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New Cutting System: Non un mestiere, ma un'arte
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E-book117 pagine1 ora

New Cutting System: Non un mestiere, ma un'arte

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Info su questo ebook

Ero sempre per strada a giocare, in quell'inverno della mia seconda elementare. Riccardo del Turco vinceva il Festival di Sanremo con Luglio, una canzone che è rimasta stranamente legata ai primi ricordi della mia vita professionale. Non solo perché il mio primo titolare comprò il disco per regalarlo al fratello emigrato, ma anche perché, proprio in quell'anno, nonno Filippo, il nonno materno del quale ero indisputabilmente il punto debole, per togliermi dalla strada mi portò con sé dal suo barbiere. E stato in quel momento che è nata la mia passione.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2021
ISBN9791220802406
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    Anteprima del libro

    New Cutting System - Filippo Matalone

    figlie.

    1.

    Pensare fuori dagli schemi

    Le condizioni per la creatività si devono intrecciare:

    bisogna concentrarsi. Accettare conflitti e tensioni.

    Rinascere ogni giorno. Provare un senso di sé.

    Erich Fromm

    Sono nato a Molochio. E nascere a Molochio, negli anni in cui sono nato io, era quasi come nascere sulla luna. E lo dico con cognizione di causa: quando ho visto il famigerato atterraggio dell’Apollo 11, sarà che ero costretto a letto da una lunga malattia e la fantasia mi portava in luoghi in cui le gambe non potevano, la luna non mi è davvero sembrata così diversa, così aliena rispetto alla mia realtà.

    Chiunque sia nato in un piccolo centro sa che c’è un’abbondanza di calore umano e una carenza di collegamenti con l’esterno. Ripiegati sul proprio ombelico, per gli abitanti di un paese le notizie apprese dalla vicina assumono più importanza della prima pagina dei giornali. È questa la vera sostanza di quel calore italiano celebrato in tutto il mondo, l’attenzione, l’interesse sano per le persone.

    Vale per la vita privata, per quella pubblica, e anche per la formazione professionale: non esistevano scuole, il lavoro si imparava andando a bottega, cioè facendosi prendere sotto le amorevoli – a volte amorevoli, a volte meno a dire il vero, ma io sono stato fortunato – cure di un professionista ormai avviato, che trasmetteva il proprio sapere offrendo formazione in cambio di lavoro. Oggi si chiama tirocinio, ma anche se ha assunto un nome istituzionale, la sostanza non cambia.

    Quando ho cominciato a viaggiare ho scoperto che all’estero non funziona così. All’estero i giovani vengono assunti e pagati, imparano il mestiere per il tempo necessario e poi si spostano, senza mantenere alcun legame con il luogo in cui sono nati come professionisti. Manca quel rapporto umano che fa dell’apprendista un vero e proprio allievo. In Italia, che si tratti di un piccolo centro o di una grande metropoli, essere stato allievo di è un marchio di fabbrica, spesso una garanzia di qualità.

    La trasmissione del sapere, in poche parole, assume una dimensione umana che in qualche misura soppianta anche il salario – non sempre i giovani presi a bottega venivano pagati – ma che lo compensa con qualcosa di più grande. Si tratta della stessa narrazione orale che fa sopravvivere il nostro artigianato, le nostre tradizioni. Andando a bottega si acquisisce un metodo che è unico, perché è quello del proprio maestro, ma anche una visione della vita, un modo di relazionarsi con i clienti. Si ottiene, in poche parole, molto di più che il semplice imparare a fare un taglio ai capelli (cosa che, per la cronaca, non è affatto semplice, anzi).

    Questo è qualcosa che ho cercato di portare anche nella mia scuola. Nonostante si tratti, ormai, di un grande centro di formazione, ho cercato e cerco di portare ogni giorno, lezione dopo lezione, la stessa atmosfera, perché quella ricchezza data da questo modo speciale di trasmettere il sapere che abbiamo noi italiani non andasse perduta, e perché anche i miei studenti potessero dirsi allievi di.

    Ma questa è un’altra storia.

    Ora, invece, voglio parlare della mia formazione, e di come in realtà di maestri ne abbia avuti più di uno. Incluso, e forse soprattutto, me stesso.

    Lo studio per corrispondenza

    Come dicevo, sono nato a Molochio, il 22 Agosto 1960 per la precisione. I miei genitori, che oggi hanno raggiunto la ragguardevole età di 80 anni, stanno finalmente godendosi una serena vecchiaia lontani dalle tribolazioni, coccolati dall’affetto di noi figli. Ma nel 1960 non era così. In quegli anni la mia era una famiglia composta da mio padre, mia madre e ben cinque figli – io sono il secondo, tre sarebbero venuti poco dopo di me – che spesso lottava contro i soldi che non bastavano mai.

    Per questo, prima ancora di entrare a bottega dal barbiere che mi aveva fatto scoprire nonno Filippo, già alternavo la scuola al lavoro. E con un incarico di responsabilità, prestigioso addirittura, specie agli occhi di un bambino. Ero, infatti, il braccio destro di mio padre. Funzionava così nelle famiglie modeste: appena si era abbastanza grandi si andava ad aiutare i genitori. I figli non erano così solo bocche da sfamare, ma un vero e proprio sostegno – chi con una piccola paga, chi, come me, aiutando fisicamente – per la famiglia.

    Vorrei poter dire che da piccolo ho sempre e solo aiutato i miei genitori, e vorrei sinceramente aver fatto di più per loro. Tuttavia, così non è stato e anzi, ancora oggi se penso a tutti i sacrifici che hanno fatto in quegli anni mi si riempie il cuore di gratitudine. Posso però dire che non è stata colpa mia, anzi. È successo nell’inverno dei miei nove anni. A quell’epoca – come purtroppo anche oggi – durante l’inverno si diffondevano delle brutte pandemie influenzali. Poiché quello era l’anno dello sbarco dell’Apollo 11, l’influenza che ho preso era chiamata la spaziale, un curioso omaggio a quella famigerata passeggiata sulla luna. Un po’ fuori dal comune, abbastanza da meritare un appellativo così pomposo, quella malattia lo era: ha costretto a letto, infatti, ben 13 milioni di italiani.

    Si trattava di un’influenza non troppo grave, ma che nel mio caso ha coinvolto, per fortuna solo marginalmente, anche una parte del cervello. In conseguenza di ciò, non appena la temperatura saliva, la luce cominciava a darmi fastidio e la testa diventava come annebbiata, la sentivo letteralmente sulle nuvole. Inoltre, mentre di solito non si sta a casa con la febbre più di una settimana, nel mio caso non tornavo mai a sentirmi completamente bene prima di una quindicina di giorni.

    In quei momenti stavo a letto e passavo il tempo a leggere e guardare la televisione. Una cosa di cui sono infinitamente grato ai miei genitori è che, anche se a volte ci mancava persino l’essenziale, a noi figli non è mai mancato quello che in altre famiglie veniva considerato il superfluo. A quei tempi, per un ragazzino nato in una famiglia modesta non era così scontato trovare da leggere in casa, ed erano ancora molti coloro che, per vedere la televisione, si riunivano davanti all’unico apparecchio del paese: quello del bar in piazza. Noi cinque invece abbiamo sempre ricevuto una buona dose di stimoli culturali.

    Una vera fortuna, e nel mio caso una fortuna doppia, dal momento che la malattia mi ha tenuto per molto tempo lontano dalla scuola. Ero più che giustificato, certo, e questo mi ha permesso di riprendere poi la scuola dell’obbligo e anche portarla a termine con ottimi risultati, ma ancora oggi sento che quella lacuna pesa in qualche modo su di me. L’influenza non è andata mai via completamente finché non ho compiuto 15 anni – per la gioia del medico che l’aveva predetto: con lo sviluppo passerà tutto – ma ho dovuto fare per altri tre anni una lunga cura a base di iniezioni di sostanza celebrale, ben dodici punture al mese.

    Detta così, sembra che io stessi a casa con l’influenza, ma in realtà la malattia mi metteva davvero in ginocchio, a volte proprio letteralmente. Ricordo che un giorno, avrò avuto dieci anni, ero in campagna con il nonno Filippo al quale piaceva portarmi a passeggiare per i campi, e l’infiammazione mi è salita in modo brusco e molto acuto. Mi sono messo in ginocchio per terra a piangere dal dolore, e il nonno non sapeva cosa fare. Tutto il paese pregava perché guarissi. Questo mi ha portato a perdere diversi anni di scuola, ad esempio in quarta elementare mi sono dovuto ritirare, e la quinta l’ho frequentata da esterno. Tuttavia, i miei professori si accorgevano che, quando stavo bene, ero davvero volenteroso, tanto che alle medie mi sono state poi consigliate le scuole serali, e anche lì ho ricevuto davvero molto supporto.

    Insomma, con una formazione, sia scolastica che professionale, che ha avuto un esordio del genere, mi reputo davvero fortunato ad aver esaudito tutti i miei sogni di bambino.

    Ma questo dipende anche dalla mia tenacia. Quando stavo bene, infatti, non solo andavo a scuola, ma continuavo il mio apprendistato presso la bottega del barbiere di nonno Filippo prima, e poi seguendo il primo collaboratore del barbiere quando ha voluto mettersi in proprio e mi ha preso con sé.

    C’è da dire che, oltre ai miei genitori, oggi riconosco di dovere

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