspetto importante per la comprensione del testo, oltre alle mie note esplicative.

    Grandi temi, sono quelli relativi agli aspetti più sorprendenti della fisica quantistica.

    Temi che ci aiutano a sondare il mistero della fede, come esigenza ineluttabile dell’essere umano a fondamento dell’esistenza terrena.

    Nelle religioni, e ancor di più, nei miti e nelle fiabe, si riscontra e si possono trovare tracce di un’antica verità che appartiene a tutti, come genere umano e non solo.

    In questo lavoro le note esplicative hanno, più che altro, lo scopo di segnalare temi e personaggi utili a una più approfondita ricerca nella democratica e accessibile conoscenza della rete.

    Antefatto

    … Viaggiavo, lasciando dietro di me una bianca scia di luce mentre intorno il nulla mi avvolgeva e forze immani mutavano la mia rotta. Era ciò che volevo come messaggero di un messaggio, guidato da fremiti divini.

    Fulmineo bucavo la rete extra dimensionale quando, superata una fascia piena di altri mondi come diamanti, scorsi punti luminosi che veloci ruotavano tra loro. Lì, planavano corpi, ora piccoli ora grandi, circondati da altri puntini più piccoli, tutti luminosissimi.

    Modificai la rotta e lo vidi, quel punto che sembrava simile a tutti gli altri, ma che mi fece vibrare. Quel puntino sempre più grande era diverso dagli altri. Era azzurro. Cominciai a cadere. Mi incendiai e parte di me si dissolse quando a lui mi apprestai colpendolo con inaudita forza. Il messaggio era giunto.

    Ora giganti mi trassero da impetuosa corrente scintillante dove rimasi immemore e poi posto lì dove sentieri si incrociavano. E fu il buio, e fu la luce e poi esseri sempre diversi. Dopo, destandomi lo vidi, vicino a me.

    La vicinanza di altri, a lui invisibili, attrasse la mia coscienza curiosa e da allora non smisi di osservarli.

    Prologo

    Un colpo dopo l’altro, le zolle di terra saltavano compatte e nere, sotto il sole infuocato del mezzogiorno. Il viso scavato dalle rughe, come letto di torrente arso, la testa canuta, come lana caprina e giù fino agli scarponi sfondati, solo la gravità distingueva l’uomo dalla terra sotto i piedi.

    Inatteso e imprevisto un brivido freddo, come lama, gli trafisse il cuore.

    La vanga si arrestò a mezz’aria, il tempo di brillare alla luce tagliente del giorno, e piantarsi vicino all’uomo, che cadde sollevando uno sbuffo di polvere. E fu subito terra, spenti gli occhi, il viso prese il colore del suolo. Atropo¹ gli fu accanto.

    L’anima, odor del fieno e di erba tagliata, di terra smossa, di pane raffermo, di acqua e di fango, scivolò via depositandosi tra le zolle smosse e lì vicino ristagnò, come le nuvole troppo basse imprigionate dalle colline.

    L’astro splendente cambiò i dorati raggi con altri tinti di fuoco. Cicale e grilli, sotto le ombrose foglie, si fecero assordanti. Il corpo, fattosi terra, si confuse con essa, fino a che la luce tagliente del tramonto fece emergere il terreo viso.

    La terra, giunta all’imbrunire, tremò sotto i passi pesanti delle donne dai lunghi veli.

    Come corvi avanzavano, pesanti e leggermente arcuate in avanti, la vedova in testa a guidare il tristo corteo delle figlie velate, già simili alla vecchia madre. Andavano con le bimbe in braccio, i figli più grandi a seguire le loro ombre.

    Come furie, si apprestavano svolazzando di qua e di là a raggiungere il corpo, mentre la luce del vespro, rimaneva sospesa nell’aria.

    La vecchia, con un balzo, li precedette tutti. Si chinò sul sasso, un tempo sposo, amante e padrone. Allungò le avvizzite dita a strappargli il cuore, dalla tasca posteriore dei pantaloni, a forma di un mazzo di banconote.

    Si occultò, allo sguardo famelico delle figlie, scomparendo tra i neri scialli, poi, rivoltato il corpo, con la mano chiuse le palpebre, ostinatamente aperte, non prima di averlo salutato con silenzioso grido. Vattinni!

    Così com’era arrivato, al latrare dei cani, il nero stormo si allontanò, insieme con le ombre della sera.

    Il rattrappito corpo, secco come ramo spezzato, trovò un po’ di conforto tra le amorevoli braccia dei becchini, che, steso il feretro su un ampio lenzuolo, lo deposero dentro una cassa di faggio, piena di tarli e fessure rattoppate.

    E fu pace, quieto riposo, senza assillo e fatica, risveglio senza tormento, senza sentire la pelle farsi più dura, come duri erano i sassi sbriciolati in vita.

    L’esistenza era stata avara, terra, sabbia, pietre, acqua di fiume salmastra e duro dorso di mulo, la morte non poteva che essere un dolce ed eterno sonno ristoratore.

    Finalmente l’anima scopriva la leggerezza, i tenui profumi, i raggi di luce che non feriscono, l’assenza della fatica, del dolore e, cullata da Etere e Aria, si appoggiò a un enorme masso, ai margini di un fiume dalle strane acque trasparenti da sembrare vuoto, e già Hypnos, impalpabile, fu accanto.

    1 Atropo, l’ineluttabile, era una delle tre Moire, la più anziana, figlia della Notte, recideva il filo della vita degli uomini.

    Parte I

    1. Bruma

    Sulla cima di una montagna, spesso coperta da nubi e umida nebbia, c’è un paese fatto di roccia, torri e austere architetture.

    Dalle mura e dai torrioni, si vede la maestà dei monti circostanti, per lungo tempo ricoperti di neve. Più a valle, la sorgente di un fiume e ancora gole e speroni di roccia viva che si aprivano declinando verso il mare. Raramente, l’odore di salsedine lambiva le case del borgo.

    Un paesaggio più nordico che mediterraneo, per niente strano in questa terra dai forti contrasti, un continente tra monti, mari e pianure.

    Questa mutevole varietà influenzò il carattere della gente: disincantata e decadenti abitanti della terra del mito, eredi di Dei ed Eroi.

    Torniamo al nostro paese, arroccato tra le nubi e alla signora che vi abitava. Bruma si chiamava, un nome insolito come l’aspetto, il portamento, il modo di fare. Così sembrava agli abitanti del borgo che ne subivano, attratti, la personalità.

    Alta, il corpo snello e asciutto, le forme perfette messe in evidenza dai semplici vestiti che indossava. I capelli, biondi dai riflessi ramati, di solito raccolti da uno chignon o legati in una lunga coda, mettevano in risalto il collo candido, come chiara, quasi diafana, era la carnagione. Fronte spaziosa, che incastonava due occhi cerulei, trasparenti, naso dal taglio dritto a indicare la bocca sottile e ben disegnata, con le rosee labbra, percorse da piccole rughe che donavano morbidezza e rotondità.

    Il mento, disegnato attorno a un cerchio di piccolo raggio, come un promontorio si alzava, prima di scendere sul collo, impreziosito da sottili venuzze, per poi adagiarsi sul decolté, là dove i seni si ergevano per un attimo per poi raccogliersi, rotondi e morbidi, con perfetto controllo gravitazionale e infine le gambe, affusolate scendevano frenate dalle caviglie eleganti e slanciate.

    Non era dato conoscere le sue origini. Sposata a un uomo di quel borgo, conosciuto chi sa come. Ancora più strane erano le motivazioni che la spinsero al matrimonio; forse l’amore per i contrasti: l’ex sposo era, infatti, un omaccione pesante e massiccio, di carnagione scura e dai capelli lunghi e neri. Gero si chiamava ed era il proprietario delle miniere di sale presenti nel territorio. Speleologo, appassionato del suo lavoro passava gran parte del tempo sottoterra.

    Una volta portò Bruma a visitare la chiesa, scavata nel sale, all’interno di una delle miniere. Quel bianco così fulgido e splendente, in un luogo destinato all’oscurità, la colpì, suscitando in lei profonde sensazioni di vite passate.

    Del marito non si sapeva molto altro, se non che era scomparso, forse scivolato in una grotta o anfratto di quei monti.

    Il corpo non fu mai ritrovato, dando adito a molte supposizioni e ipotesi sulla morte. Fu allora che Bruma scoprì che l’amato marito altri non era che suo fratello! Risultò dai documenti, per la dichiarazione di morte presunta: una identità diversa da quella che conosceva Bruma. Gero aveva cambiato identità, di ritorno dagli Stati Uniti, forse per protezione da qualche minaccia. Del resto, anche lei, trovatella aveva cambiato le sue generalità. Da questo uomo Bruma ebbe due gemelli: Placido e Tano, molto simili a lei e al padre/zio, con tutte le conseguenze che si possono immaginare! Nonostante gli sforzi di Bruma per proteggerli dagli sguardi malevoli della gente, i figli non ebbero un’infanzia felice.

    La signora, un tempo erede e unica proprietaria delle miniere, era molto rispettata dai lavoratori, per il comportamento giusto, che mai aveva fatto torto o sopruso alcuno.

    Questo senso etico rimase anche quando, per drammatiche vicissitudini, si trovò sola ad affrontare una crisi finanziaria che la privò di gran parte della proprietà, della casa e di una grossa percentuale dei proventi della miniera. Si trasferì nella casa del suo mezzano, morto da poco con ancora la zappa tra le mani, con i figli Tano e Placido.

    Poco più di un cascinale: un piano terra che seguiva le linee isometriche del suolo e un piano rialzato, con un balcone dalle inferriate a petto d’oca, che si apriva su un mare di monti e colline a finire tra sprazzi di azzurro.

    In una parte del terreno, c’era un piccolo giardino all’ingresso, dove un albero di melograno si ergeva sopra un prato punteggiato da rossi papaveri. Nel giardino trovarono un grosso masso nero, forse un meteorite, sospettavano Placido e Tano, perché rossiccio, liscio e magnetico. Il masso presentava una specie di nicchia naturale, sicuramente contenente un tempo qualche immagine devozionale.

    Un po’ per la lingua, sicuramente latino e, per l’ovvia considerazione, pensarono che si trattasse di un’immagine o statuetta religiosa, probabilmente cristiana, poiché gli spazi vuoti erano levigati, com’era uso fare ai cristiani di accarezzare e baciare le statue. Un amore che lasciava, nelle labbra di ogni fedele, un frammento di verità sottratto ai posteri. Nel tentativo di decifrare quell’iscrizione, i gemelli stabilirono un contatto con la pietra, con quel mistero. Un enigma che snebbiava la mente e invitava soprattutto Placido alla meditazione.

    Tano, più speculativo ed empirico, si era interessato più che altro alla decifrazione, ripromettendosi che, alla fine, un giorno l’avrebbe scoperto. Egli viveva, il più del tempo, lontano dalla casa, studiando medicina nella città vicina.

    Placido, per il momento era rimasto nella casa, non se l’era sentita di abbandonare la madre cui sentiva di essere legato profondamente. Inoltre, Bruma soffriva di disturbi del sonno, ma Placido non la vide mai lamentarsi di ciò, era comunque una malattia seria che bisognava tenere sotto controllo.

    Fu per curarla che Placido decise di mettere a frutto le sue notevoli competenze di medicina naturale e creare per lei una pozione rilassante a base di semi e petali di papavero, un infuso potente che donava a Bruma dolci notti, un profondo sonno, sempre in bilico tra sogno e realtà.

    Spesso amava chiamare accanto a sé Placido, per raccontargli ciò che sognava.

    Una notte fece un sogno che la turbò e forte sentì il desiderio di raccontarlo al figlio e, a lui rivolto, disse: Vieni, siediti vicino a me, senti cosa ho sognato.

    E così disse: "La Notte mi sosteneva avvolta in leggeri veli, intessuti di raggi di luna e così stavo nell’alto cielo. Ogni cosa della bella terra accompagnavo al riposo, alla quiete del dolce sonno. Attorno a me i figli di mio figlio giocavano con le vesti, rincorrendosi. Essi erano i desideri, i sogni di gloria e di ricchezza, voluttuose immagini di amori resi possibili, spaventose creature e animali fantastici che sparivano e riapparivano nel buio. Brillavano per un attimo, per spegnersi subito, pervasi dall’estasi, viaggiatori di molteplici universi. Altri esseri, fatti di luce eterna, mi guardavano invidiosi. A loro non era concesso che placassi l’eterno splendore, sempre accesi come fiamma eterna.

    D’improvviso lo vidi, immenso, riempire lo spazio e dalle terre desolate, fuoriuscire la testa e il tronco, avvilupparsi su se stesso in nerissima fuliggine di tenebre e anime dolenti".

    Si fermò Bruma e stette in silenzio, il respiro si fece affannoso, mentre accarezzava il capo di Placido guardandolo negli occhi e quegli:

    Chi, chi vedesti mamma?.

    Bruma riprese il racconto: "Vidi il mio sposo, tuo padre, ma ora era altro, e aspetto non di uomo, ma di Demone aveva e di terrore era vestito. Mi prese, ghermendomi con mani adunche, la gamba, trascinandomi nel nostro antico regno. Bramava possedermi! Con un semplice cenno ordinai alle nere creature che, celate, mi seguivano, di ricacciarlo da dove era apparso. Ma lo sposo, ancor m’impietosiva. Luna mi venne in soccorso, insieme a Brezza, a illuminare e disperdere la nera fuliggine. Selene calante verso l’orizzonte degli alti monti parlò. Lascia Erebo², Nyx alle sue incombenze e torna là, dove i dolenti si nascondono nell’ombra buia. Molto ha sofferto, a causa tua. Vattene!" gridarono a una voce, tagliando l’oscurità, costringendolo a lasciarmi, dileguandosi, con i neri fumi nella profonda terra.

    "Di nuovo libera! Diventai aria leggerissima e insieme a Etere salimmo più in alto, avvolgendo il mondo intero nel mio trasparente velo, e ancora più su, dove l’aurora precedeva l’alba e la nascita del nuovo giorno. Tra poco i raggi dorati avrebbero dissolto le nebbie della notte ed io, presa da Sonno amorevole, sarei insieme con lui svanita.

    Mi svegliai così turbata, nel mio letto, le vesti e le coltri sfatte, testimoni del sogno e pensai subito a te Placido, vogliosa di sentire cosa ne pensassi e sollevarmi da questa strana frenesia che ancora mi prende".

    Placido guardò la madre mai così bella! Come quando nel sonno sogni un tuo desiderio, il più nascosto, intimo che sempre ha come limite le labbra e speri di mai più svegliarti, così Placido reclinando il capo sul petto di Ella le sussurrò: Mamma, ricordi quando piccoli io e Tano ascoltavamo i tuoi racconti, che ci parlavano di mondi fatati, di eroi indomiti e crudeli divinità? Ecco, io credo che il tuo sogno si serva di uno dei miti dell’antichità per svelare qualcosa di te.

    E cos’è Placido che mi consuma, anche ora, come una candela?.

    Continuò il figlio, stringendola sempre più a sé: "Il mito è quello di Erebo, il Dio delle tenebre del regno dei morti e della sposa sorella: la potente dea della notte.

    Nyx sposò il fratello, sicuramente costretta dal fato: lei così bella, lui così orrido. La bella e la bestia. Da questa unione nacquero Tanathos, la morte, Hypnos, il sonno e Momo, diciamo la burla. Per un breve periodo vissero nel regno di Pluto. Thanatos e Hypnos divennero famosi e inseparabili, l’uno lo specchio dell’altro: i gemelli veloci. Ma ben presto Nyx bramò uscire da quel regno infausto. Se ne andarono portandosi dietro un frutto di melograno donatogli da Kore malinconica.

    Successe che Hypnos s’innamorò pazzamente della madre, da perderci il sonno".

    Bruma accennò un sorriso; la battuta sortì l’effetto desiderato. Riprese Placido: Nyx ricambiò parimenti questo amore e dalla loro unione nacquero gli Oneiroi: Morpheo, Fantaso e Fobetore. E questo è quanto, mamma disse Placido, il viso rosso dalla passione nascosto nel grembo di lei. Non così Bruma, che il cuore gli voleva uscire dal petto e più che accarezzare, sembrava ghermire con le unghia i capelli neri, lunghi e fluenti del figlio. Prima che la madre ne avesse a morire, Placido le disse alzando lo sguardo a incrociare quello di Ella: Lascia madre che sia io ora a raccontarti il mio sogno e le raccontò quello che da tempo ardentemente desiderava, celandosi nel mito di Hypnos.

    "Hypnos sbatté forte le ali, ma Etere non se ne accorse, meno che un battito di ciglia si mosse, il divin fanciullo rimase in bilico tra l’infinito e il baratro mentre il cuore aumentava la frequenza, insieme alle piccole ali.

    Più leggero dell’aria, entrò nel turbinio di veli di Nyx, la madre bellissima, distesa sulle leggere coltri, il corpo diafano e sinuoso a tratti emergeva in tutto il luminoso candore e Tutta la persona splendeva di luce propria e così le gambe tornite e snelle, l’esile vita e i bei seni, dai turgidi capezzoli rifulgevano ancor di più. Il viso scolpito dagli argentei raggi di Selene appariva riposato e luminoso. Solo un altro Dio poteva ammirarla, senza rimanerne incenerito. E pur tuttavia Hypnos, a stento, si tratteneva dal piangere, tanto la vista della madre riusciva a tenere i sensi desti, vigili e attenti. Lui, il placido dio del sonno, della pace e della quiete, era sconvolto, attonito, e l’anima restava più nuda del corpo nudo. Le ali, divenute invisibili da sole, lo avvicinavano sempre più a Nyx, che continuava a riposare. Dormiva? Ebbe un attimo di esitazione, non sapendo più se ella riposasse o no. Ma questo non era un problema per Hypnos. Già le sue labbra erano sulle sue, immobile, a mezz’aria, sopra di Lei, sfiorandola al palpitare dei seni. L’accarezzò dolcemente con i rossi petali, sulle guance, sugli occhi e sulle labbra schiuse, ed essi lasciarono andare i loro effluvi soavi. Il corpo di Nyx assunse una posa languida, come se fosse sdraiata su una nuvola di petali rossi. La mano dolcemente, senza peso, persa tra le leggere coltri, si schiuse e il respiro si fece pesante, mentre Hypnos era sempre più vicino a Lei e i loro corpi fiammeggiavano nell’estasi e così Sonno fu Notte".

    Bruma fu scossa da un fremito, facendosi forza prese il viso dell’amato figlio e spinse le labbra sulle sue che, come frutto maturo, si schiusero unendosi.

    Quella mattina il colore rosso dei fiori gli sembrò più acceso che mai, come a gridare una passione segreta. Placido si era alzato che ancora era notte, ed era sceso in giardino con il tepore di Bruma addosso, vestito del profumo di lei, si sedette tra i fiori accarezzandoli.

    La luce pian piano si faceva spazio schivando le ombre che, restie a ritirarsi, si attardavano negli angoli, infilandosi negli anfratti e nei recessi più bui. Si girò a inquadrare la finestra, richiamato dallo sguardo nascosto di lei. Ebbe appena il tempo di vederla, confusa tra le tende, che si chiudevano.

    Rivisse ancora la notte, appena trascorsa e tanto a lungo desiderata, bramata, spiata senza ritegno, dietro gli spigoli delle porte socchiuse. Conosceva tutto di lei, profonda era la loro unione, come essenze destinate a ritrovarsi, parte di un unico grande disegno.

    Cosa sarebbe accaduto non lo sapeva e neanche gli interessava saperlo. Quello che sapeva era che quella notte sarebbe stata per sempre.

    2 Divinità oscura e ancestrale, figlio di Caos e e fratello di Nyx. con il termine Erebo si può indicare anche il regno dei morti. Con la sorella generò tra gli altri dèi, Hypnos, e con Nyx anche le tre Moire di cui la più terribile era Atropo colei che recideva il filo della vita.

    2. Celo

    Placido, anche per la forte insistenza di Bruma, dovette allontanarsi dalla famiglia. Questo straziante sacrificio fu necessario per proteggere i figli esposti alla crudeltà della bigotta società del tempo. Tale divisione non poté non recare danno a Placido che sentì il riacutizzarsi della narcolessia che da sempre lo affliggeva. Celo ne era consapevole, poiché riusciva a percepire ciò che provava il padre come se fossero la stessa persona: l’uno si rifletteva nell’altro e viceversa.

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