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I 101 motivi a causa dei quali i nostri figli non ci capiranno MAI
I 101 motivi a causa dei quali i nostri figli non ci capiranno MAI
I 101 motivi a causa dei quali i nostri figli non ci capiranno MAI
E-book533 pagine6 ore

I 101 motivi a causa dei quali i nostri figli non ci capiranno MAI

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Info su questo ebook

Questo libro è una carrellata semiseria di argomentazioni che affrontano il gap generazionale, in particolare tra gli attuali genitori a cavallo del mezzo secolo di vita ed i loro figli in età variabile tra l’infanzia e l’adolescenza. Che negli ultimi cinquant’anni molte cose siano cambiate nella società che ci circonda è un dato di fatto innegabile, e tutti noi che abbiamo vissuto in questo periodo ne siamo ben consapevoli; basti pensare all’avvento di internet e dei cellulari per capire come il mondo attorno ai bambini ed ai ragazzi d’oggi sia completamente diverso da quello nel quale siamo cresciuti noi, figli degli anni Sessanta e dintorni.

In queste pagine non ci sono solo le semplici differenze tecnologiche o il diverso modo di rapportarsi alla realtà che ci circonda, vengono invece affrontate argomento per argomento tutte le motivazioni che creano un abisso tra il mondo dei nostri ricordi e quello in cui stanno crescendo i nostri figli, specificando per quali ragioni loro non ci capiranno mai quando parliamo della nostra gioventù, delle nostre esperienze vissute alla loro età e di come funzionassero le cose nel periodo che copre gli anni Sessanta e Settanta del ventesimo secolo.

Argomento dopo argomento, lentamente ha preso vita un ironico elenco di motivi a causa dei quali i nostri figli non riusciranno mai a capire la nostra generazione, basato prevalentemente sulle esperienze personali e sui confronti sorti in numerosi dialoghi familiari e con amici. Quando dico “nostra generazione”, intendo parlare di persone nate più o meno negli anni Sessanta, gente che come il sottoscritto ha vissuto la propria infanzia nel decennio del boom economico, l’adolescenza negli anni dell’austerity, che ha finito gli studi e iniziato l’attività lavorativa nel periodo dominato dallo yuppismo, ha avuto figli mentre l’Unione Sovietica e la Jugoslavia si disgregavano e li ha cresciuti nel nuovo millennio, che sembrava così lontano quando i bambini eravamo noi.

Gli argomenti spaziano dalla scuola ai passatempi, dallo sport alle auto, dalle festività alla televisione, dalla pubblicità alla tecnologia, in una carrellata di ricordi, di situazioni e di vita vissuta legate indissolubilmente alle esperienze personali, ma che gli attuali cinquantenni di certo riconosceranno in molti dei 101 capitoli che compongono questo libro, con un sorriso o con un po’ di nostalgia a seconda del proprio vissuto. I ragazzi d’oggi, invece, affrontando queste pagine penseranno di avere tra le mani un libro di fantascienza, anche se ambientato in un passato piuttosto recente, tante saranno le differenze che potranno incontrare tra il loro mondo e quello dei loro genitori qui raccontato il più ironicamente possibile!

LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2017
ISBN9788826003368
I 101 motivi a causa dei quali i nostri figli non ci capiranno MAI

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    Anteprima del libro

    I 101 motivi a causa dei quali i nostri figli non ci capiranno MAI - Danilo Brignoli

    http://write.streetlib.com

    PRESENTAZIONE

    Leggo libri di vario genere ormai da parecchi anni, e soprattutto in passato ricordo di aver visto molte presentazioni all’inizio dei volumi; quand’ero molto giovane le saltavo a piè pari, puntando direttamente alla storia, ma con gli anni ho cominciato a leggerle e ho imparato che spesso aiutavano a capire meglio l’autore, il contesto in cui il libro era stato scritto, le motivazioni e così via. Occorre notare che nella maggior parte dei casi le presentazioni non erano scritte dall’autore, ma da critici o esperti del settore che spiegavano al lettore alcuni aspetti dell’opera: non sapendo a chi rivolgermi per far scrivere qualcosa su questo libro, ma desiderando segretamente da sempre di avere una presentazione a qualcosa scritto da me, ho deciso di provvedere da solo cercando di spiegare i motivi che mi hanno spinto ad elencare una serie di ragioni – più o meno condivisibili, naturalmente – per le quali i nostri figli compresi nella fascia di età che va dall’infanzia all’adolescenza non potranno mai capirci quando parliamo.

    Queste pagine nascono dal confronto che spesso accade quando i ragazzi crescono, e noi genitori sentiamo che i nostri pargoli sfuggono al controllo acquisendo una propria personalità e proprie esigenze che – chissà come mai – non coincidono mai con le nostre! Un concetto forse un po’ stereotipato ma alquanto diffuso è quello secondo cui oggi i giovani son tutti uguali perché mancano gli ideali, frase che quasi tutti gli adulti hanno pronunciato nel corso degli ultimi decenni ma che non è certo una novità (lo cantava già Bennato nel 1980, nella canzone Tutti insieme lo denunciam contenuta nell’album Sono solo canzonette), spesso dimenticandoci che all’età di quindici - sedici anni gli unici ideali che avevamo noi erano limitati ad una partita a biliardo e ad un giro in motorino… e tralascio volutamente l’ambizione al sesso, per molti - compreso chi scrive - più un’utopia che un ideale vero e proprio.

    Da parecchi anni ormai si sente ripetere che le vecchie generazioni non capiscono le nuove, che il gap generazionale divide genitori e figli, che i matusa (termine inventato quando noi eravamo piccoli dagli adolescenti di allora, e che ora sarebbe rivolto a noi se solo i nostri ragazzi usassero il nostro gergo) non potranno mai avere un dialogo con i giovani perché non li capiscono: ma siamo sicuri che il problema sia solamente questo? Che siano sempre solo i genitori a non capire i figli?

    Parlando nel corso degli anni con i miei due figlioli, ormai entrambi già oltre l’adolescenza, mi sono reso conto che per quanto si tenti di rimanere al passo con il cambiare delle mode, delle abitudini e dello stile di vita, in realtà è giusto e normale che i punti di vista sulla maggior parte delle cose siano diversi: in fin dei conti ci separano trenta, trentacinque e a volte anche quarant’anni, e con la veloce evoluzione della società è quasi impossibile da parte nostra riconoscerci negli interessi, nel modo di vivere e nella realtà dei ragazzini e degli adolescenti, anche a causa dei ritmi diversissimi di vita; un adulto dovrebbe aver raggiunto un equilibrio che i giovani ancora inseguono (il condizionale, come si dice, è d’obbligo), e questo allontana di parecchio il reciproco modo di vedere il mondo.

    Un fatto però mi sembra chiaro ed innegabile: i genitori, chi più chi meno, tentano in diversi modi di capire i propri figli, a volte di giustificarli, cercano di mettersi nei loro panni per interpretare comportamenti o modi di essere che altrimenti sarebbero al di fuori della loro portata mentale… ma quando mai accade che siano i ragazzi a tentare, anche solo minimamente, di capire i genitori? Credo che la risposta sia univoca ed evidente: MAI!

    La responsabilità non è certo dei giovani, pur senza scendere in ambito psicologico si sa benissimo che i ragazzi nascono e crescono manifestando il massimo egoismo e mettendo sé stessi al centro dell’universo; difficilmente arrivano a porsi nei panni di qualcun altro per tentare di capire l’altrui punto di vista, men che meno nei confronti dei genitori. Verrebbe spontaneo chiedersi il perché, e naturalmente ci sono fior di esperti pronti a motivarcelo in ambito pedagogico, evoluzionistico, psicologico e formativo.

    Molto più modestamente, basandomi sulla mia personale esperienza e confrontandomi in numerosi dialoghi familiari, ho iniziato a stilare un elenco di motivi per cui, secondo il mio punto di vista, i nostri figli non riusciranno mai a capire la nostra generazione; quando dico nostra generazione, intendo parlare di persone nate più o meno negli anni Sessanta, gente che come il sottoscritto ha vissuto la propria infanzia nel decennio del boom economico, l’adolescenza negli anni dell’austerity, che ha finito gli studi e iniziato l’attività lavorativa nel periodo dominato dallo yuppismo, ha avuto figli mentre l’Unione Sovietica e la Jugoslavia si disgregavano e li ha cresciuti nel nuovo millennio, che sembrava così lontano quando i bambini eravamo noi.

    Il mondo è cambiato radicalmente, inutile sottolinearlo o elencare le centinaia di avvenimenti successi attorno a noi in questi ultimi cinquant’anni, ma il problema delle incomprensioni tra genitori e figli non dipende certo dalla scissione della Cecoslovacchia e dalle elezioni a presidente di Nelson Mandela o Lech Walesa: ho ritenuto invece di limitare la ricerca alla quotidianità, alle piccole grandi cose che sono cambiate attorno a noi e che hanno influenzato – e stanno tuttora influenzando – i diversi modi di vedere le stesse cose. Quasi senza rendermene conto, l’elencazione di questi eventi ha superato ogni iniziale aspettativa, ed è arrivata a ben 101 motivi che secondo me pongono ostacoli più o meno insormontabili alla capacità dei nostri ragazzi di riconoscersi in noi e nel mondo che per noi è ed è stato assolutamente normale; non pretendo certo di aver esaurito gli argomenti, ed il fatto di aver fissato il limite a 101 altro non è che un modesto omaggio ad un’emittente radiofonica che ascolto spesso, e che proprio per la sua connotazione di radio che trasmette musica del periodo che va dagli anni Settanta ad oggi, a volte ha contribuito a risvegliare ricordi, memorie e aneddoti del passato, oltre ad aver spesso affrontato scherzosamente argomenti che in qualche modo sono serviti per fornirmi spunti utili.

    Del resto questo libro non è e non vuol essere una semplice descrizione delle molte cose che negli anni sono cambiate intorno a noi, modificando la nostra vita con l’avvento della tecnologia e con l’evoluzione della società, né intende rappresentare un nostalgico tuffo nel passato rispolverando vecchi ricordi d’infanzia: l’intenzione è invece quella di creare e stimolare un confronto tra realtà odierne e passate, viste con lo sguardo semiserio di chi tenta di accettare serenamente lo scorrere degli anni pur conservando un piacevolissimo ed intimo ricordo della propria gioventù, iniziata nei primi anni Sessanta e fortunatamente non ancora del tutto finita, almeno per quanto riguarda lo spirito!

    Personalmente sono nato e cresciuto a Domodossola, ridente cittadina resa nota in tutt’Italia da Mike Bongiorno che nei suoi quiz televisivi la usava per puntualizzare la lettera D come Domodossola, ed è naturale che le esperienze della mia giovinezza non collimeranno con quelle di chi è vissuto invece in grandi città o in altre realtà geografiche e sociali, per cui sono certo che non tutti si riconosceranno interamente nei 101 motivi che ora saranno ironicamente elencati, ma credo che ognuno di noi quarantacinque – cinquantacinquenni possa ritrovare una parte di sé e della propria vita in molte delle pagine che seguono, che abbia figli oppure no.

    In fondo, anche senza porsi il problema del gap generazionale, può essere simpatico e gradevole soffermarsi per qualche momento a valutare con serenità quanto il mondo sia cambiato attorno a noi anche nelle piccole cose, nelle abitudini quotidiane e nel modo di affrontare la realtà che ci circonda, con l’aggiunta di alcune curiosità forse poco note che contribuiranno a far conoscere meglio gli argomenti trattati.

    La divisione del testo in capitoli non è assolutamente arbitraria, dato che molti dei motivi descritti avrebbero titolo per comparire indifferentemente in diverse categorie senza essere fuori posto, ma ripartendoli in questo modo è stato molto più semplice catalogarli e riepilogarli, evitando doppioni e rendendo - mi auguro - più fluida la consultazione.

    Buona lettura!

    LA SCUOLA

    La scuola è un’esperienza attraverso la quale siamo passati tutti noi, nati nel dopoguerra: chi limitandosi alla terza media, obbligatoria sin dal 1948 secondo la Costituzione, ma in effetti resa tale solo a partire dal 1962, e chi invece proseguendo fino alle superiori e oltre. Verrebbe da pensare che, proprio per la regolamentazione in vigore ormai da oltre cinquant’anni, le vicende scolastiche dei nostri figli rapportate alle nostre debbano avere più cose in comune che differenze, che le nostre esperienze tra i banchi possano in qualche modo assomigliare a quelle che i ragazzi contemporanei vivono o hanno da poco vissuto.

    In fondo la famosa riforma provvisoria degli esami di maturità varata dal ministro Fiorentino Sullo nel 1969, che aveva introdotto la prova basata su due prove scritte e due orali, con commissione d’esame interamente esterna ed un solo membro interno, e con votazione espressa in sessantesimi, è durata solo fino al 1997; un tale lasso di tempo lascerebbe presumere che i punti in comune tra le varie generazioni siano molteplici e che parlando di scuola non sia possibile incontrare incomprensioni tra genitori e figli, ma basta soffermarsi un attimo per rendersi conto che non è così. La scuola in fondo non è solo esami di maturità, ci sono moltissime sfaccettature che forse meglio del panorama d’insieme ci fanno capire per quale motivo l’argomento scuola è visto con occhi completamente diversi da coloro che sono nati negli anni Sessanta e Settanta rispetto alle nuove generazioni. Vediamo nel dettaglio alcuni punti al riguardo, limitandoci alle scuole primaria e secondaria, vale a dire sino alla fatidica maturità.

    1 – Lo studio della geografia

    Ovvero, la geografia questa sconosciuta! Di fronte a masse di studenti e di giovani che studenti non sono più ma sono transitati dalla scuola pubblica italiana dagli anni Novanta in poi, come trattenere un senso di sconforto nel rendersi conto che la maggior parte di loro non ha la minima cognizione geografica, non sa collocare province, capoluoghi, talvolta persino regioni, per non parlare di geografia europea oppure (orrore!) mondiale?

    Targhe auto

    La nostra normalità, dalle elementari in poi, è stata imparare a memoria le regioni e le province italiane, i capoluoghi, i fiumi, i monti e i laghi, sapendoli posizionare correttamente sulla cartina, per poi passare allo studio – sempre nozionistico – degli stati europei e infine delle nazioni extraeuropee; certo, non tutti alla fine del ciclo scolastico ricordavano di quale stato fosse la capitale Tegucigalpa o erano in grado di individuare il lago Sebino su una cartina, ma la maggior parte di noi aveva la cognizione di dove fosse Aosta rispetto a Bari o Bruxelles rispetto a Praga. Non va dimenticato che l’abbandono della geografia nozionistica - ma istruttiva - è avvenuto ben prima dell’avvento dei GPS sui cellulari, tecnologia che in teoria consente di raggiungere qualsiasi parte del mondo senza però sapere in realtà dove si trovi! Sono perfettamente consapevole che l’abisso di ignoranza in questa materia non sia responsabilità dei nostri pargoli ma dei programmi scolastici che si trovano ad affrontare, però non posso fare a meno di inorridire nel rendermi conto che i miei figli e i loro coetanei brancolano nel buio se gli si chiede in quale regione si trovino Belluno o Matera, per non parlare del fiume Velino o del lago di Lesina; non a caso, suppongo, in molti quiz televisivi si verificano frequentemente domande di geografia che fino a pochi anni fa sarebbero sembrate elementari e che ora mettono in difficoltà fior di laureati.

    A nostro vantaggio nello studio della geografia italiana, occorre riconoscerlo, c’erano le targhe automobilistiche che aiutavano a ricordare almeno i capoluoghi di provincia più comuni o più vicini alla propria residenza: durante i viaggi in autostrada, era spesso quasi un gioco osservare sigle semi sconosciute e cercare di ricordare a quali città appartenessero. Oltretutto la nascita di nuove province era un evento piuttosto raro, nella mia gioventù rammento solo Oristano, Pordenone e Isernia, e sulle strade balzavano all’occhio a causa delle rarissime targhe che iniziavano con lo zero. Con l’avvento delle targhe europee è molto diminuito anche il piacere di questo gioco, reso oltretutto ben più difficile dal diverso sistema di studio scolastico.

    Oggi lo studio di quella che viene chiamata geografia non è più nozionistico, sfogliando un libro di una scuola superiore si leggono argomenti come Lo sviluppo sostenibile o La globalizzazione e lo sviluppo, si studiano la sostenibilità ambientale e la biodiversità anziché le capitali e i fiumi; qualcuno a volte sostiene che in fondo quelle della vecchia materia erano nozioni non così importanti, che non è indispensabile sapere dove si trovino il Mar Cantabrico o il ridente paesino di Pizzighettone, e al di là del piacere della conoscenza generale può anche essere un’opinione in parte condivisibile. Ma osservando la scuola dall’esterno, dopo esserci transitato per tredici anni in cui la geografia era giustamente considerata alla pari delle altre materie, rimango dell’idea che conoscere l’impatto del taglio delle conifere nei Paesi Baltici senza sapere nemmeno lontanamente dove si trovi la Finlandia non sia poi così utile!

    2 – Le interrogazioni a sorpresa

    Questo è un argomento che mi ha sorpreso molto, nel momento in cui ne sono venuto a conoscenza; i miei ricordi scolastici, come suppongo quelli degli altri appartenenti alla mia generazione, sono costellati di ore di lezione vissute con l’ansia - per non dire l’incubo - dell’interrogazione o del compito in classe a sorpresa. Le esercitazioni scritte, che con gli anni si sono trasformate, chissà perché, da compiti in classe in verifiche, erano quasi sempre programmate anche se le sorprese non mancavano, ma per quanto riguarda l’orale la regola era l’improvvisazione, la sorpresa, l’estrazione a sorte dei poveri studenti; preparati o no, eravamo costretti ad avvicinarci alla cattedra col cuore in gola e ad affrontare le domande in attesa del fatidico voto, mentre i compagni scampati potevano tirare un sospiro di sollievo fino alla lezione successiva. Ho però recentemente scoperto che oggi non è più così, che i poveri studenti ora hanno il diritto di sapere con congruo anticipo quando saranno interrogati o quando dovranno sostenere una verifica, così che possano prepararsi a dovere; e dato che una simile agevolazione probabilmente non sembrava sufficiente, hanno introdotto anche il contingentamento degli impegni quotidiani: il regolamento d’istituto di un normale liceo pubblico prevede esplicitamente che ogni alunno ha diritto a non sostenere più di una prova scritta ogni mattina; in caso di prova scritta è consentita una sola prova orale con misurazione; in assenza di prova scritta, l’alunno potrà sostenere fino a un massimo di due interrogazioni orali.

    Se queste regole fossero state valide ai nostri tempi, probabilmente non sarebbe cambiato molto in termini di risultati, poiché chi non aveva voglia di studiare avrebbe comunque preso insufficienze anche in presenza di programmazioni su ogni materia e per ogni giorno; di certo però ci saremmo risparmiati parecchi brutti voti derivati dall’interrogazione a sorpresa capitata proprio nel giorno in cui: Prof, oggi non sono preparato… ieri mia mamma aveva bisogno di aiuto per tagliare il fieno nel campo anche se era gennaio, oppure Eh no, non ho studiato perché si è rotto un tubo dell’acqua e mi si è allagata la casa. Le scuse più fantasiose hanno visto la luce proprio grazie alle interrogazioni a sorpresa, che forse portavano qualche quattro in pagella e qualche sgridata a casa, ma sicuramente stimolavano la fantasia dei ragazzi e insegnavano ad arrampicarsi sugli specchi per il divertimento malcelato dei professori.

    Però non capisco perché si debbano privare i nostri figlioli delle scariche adrenaliniche che percorrevano i nostri giovani corpi quando la professoressa di matematica entrava in classe e pronunciava le fatidiche parole: Oggi interroghiamo!; il panico serpeggiava tra i banchi, lievemente attutito per chi era stato interrogato la volta precedente e aveva quindi meno probabilità di essere scelto e per chi invece aveva avuto l’accortezza di studiare e prepararsi, cioè le solite mosche bianche; proprio questi rari individui, immancabilmente marchiati come secchioni e spesso considerati sfigatelli ai margini della classe, rappresentavano un’insperata ciambella di salvataggio quando l’insegnante, sollevando lo sguardo dal registro e gelando così il sangue nelle vene delle potenziali vittime, magnanimamente chiedeva: Ci sono volontari o devo estrarre a sorte?. Ecco, in quel momento tutti si voltavano verso i secchioni invitandoli, in modo più o meno minaccioso, ad offrirsi quali moderni agnelli sacrificali per salvare dal pericolo della grave insufficienza tutto il resto della classe; ma se il volontario forzato alzava la mano proponendosi e stemperando così momentaneamente la tensione che si era venuta a creare nella classe, inevitabilmente la prof consultava il registro e faceva ripiombare il gelo esclamando: No Rossi, tu no: questo quadrimestre ti sei già offerto volontario tre volte; se non ci sono altri volontari, allora scelgo io!

    Ecco, ripensando a queste situazioni, a queste emozioni sopite ma ancora presenti nel nostro cuore e nei nostri ricordi, mi domando perché i nostri figli non possano viverle anch’essi e debbano rinunciarvi solo in nome della programmazione; volete mettere la soddisfazione di tornare a casa dai genitori ed esclamare: Oggi il prof mi ha interrogato di storia e ho preso 6!, con l’orgoglio di chi ha battuto il record europeo sui 100 metri piani, e di fronte allo sguardo semi-schifato dei genitori, per i quali il sei è ovviamente il minimo sindacale per non tagliare la libera uscita del sabato, anticipare i loro commenti poco gratificanti con un risentito: Ma era un’interrogazione a sorpresa! Sono stato estratto a sorte!; questa giustificazione spesso portava all’ammorbidimento della severa critica genitoriale, che sarebbe invece stata molto più pesante in presenza di interrogazione programmata.

    3 – La cinghia elastica dei libri

    Quasi sicuramente si tratta di un oggetto caduto nel dimenticatoio più profondo anche da parte di chi l’ha usato abitualmente per lungo tempo; ormai soppiantata da molti anni e relegata in remoti cassetti da parte di zainetti di vario genere, la cinghia elastica dei libri ha rappresentato per molte generazioni la quintessenza del minimalismo scolastico, dell’essenzialità e della semplicità.

    Con la stessa cinghia si legavano insieme tre, quattro, cinque libri, l’astuccio e il diario, la dotazione scolastica delle giornate più leggere e di quelle più pesanti, senza preoccuparsi della marca o di possederne una più bella di quella del compagno; non si può certo negare che dal punto di vista pratico i libri tenuti insieme dalla cinghia elastica fossero quanto di più scomodo si possa immaginare per portarsi appresso l’equipaggiamento del giorno, ma l’uso di questo accessorio permetteva un contatto diretto con la carta e soprattutto l’immediata visione delle materie del giorno, rendendo più difficile dimenticarsi qualche libro a casa.

    Non so quanto per i ragazzi d’oggi possa sembrare realistico questo strumento, nel momento in cui i loro zaini – paragonabili spesso per capienza a quelli degli sherpa himalayani – quotidianamente scoppiano per la grande quantità di libri che sono costretti a portare con sé; ipotizzare di far usare loro la cinghia elastica, oltretutto in presenza di quaderni e dotazioni di misure molto diverse tra loro, sarebbe oggi del tutto improponibile, e sinceramente appare difficile far credere loro che noi potessimo usare uno strumento simile. Come accennavo prima, però, ricordi nostalgici a parte, bisogna ammettere che la cinghia elastica era di una scomodità difficilmente ripetibile e decisamente poco pratica; nelle giornate più impegnative, poteva capitare di dover portare a scuola cinque o sei libri, due o tre quaderni, il diario e l’astuccio, ed il volume e il peso di questo equipaggiamento stretto nella cinghia erano decisamente notevoli.

    Il pacco andava naturalmente retto con un braccio solo, quasi sempre appoggiandone la base al petto per distribuire il peso, e lungo il tragitto casa – scuola era necessario cambiare frequentemente il braccio per evitare anchilosamenti artrosici, che peraltro si verificavano comunque in entrambe le braccia, fino ad arrivare ad appoggiare sul banco una massa di libri che sembrava pesare più del doppio di quando si era partiti! Eppure quasi tutti usavamo la cinghia elastica, nonostante esistessero in vendita altri strumenti sicuramente più pratici, ma ricordo che le divisioni erano abbastanza nette: alle elementari si usava la cartella, antesignana dello zainetto poiché si portava sulle spalle ma riservata ai bambini piccoli, utile per i pochi libri allora necessari; le più lussuose avevano la parte superiore ricoperta di pelo raso, spesso maculato. Alle medie si passava alla tracolla, un po’ meno pratica ma simbolo del passaggio alla fascia intermedia degli studi, che quand’era particolarmente piena di libri procurava il rischio di pericolosi sbilanciamenti laterali nella colonna vertebrale ancora in crescita. Col passaggio alle scuole superiori si abbandonava anche la tracolla per passare alla fatidica cinghia elastica, finalmente adulti ma maledettamente scomodi e perennemente soggetti al rischio, che si verificava spesso, della caduta rovinosa dei libri che non sempre erano mantenuti così in ordine da rimanere bloccati all’interno di quella fascia che ci ha accompagnati per anni.

    Ecco, pur avendo un sentimento di simpatia per la cinghia elastica che ha legato i miei libri durante l’adolescenza, sono fermamente convinto che in questo caso gli strumenti a disposizione oggi dei nostri figli siano decisamente più pratici e comodi!

    GIOCHI E SPORT

    Credo che i giochi siano una delle attività umane che più hanno subìto mutamenti e trasformazioni nel corso delle generazioni che hanno separato noi cinquantenni (o giù di lì) e i ragazzi d’oggi; in molti casi, infatti, i giochi che facevamo da ragazzi erano più o meno gli stessi che avevano fatto i nostri fratelli maggiori e – prima ancora – i nostri genitori, ma difficilmente si vedono oggi i nostri figli dedicarsi con lo stesso ingenuo divertimento ad attività ludiche all’aperto. Del resto in molte realtà cittadine odierne sarebbe impensabile giocare in strada o in prati ormai inesistenti e trasformati in villette a schiera o condomini.

    Buona parte del nostro tempo libero, dall’infanzia all’adolescenza, trascorreva all’aperto, soprattutto in estate ma non solo, e molto spesso in gruppi alquanto numerosi di ragazzi della stessa fascia d’età, frequentemente divisi tra maschietti e femminucce; coloro che, come il sottoscritto, hanno avuto la fortuna di crescere in una città di modeste dimensioni circondata da prati e boschi, ricorderanno senz’altro interi pomeriggi passati in bicicletta nei sentieri che fungevano da scorciatoia per andare a casa degli amici, lunghissime partite a pallone giocate in ogni spazio superiore ai venti metri quadrati e ginocchia sbucciate per almeno otto mesi all’anno; vero è che anche le cittadine come quella in cui sono nato e cresciuto oggi offrono ormai ben pochi spazi disponibili per giochi di quel tipo, ed i sentieri che attraversavano i prati sono ormai scomparsi insieme ai prati stessi, ma vedo che i ragazzi d’oggi trascorrono molto meno tempo all’aperto, e raccontare ai nostri figli che per noi era normale arrampicarci sugli alberi provoca solamente sguardi perplessi, mentre nelle loro testoline ci immaginano probabilmente come tanti Tarzan cresciuti in mezzo alla giungla selvaggia…

    4 – I giochi in cortile

    Come accennavo nella presentazione dell’argomento, chi è stato ragazzo negli anni Sessanta ricorda sicuramente di aver trascorso la maggior parte dei pomeriggi senza pioggia all’aperto, in cortili, prati, strade o boschi, a giocare a qualsiasi cosa la fantasia ci suggerisse; ogni garage poteva diventare una porta da calcio, ogni cancello o recinzione una rete da pallavolo e ogni davanzale un canestro da basket. I giochi con la palla, per i maschietti, erano naturalmente i più diffusi, ma come dimenticare le mitiche partite a biglie o le interminabili sfide a nascondino, durante le quali si inventavano posti improbabili dove nascondersi?

    Oggi come oggi sembra di raccontare una storia fantastica se si cerca di spiegare ai nostri ragazzi che, dopo aver svolto i compiti - a volte invece di svolgerli, ma su questo argomento è meglio glissare - noi trascorrevamo i pomeriggi in cortile a giocare a pallone, uno contro uno o due contro due quando si era in numero pari oppure con portiere unico quando si era dispari; e come spiegare loro che, quando invece si era in tanti e si riusciva a giocare in un campetto più o meno praticabile, le squadre si facevano con la conta o scegliendo i giocatori con un sano pari o dispari tra i due capisquadra? Sono ragionevolmente certo che la maggior parte dei bimbi d’oggi non sappia nemmeno cosa sia una conta, mentre per noi era normale conoscerne a memoria almeno tre o quattro (sette, quattordici, ventuno, ventotto… o sotto il ponte ci son tre bombe… sono incipit che teniamo sepolti in angoli remoti della memoria), ma quei pomeriggi di giochi fini a sé stessi e che quasi mai sfociavano in litigi rappresentavano per noi un gran divertimento, con qualche livido sugli stinchi come unica conseguenza.

    Nei giochi in cortile, soprattutto nel periodo delle elementari, la divisione tra maschi e femmine era spesso molto netta proprio per le diverse tipologie di giochi che si preferiva fare: pallone, biglie e acrobazie con la bicicletta erano assoluto retaggio dei bambini, mentre settimana, elastico e rubabandiera erano i preferiti dalle bambine, così come anche la palla di plastica legata con un filo ad un cerchietto da infilare nella caviglia, facendola poi roteare con un piede e saltandola con l’altro; non mi risulta che quest’ultimo gioco avesse un vero e proprio nome, ma vale la pena comunque di ricordare che la canzone Palla, pallina di Rita Pavone del 1968 era un brano pensato proprio per pubblicizzare questo passatempo come alternativa alla più tradizionale corda da saltare, anche se non si può dire abbia scritto una pagina indelebile della storia della musica. Nascondino, i quattro cantoni, prendersi o palla avvelenata erano invece giochi diffusi sia tra maschietti che tra femminucce, che però difficilmente giocavano insieme.

    Soprattutto fino ai 12 – 13 anni non esisteva il concetto di squadra, ogni volta ci si mescolava perché l’importante non era certo vincere la partitella ma correre dietro a un pallone e sentirsi un novello Mazzola o Altafini (ebbene sì, ragazzi: ci sono stati calciatori famosissimi anche prima di Balotelli e Higuain!); diverso era invece il caso della partita a biglie, che solitamente era possibile fare nei cortili sterrati dove si poteva scavare una buchetta e dove non cresceva l’erba: le biglie scatenavano l’agonismo più sfrenato, poiché quasi sempre ci si giocavano le biglie stesse! Il vincitore si prendeva come bottino le preziose sferette dell’avversario, e allora vincere diventava fondamentale; in quel periodo le più diffuse erano in vetro con all’interno delle lamine colorate, ma quasi tutti eravamo affascinati dalle marmorine che non erano trasparenti ma bianche con striscioline di colore.

    Solitamente si cercava di convincere i genitori a comprarci un sacchetto con una ventina di biglie, come i giocatori d’azzardo al casinò iniziano con una manciata di fiches, e con quelle si dava l’assalto alle dotazioni degli amici cercando di vincerne il più possibile; ricordo amici poco abili costretti a comprare sacchetti nuovi ogni due o tre mesi, e altri più esperti crearsi un bottino di centinaia di biglie multicolori.

    Oggi certamente i giovanissimi hanno meno spazio disponibile, prati e boschi sono sempre meno vicini alle case e le strade – dove a volte capitava di dare due calci a un pallone, nelle zone periferiche ben poco trafficate – non consentono quasi di camminare in sicurezza, figuriamoci di giocare; cortili però ce ne sono ancora parecchi, nelle zone residenziali tutte le villette hanno uno spazio esterno più o meno grande, ma solo raramente si vedono bambini giocare all’aperto e sicuramente non per tutto il pomeriggio come invece capitava a noi!

    5 – I giochi in spiaggia

    Sempre di giochi all’aperto si tratta, ma credo sia giusto riservare un capitolo a parte ai giochi da spiaggia, o - meglio - ai giochi prettamente estivi; forse in questo caso ci sono alcune attività che possono sembrare quasi normali anche ai nostri figli, ma temo che la maggior parte dei passatempi che riempivano le nostre estati siano quasi inconcepibili per i ragazzi d’oggi.

    Il gioco in spiaggia per eccellenza era naturalmente la pista delle biglie, lungo la quale si sono consumate sfide epiche tra amicizie sorte sotto gli ombrelloni degli stabilimenti balneari: il più piccolino era designato a tracciare la pista, sedendosi a terra e abbracciandosi le gambe con le braccia, mentre il più grosso del gruppo si occupava di afferrarlo per le caviglie e di tirarlo lungo l’arenile scavando col sedere una traccia più o meno lunga e ricca di curve, che poi veniva rifinita inumidendo il fondo e i bordi per rendere più compatta la pista evitando che la sabbia fine ostruisse il percorso; certo, stiamo parlando di anni in cui le spiagge non erano eccessivamente affollate e si poteva quindi spaziare costruendo piste che occupavano anche diversi metri quadri, ma la realizzazione di un percorso accurato richiedeva parecchio tempo, e si iniziava la gara solo quando si era sicuri che la sabbia avrebbe tenuto per tutta la durata della sfida. L’unico limite alla varietà della pista era dato dalla fantasia, visto che il materiale consentiva di sviluppare ogni difficoltà si volesse: le curve paraboliche non mancavano mai, e poi tunnel, strettoie, salti e a volte anche buche, giusto per complicarsi la vita e rendere la gara ancora più avvincente e il vincitore più soddisfatto della propria bravura. Le biglie erano rigorosamente con le immagini dei ciclisti, e anche chi non si interessava a quello sport conosceva benissimo i vari Gimondi, Bitossi, Merckx e Adorni; non mi sono mai spiegato il motivo per cui, nonostante lo sport nazionale italiano sia sempre stato il calcio, e tutti (o quasi) i ragazzini conoscessero benissimo i campioni dell’epoca come Gigi Riva, Rivera o Albertosi, le biglie da spiaggia contenessero solamente immagini di ciclisti che senza quel particolarissimo tipo di pubblicità sarebbero rimasti noti solo agli appassionati delle due ruote.

    Bocce e piattine da spiaggia

    Logica conseguenza dei lunghi pomeriggi passati a giocare a biglie, era la caratteristica abbronzatura differenziata, che consisteva nella schiena scurissima e spesso scottata dal sole, mentre il petto e il viso rimanevano pallidini perché sempre rivolti a terra a seguire i propri campioni rotolare lungo la pista. Quando oggi vedo ragazzini in spiaggia seduti sulla sdraio a giocare col telefonino o con qualche altro giochino elettronico, devo ammettere che un po’ mi viene la tentazione di tracciare una pista e realizzare una partitona di biglie… ma non so nemmeno se esistono ancora e ormai ho le dita fuori esercizio!

    Se la gara con le biglie dei ciclisti era forse il più classico dei giochi da spiaggia, i lunghi pomeriggi assolati trascorrevano anche con partite a bocce o a piastrelle, curiosi cerchietti di plastica colorati con i quali si giocava secondo lo stesso principio delle bocce: con le piattine del proprio colore occorreva avvicinarsi il più possibile ad un boccino generalmente bianco, cercando di fare più punti possibile; la forma piatta consentiva a volte di sovrapporsi direttamente al boccino, rendendo così impossibile per l’avversario togliere il punto.

    Un problema specifico di questo tipo di gioco era rappresentato dalla forma delle piastrelle, così piatte e soggette a sprofondare nella sabbia: succedeva spesso di dover rovistare a lungo per recuperarne alcune particolarmente affondate, cosa che per fortuna non succedeva con le tradizionali bocce sferiche, anch’esse molto usate sulla spiaggia per interminabili tornei e disfide sotto il sole cocente! Per quanto semplici, questi giochi erano capaci di tenerci impegnati per ore con veri e propri tornei, ma il tentativo di spiegare ora ai miei figli come questi passatempi fossero piacevoli e divertenti provoca solo qualche occhiata peculiare da parte loro.

    Altri giochi usati frequentemente d’estate, anche se non prettamente da spiaggia ma comunque sempre alquanto impensabili per i nostri tecnologici figlioli, erano per esempio le palline clic-clac e il going: ho visto ragazzi e ragazze passare ore con questi divertimenti, il primo solitario e il secondo di coppia, ma non so quanto tempo potrebbero dedicare loro i ragazzi del post 2000; le palline clic-clac, gioco dal nome evidentemente onomatopeico, erano composte da due sfere di plastica dura piuttosto pesanti, attaccate con un filo ad un supporto da impugnare tra le dita per poi dare vita ad un rapido movimento verticale che doveva portare le palline a sbattere una contro l’altra, sopra e sotto la mano, con la massima velocità possibile. Il nome più adatto sarebbe stato clic-clac, tump, ahia, visto che molto sovente il ritmico battere delle due sferette era interrotto dal suono sordo della mano colpita con violenza da una o da entrambe le palline, seguito dal grido di dolore che il colpo provocava; sembra un gioco futile, visto con gli occhi di oggi, ma ai tempi era veramente diffusissimo e molto praticato, come testimoniavano molti lividi sui polsi!

    Molto più innocuo e meno rischioso era invece il going, una sorta di palla ovale attraverso la quale passavano due lunghe corde alle cui estremità erano fissate delle maniglie: scopo del gioco, da effettuarsi evidentemente in coppia, era quello di far scorrere la palla lungo le corde allargando con decisione le braccia e allontanando così le manopole, mentre all’altra estremità il secondo giocatore doveva contemporaneamente chiuderle lasciando avvicinare il going, per poi fare il movimento inverso e così via; con un po’ di pratica, si potevano vedere numerosi scorrimenti della palla da un lato all’altro, ma prima di acquisire il giusto ritmo erano molte più le volte in cui il going rimaneva tristemente incagliato a metà percorso, per la scarsa coordinazione dei due giocatori. A partire da metà degli anni Settanta si è poi diffuso anche il frisbee, altro gioco che presupponeva spazi abbastanza ampi che all’epoca esistevano su buona parte delle spiagge, e tra i tanti passatempi estivi di quel periodo si tratta forse di quello che più di ogni altro ha resistito negli anni senza subire particolare modifiche, anche se oggi è sicuramente meno diffuso di qualche decennio fa.

    E come dimenticare gli sparapalline, quei due conoidi di plastica alla cui base era presente un pulsante da schiacciare per far scattare una molla all’interno che sparava con (relativa) forza una pallina da ping pong verso l’altro giocatore, il quale doveva catturarla col proprio attrezzo per rispedirla nuovamente all’avversario, e così via; in realtà non è corretto parlare di avversario, poiché quasi mai si conteggiavano i punti o si stabilivano regole certe per giocare, semplicemente si passava il tempo cercando di affinare la propria abilità nel prendere al volo la pallina, e col vento l’impresa non era per niente semplice! Difficilmente questi aggeggi riuscivano a raggiungere la fine della stagione estiva, generalmente la molla interna o il pulsantone cedevano di schianto dopo alcune ore di gioco, oppure le due palline in dotazione finivano schiacciate sotto

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