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Hassan - Il rinnegato: Il Sardo che si fece Re
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E-book404 pagine5 ore

Hassan - Il rinnegato: Il Sardo che si fece Re

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Info su questo ebook

Vivere nel 1500 era difficile, specialmente in una terra martoriata, oppressa e sfruttata come la Sardegna. Tenuti sotto il giogo aragonese, i pochi sardi scampati alla peste e alle guerre contro l’invasore, vivevano oppressi, nel terrore del nuovo pericolo che era sorto dal mare: i pirati Barbareschi.
Matteo, giovane pastore, incontra il suo incubo in una notte d’estate, quando viene rapito da Khayr el Din in persona, il famoso Barbarossa. Col tempo si accorge che non tutto quello che si diceva degli “infedeli” corrispondeva a verità e inizia la sua riscossa sociale, al fianco del suo rapitore che lo alleva come un figlio. Da pastorello sporco e ignorante riesce a diventare un potente, istruito e ricco capitano, e poi un Re tanto potente da sconfiggere persino Carlo V di Spagna e il suo potentissimo esercito. Questa è la storia di un piccolo sardo, realmente esistito, che ha scritto sul mare e ad Algeri, un pezzo di Storia d’Europa.
LinguaItaliano
Data di uscita2 feb 2023
ISBN9788898738342
Hassan - Il rinnegato: Il Sardo che si fece Re

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    Anteprima del libro

    Hassan - Il rinnegato - Salvatore Barrocu

    SALVATORE BARROCU

    HASSAN

    IL RINNEGATO

    IL SARDO CHE DIVENNE RE

    AmicoLibro

    Salvatore Barrocu

    Hassan, il rinnegato

    il sardo che divenne re

    Proprietà letteraria riservata

    l'opera è frutto dell’ingegno dell'autore

    © 2014 AmicoLibro

    via Oberdan 2

    75024 Montescaglioso (MT)

    www.amicolibro.eu

    info@amicolibro.eu

    Prima Edizione digitale

    maggio 2014

    Dedicato a Giovanni, che ha navigato oltre l’orizzonte prima di tutti noi. Ma l’orizzonte, si sa, è solo un’illusione e un giorno vedrai le nostre vele raggiungere la tua, nell’illusione di conoscere l’ignoto mare.

    INTRODUZIONE

    Questa è una storia di mare.

     Quel mare che attira le vite, le illude e poi se ne ciba. È dedicato alle navi, le flotte e le vite che Lui ha inghiottito e a quelle che, come un pasto mal digerito, ha risputato sulle rive abitate. Impassibile e immutabile, come un’eterna domanda per uomini curiosi e coraggiosi, lambisce le coste, da millenni, accarezzandole con le sue onde, a volte colpendole con violenza inaudita.

    Sempre presente, nelle menti di chi ne trae vita o morte. Sempre preda di chi arrogantemente lo proclama proprio.

    Ma il mare segue solo le proprie leggi. Lascia che qualcuno lo percorra orgoglioso, ma alla fine è il suo capriccio che decide la sorte di chi lo naviga e, a volte, il destino di interi regni. Quanti popoli ebbero l’illusoria certezza di essere i suoi padroni, partendo da lembi di terra sempre in bilico tra cielo e mare.

    Chissà quante genti, prima di Greci, Fenici, Romani, Bizantini e poi Normanni, Veneziani, Spagnoli, Genovesi si illusero di possedere quello spazio che l’uomo non riusciva a concepire libero da signorie.

    Tracciando rotte e vantando poteri, come se fossero Dei, uomini su piccole navi di legno avevano creduto di essersi appropriati dell’acqua e del vento, per venire poi sostituiti da altri popoli, altre navi.

    Come chi li aveva preceduti: erano solo dei piccoli esseri persi nella potenza delle onde, anche se convinti scioccamente di comandarle.

    Ecco! Questa è la storia di uno tra molti, che segnò il mare con la scia delle sue navi, lo amò e odiò; visse la sua vita e alla fine morì, negli occhi sempre la vista del mare. E se ha lasciato traccia di sé, è ormai null’altro che il ricordo di un’onda infranta contro uno scoglio; una tra miliardi, per il mare eterno.

    Il nuovo padrone

    C’era un altro popolo che proclamava la sua signoria sull’immensa distesa salata, e che solcava i suoi sentieri con piccole navi veloci come il vento. Diverso da tutti quelli che lo avevano preceduto, ma solo nel giudizio di chi avesse nutrito interesse verso la storia di quegli esseri chiamati uomini.

    Uomini liberi, che del mare avevano fatto la loro patria, amandolo e rinunciando alle loro cento nazionalità di nascita, negando i vincoli che solo la terra crea agli uomini.

    In molti casi avevano rinunciato anche al proprio Dio per abbracciare la religione che li aveva riscattati da una vita di soprusi: il mare, che aveva dato loro la libertà. Erano un popolo nato dalla volontà. Forse l’unica discriminante che distingue i popoli dalle razze. Venivano da mille luoghi.

    Erano i Barbareschi: pirati per i re Europei, combattenti della fede per l’Islam.

    In realtà, combattevano solo per se stessi, prendendo quello che volevano da tutti, senza temere altri che i condottieri da loro stessi scelti e i re da loro incoronati.

    Ogni nave era un regno che per confine aveva solo l’orizzonte. Essi dominavano il Mediterraneo, con le loro leggi di sangue e di fuoco; erano una continua sfida a ogni re, cristiano o arabo che fosse, e minaccia per tutte le coste.

    Un nuovo inizio

    L’estate era calda, come sempre, sull’isola dell’Asinara. Un’appendice di terra che si estendeva, allungata come un gatto al sole, a nord-ovest della Sardegna, dividendo il mare profondo che si affacciava sulla Spagna dal golfo meno profondo che da lei prende il nome. L’implacabile martellare dei raggi del sole annichiliva ogni attività sulla terraferma, lasciandone al ronzio dei mosconi e al profumo del cisto e del lentisco il dominio assoluto.

    I pochi abitanti che dall’Isola Grande si erano spinti su quel dito di terra, affrontando il rischio delle incursioni barbaresche che flagellavano tutte le coste, non erano felici di dover lasciare la sicurezza delle torri costiere e delle mura delle città per far pascolare poche pecore e capre.

    Era ormai passato il tempo in cui un valente ammiraglio, diventato poi Giudice e assassinato da un traditore insieme alla figlia, dominava e proteggeva questi mari, con navi, gente e armi sarde.

    Il nuovo padrone Spagnolo - che aveva vinto solo grazie alla peste e al tradimento - aveva bisogno di soldi; per cui i sardi, decimati e disuniti, erano costretti a pascolare le greggi per i loro signori al di fuori di ogni protezione.

    Matteo era solo un bambino. Aveva otto anni e una famiglia numerosa che da Sassari, al servizio di un Conte Spagnolo, doveva spostarsi per mesi, seguendo le greggi, attraverso gli ampi possedimenti dello straniero.

    Nonostante fosse solo un bambino, quell’estate degli inizi del 1500, era toccato a lui lasciare le corti sporche ma amichevoli della città murata per recarsi sull’isola a pascolare il gregge del nobile, dato che il padre era impegnato nella transumanza.

    La madre era stata una bella donna, come molte sue conterranee invecchiata anzitempo. Senza sprecare parole, gli aveva preparato una bisaccia con pane, formaggio e olive: vivande che dovevano bastargli per un mese, sacrificando molta parte delle scorte destinate agli altri bambini.

    Così Matteo, il più grande dei figli, fu costretto a lasciare i giochi con gli amici, tra le stradine puzzolenti di sterco e urina, odori che si mischiavano con il profumo dei fichi che crescevano nei cento giardini dietro le basse casupole, nella parte piana della città. Là dove nel minaccioso castello l’invasore dominava col terrore, con i cannoni sempre puntati sul popolo nemico.

    Fino a che qualche anima gentile non gli avesse portato altro cibo o non fosse venuto il padre, dai monti lontani a prenderlo, avrebbe sorvegliato un piccolo gregge di capre, lontano da tutti, vivendo con la sola compagnia di un cane o dei rari visitatori che comunque era meglio evitare: quel bambino di otto anni, grazioso e sano, era una tentazione irresistibile per pastori abituati e costretti a godere solo delle pecore o, peggio, per i razziatori che venivano dal mare, oggetto dei terrificanti racconti invernali.

    La natura avrebbe provveduto, con i suoi frutti, a mantenerlo in vita, integrando le scorte che aveva con sé. Tutti i consigli datigli dalla madre vertevano attorno a un’unica esortazione. Diffida di tutti!

    Matteo aveva imparato presto, a riconoscere erbe e bacche commestibili, e all’Asinara la frutta abbondava. E le raccomandazioni dei genitori, oltre alle mille battaglie combattute per le strade pericolose di Sassari, gli avevano insegnato che, se voleva vivere, avrebbe dovuto combattere. Unghie, denti, bastoni e coltello; questo gli aveva insegnato il padre, a usare ogni arma per sopravvivere, e a non temere di fare del male a chi ne avesse voluto fare a lui.

    Vai figlio mio.

    Queste parole e il ricordo della madre, in piedi davanti alla soglia della bassa casa di fango e mattoni, con il fratellino più piccolo attaccato alla sua lunga gonna nera, furono gli unici ricordi che poté portare con sé, mentre la carretta inviata dal feudatario lo caricava per trascinarlo al porto.

    Una lacrima solitaria, subito cancellata da un rabbioso gesto della mano, fu forse il suo unico addio a quelli che amava. Distante una decina di chilometri, il porto si raggiungeva passando per una strada sconnessa e bruciata dal sole che attraversava immensi boschi di ulivi.

    Dopo un viaggio nell’aria soffocante, con la polvere che si attaccava alla pelle, abbracciato alla sua bisaccia nel retro del carro, con la sola compagnia delle urla e della frusta del carrettiere, finalmente giunse la frescura del mare. Con gli occhi spalancati e nel naso l’odore salmastro delle onde, abbandonò la vista delle rovine della città romana. Guardò il piccolo molo. Il mondo alle sue spalle svanì in un secondo, alla vista delle barche che dondolavano sull’acqua, piccole come miniature in confronto alla grandezza del mare.

    Il bambino lo aveva già visto dalla sua città, in lontananza; ma la rassicurante separazione, ora, non esisteva più, e il solo pensiero di salire su uno di quei gusci di legno lo faceva tremare di paura.

    "Andiamo piccolo, scendi che ti aspettano. Ajò!" lo esortò il carrettiere.

    Aveva anche lui dei figli, e non fu burbero come i tre pescatori che lo attendevano sulla barca.

    Muovi il culo, che abbiamo perso troppo tempo per te! disse un uomo, marrone come il cuoio, cotto dal sole e con mille rughe sul volto che lo rendevano una maschera terrorizzante.

    I muscoli sodi, lucidi per il sudore, gli guizzavano sotto la pelle, mentre si issava dalla barca sul molo, per prendere in consegna il passeggero. Gli altri due marinai si limitarono a grugnire, masticando bestemmie, mentre adempivano svogliatamente alle attività che precedevano ogni partenza.

    La barca, come l’isola e Cala Oliva, unico posto dove c’erano poche case e qualche essere umano, apparteneva al Conte, come i suoi abitanti. Il piccolo passeggero fu trattato come una merce di proprietà. Sistemato a poppa, fu ignorato dai tre uomini dell’equipaggio che avevano dovuto rinunciare alla pesca per lui.

    Avrebbero volentieri gettato a mare Matteo e i pochi sacchi di farina e fagioli che trasportavano, ma il Conte, loro padrone, dispensava punizioni e morte con la leggerezza di chi non è mai stato punito e la morte l’ha vista solo da lontano. Non potendosi ribellare, sfogavano il loro astio sul piccolo passeggero, lasciandolo infradiciare dalle onde e non parlandogli nemmeno quando lo videro vomitare.

    La terra si allontanava e il carrettiere, sul molo, caricava cassette di pesce appena pescato per portarlo al Castello. Matteo, nonostante il mal di mare, cercava di stringere i denti e resistere, sbirciando la sua meta sempre più vicina. Lo sciabordio dell’acqua che accarezzava il legno della barca, spinta da un vento stanco ma continuo che gonfiava una bisunta vela di tela, sembrava ridere di lui, gorgogliando cristallino. L’odore della macchia mediterranea, già da lontano, sopraffece l’odore salato del mare, dando un poco di sollievo al bambino.

    Alla fine arrivarono. I tre marinai legarono al molo la barca e iniziarono a scaricare, veloci, quasi contenti.

    Abbiamo fatto presto, compari, disse Faccia di ragnatela, come lo aveva soprannominato Matteo. Gli altri due annuirono. Il bambino, invece, aveva trovato il viaggio lunghissimo e mentre scendeva dalla barca si augurò di non rivedere più né quella barca né i tre marinai.

    Attese malfermo sulle gambe, in piedi sulle assi dell’improbabile molo, vestito con larghi pantaloni che gli arrivavano appena sotto il ginocchio e con una camiciola di incerto colore. I suoi piedi scalzi erano coperti da una patina di polvere diventata fango. Il volto e le mani, le uniche parti del piccolo corpo che sommariamente venivano lavate, mostravano un incarnato color bronzo, come diventa chi vive sotto il sole.

    Aspettò lì indeciso sul da farsi, mentre i tre marinai si affrettavano a scaricare. Guardò verso le poche case, basse e bianche. Ebbe la sensazione che una volta lasciato quel luogo, avrebbe dovuto scordare la madre, i fratelli e la vita fino allora trascorsa, per questo i suoi piedi restavano inchiodati al suolo.

    A un tratto, da una delle case poco lontane, quella che sembrava un magazzino, uscirono delle figure che con passi frettolosi si mossero verso il molo. L’uomo che guidava il gruppo era senza dubbio importante, vestito di abiti abbastanza puliti, addirittura con un giustacuore dotato di bottoni! Tarchiato, con i capelli neri come la notte e gli occhi stretti a fessura, come chi osserva il mondo da nemico. I larghi pantaloni di tela bianca si infilavano in un paio di stivali da cavaliere, il giustacuore copriva una bianca camicia lisa sul collo e sui polsi. La spada che gli pendeva al fianco gli dava un’ulteriore autorevolezza: quella dettata dalla paura. Dietro di lui quattro uomini, dai venti ai cinquanta anni, portavano ognuno un pesante carico in spalla.

    Dai pescatori giunse un mugolio di protesta.

    Un carico per il Conte! Maledizione, niente pesca… disse una voce.

    Taci coglione, se non vuoi che il soprastante ti frusti! Che Dio lo maledica! ringhiò il solito Faccia di ragnatela, e subito fu silenzio.

    Così Matteo scoprì che l’imponente uomo era il soprastante. Nella sua esperienza di bimbo, già conosceva il ruolo di queste persone: Sardi al servizio di nobili Aragonesi che agivano brutalmente, avendo venduto l’anima al diavolo per pochi denari.

    Sul viso di Matteo apparve un lieve velo di sudore. Il suo istinto gli ordinava di fuggire, ma dove? Rimase dunque impietrito, stringendo la sua bisaccia.

    I cinque uomini lo sorpassarono e depositarono i pesanti carichi a lato della barca. I quattro facchini raccolsero i sacchi scaricati dai marinai e ripresero la strada verso il magazzino. Il demonio, invece, rimase. Diede ordini ai tre marinai affinché venisse caricata la merce da consegnare al Conte.

    Oggi non potrete pescare, disse con voce stranamente gradevole. Quindi ho messo una forma di formaggio in più nel sacco grande. Prendetela e dividetevela.

    Un coro di voci servili partì dai marinai. Tutto questo per arricchire un signore che sarebbe venuto al suo palazzo di Sassari sì e no un paio di volte nella sua vita, sprecando i proventi e le fatiche di tante persone o a Cagliari, nelle feste e nei palazzi dove il Viceré donava cariche e assegnava prebende; o a Barcellona, dove il Re Ferdinando, ormai sposo di Isabella, sempre più raramente si interessava all’Aragona e sempre di più alla Spagna.

    Finito con i pescatori, il soprastante si incamminò verso la terra, ordinando al bambino di seguirlo.

    Tu sei il nuovo pastorello, allora! disse squadrandolo con un’aria disgustata. Seguimi!

    Col capo chino Matteo seguì quell’uomo che, nel sole del pomeriggio, proiettava un’ombra lunga e inquietante.

    Giunti al gruppo di casupole, l’uomo si fermò asciugandosi una goccia di sudore che gli colava lungo la guancia. Matteo aveva seguito in silenzio quella figura, sentendo sotto i piedi, la nuda terra di quel villaggio pulito e ordinato.

    Sentimi bene, non lo ripeterò due volte. Domani mattina ti farò accompagnare al tuo gregge. Non c’è da mungerlo, ci sono acqua e alberi, puoi mangiare la frutta, se le capre te ne lasciano. Resterai lì fino a che ti si verrà a prendere, con l’unico scopo di sorvegliare ventitré capre.

    Tacque un attimo, per riprendere fiato, poi seguitò:

    Ventitré ne voglio ricevere, quando te ne andrai. Se ne mancano o se si ammalano, ne risponderai con la tua vita. Ora vai nella stalla e riposati. Non ti voglio più vedere fino a domani, chiaro? concluse con un tono che non ammetteva repliche.

    Aveva alzato appena la destra, indicando un tetto sorretto da quattro robuste travi e chiuso da una staccionata. Lì si diresse Matteo, con la fronte imperlata di sudore e gli occhi velati da inutili lacrime. Il suo cuore sapeva, in quel momento, che la sua vita era finita e che il suo cuore di bambino che doveva crescere in fretta se voleva avere un’altra occasione.

    La Capanna

    La capanna dove avrebbe vissuto per tutto il resto dell’estate, e forse l’intero autunno, lo attendeva sul versante occidentale dell’isola, a due ore di cammino dal villaggio, ormai in stato di abbandono. Come minacciato dal soprastante, all’alba si erano presentate due figure alla stalla. I somarelli che avevano fatto compagnia al bambino durante la notte si svegliarono ragliando, quando un calcio strappò un urlo al bambino.

    Zitto e muoviti. Si parte! disse la figura del soprastante. Con sguardo impaurito, Matteo guardò quell’ombra. Per un momento gli sembrò che non l’uomo, ma solo l’ombra, terrificante, fosse davanti a lui a ricordargli che ormai apparteneva al demonio. Si alzò in un attimo e raccolse la sua bisaccia.

    Sono pronto… pigolò, irritandosi per il tono acuto della sua voce.

    L’ombra rise aspra, gli parve, e disse: Segui Andria, ti porterà a destinazione e verrà ogni settimana a controllare che il tuo gregge sia integro e che tu sia ancora vivo!

    Poi si voltò, e con passi decisi scomparì verso il sole che stava nascendo dal ventre umido del mare, molto lontano.

    Non ricordò il viaggio, né le parole che scambiò col vecchio Andria mentre camminavano appresso al somarello. Matteo ricordò solo, da allora e per sempre, l’ultima curva dopo il crinale del monte, quella che lo condusse alla sua nuova dimora.

    Il mare, enorme e senza confini, senza una nuvola a mutarne i colori, si stendeva ai suoi piedi. Una piccola valle verde, ombreggiata da querce secolari, separava i due esseri umani da quella immensità. Il gorgoglio dell’acqua, il profumo delle piante e dell’erba e un abbaiare lontano di cani, salutarono i due.

    Il gregge, sorvegliato da due grossi cani, brucava vicino a una sorgente che sbucava dal fianco del monte. Questa sorgente era la benedizione di Dio, in estate.

    Dopo aver lasciato che Andria controllasse che tutte le bestie fossero presenti, non sapendo né leggere, né scrivere, né tanto meno contare, Matteo si rasserenò all’annuncio che il gregge era al completo, e con fare deciso si impadronì della sua bisaccia.

    Per la capanna, segui il rumore dell’acqua, disse Andria. E questo fu il suo congedo. Senza proferire altra parola, si incamminò, riprendendo il sentiero appena percorso, al contrario. Matteo ne guardò la schiena fino a che scomparve, mentre uno dei cani lo annusava con sospetto. Poi, si voltò verso la sua nuova casa.

    L’acqua aveva dato vita a una serie di alti cespugli di rovi e more che nascondevano la vista del ruscello e del mare.

    Era ormai pomeriggio inoltrato, Matteo guardò i cani azzuffarsi per un osso trovato chissà dove; la loro magrezza metteva in evidenza ogni costola e la bava colava dai musi in lotta.

    Appena dopo i cespugli spinosi, un ruscelletto correva verso il mare sul suo sentiero di ciottoli tondeggianti. E dopo il torrentello, un prato di erba ancora verde e appena al di qua della linea degli alberi, di spalle al mare, la capanna. Una costruzione circolare, sormontata da un tetto di frasche e di paglia, con un’apertura rettangolare per porta; le pietre vive che mostravano il volto della capanna al bambino gli diedero la sensazione della durezza della vita.

    Sospirò, rassegnato, e superò la porta nera.

    Un altro cambiamento

    Erano passati i giorni, a volte veloci come saette, altri lenti come la noia che li accompagnava. Matteo aveva preso in fretta possesso del suo piccolo regno, e si era fatto amico i due cani e le capre, con l’istinto che unisce da sempre bambini e animali. Dimostrandosi loro amico, sembrava che gli animali ricambiassero quel sentimento: i cani facendo il loro lavoro di guardiani con solerzia; le capre limitando, pareva, le loro scorribande in cerca di cibo.

    In settimana era passato Andria, come promesso dal soprastante, annunciato dal suo passo tranquillo e dagli incitamenti nei confronti dell’asinello; gli portava pane, formaggio, e qualche notizia. Andria non era in realtà vecchio: aveva appena trent’anni, portati male. Basso, nero come il carbone, di capelli, di occhi, di pelle. Il sole aveva giocato impietoso con la pelle di quell’essere umano. Qualche profonda ruga tagliava il suo viso, dandogli l’apparenza di essere ancora più anziano.

    Non parlò molto, ma si sedette al fresco degli alberi e raccontò al bambino le pochissime cose che erano accadute nell’isola. Usava un coltello per intagliare un pezzo di legno, mentre si sforzava di mettere insieme quelle poche frasi. Il bambino guardava affascinato quella lama che gli pareva una spada, e nella sua mente sognava già di impugnare una simile arma per guadagnarsi rispetto nella sua città.

    Anche lui aveva un coltello. Ma era una lama adatta a tagliare pane e formaggio, ridotta nelle dimensioni, che suo padre gli aveva affidato mesi prima. In vista di quell’incarico che ora svolgeva, il sovrintendente del feudatario in città, aveva affidato al padre il compito di istruire il figlio sui compiti che ci si aspettava da lui. Aveva imparato tutto, e alla fine delle lezioni, il premio per la sua condanna era stata la consegna di quel pezzo di ferro, malamente affilato, con un manico fatto di legno e spago attorcigliato. Ne era stato fiero fino a quando non aveva visto il coltello di Andria. Ora gli pareva insignificante, brutto. Cosa avrebbe dato per averne uno uguale a quello che, ora, intagliava il legno come se fosse burro.

    L’uomo si accorse dello sguardo del bambino e sorrise, aggiungendo qualche ruga al suo volto devastato.

    Ti piace? Era di un soldato, di un Turco. Spera di non vederne mai altri, concluse, buttando il pezzo di legno che aveva martoriato e infilandosi la lama nella cintura che gli sorreggeva le brache da marinaio. Si era alzato e si apprestava a partire, all’improvviso. Ma mentre recuperava il suo asino, impegnato a ingozzarsi, avvisò: Se mai vedessi o sentissi, di notte o di giorno che sia, voci e rumori dal mare, scappa, nasconditi e non uscire dal tuo nascondiglio fino a che ogni rumore sia cessato.

    Non lo guardò neppure mentre concluse: Anzi, meglio se stai lontano dal mare: nulla di buono arriva da lì. E scomparve, lasciando a Matteo solo il ricordo di quelle parole e il suono del passo del ciuco.

    Guardava lottare i cani, ringhiavano e si rotolavano nell’erba, scappando, ora l’uno ora l’altro, per sottrarsi ai denti nemici.

    Nel giovinetto stava tornando la malinconia. Sempre più spesso risentiva la voce della madre, delle sorelle e degli amici lasciati a Sassari, con un senso di scoramento. Non bastavano gli animali e la natura, gli mancavano gli affetti e i giochi; ma sapeva che la sua vita era quella. E fu con questi pensieri che scoprì il mare. Si alzò dal sedile di pietra, controllò di avere il coltello infilato nella corda che aveva promosso a cintura, e con passo deciso si mosse verso le onde che lambiscono la terra.

    La giornata era serena e la lieve brezza dell’ovest spingeva le onde ad accarezzare la sabbia. Sbucando dal rifugio degli alberi, Matteo vide quello che sarebbe diventato il suo mondo. Il sole, che andava abbassandosi davanti a lui, illuminava il mare colorandolo di mille colori: dal verde più cupo, fino ad arrivare all’indaco e al bianco delle onde che morivano baciando la terra. Tutti i colori del creato sembravano essersi accordati per dare a Matteo un’immagine così bella da estasiarlo.

    La paura, il ricordo del mal di mare patito all’arrivo, le parole e il monito di Andria, tutto fu dimenticato davanti al mistero del mare. Col cuore che batteva forte, il fanciullo mise i piedi sulla stretta striscia di sabbia, proprio lì dove andava a morire il ruscello, e iniziò la sua nuova vita, esplorando quel mondo sconosciuto, dimenticando famiglia, amici e malinconia mentre inseguiva granchi sbilenchi e pesci saettanti.

    Uomini e navi

    Khareyddyn e Oruk tornavano a casa. Dopo aver saccheggiato la zona tra la Liguria e la Toscana, beffando le navi Genovesi, Papaline e Pisane che davano la caccia ai vascelli barbareschi. Con le loro quattro navi cariche di bottino e schiavi, avevano rivolto le prore a sud-ovest, navigando sulle ali del vento, certi di evitare il blocco navale che attendeva ogni naviglio straniero tra la Corsica e la Toscana. Conoscevano quel mare a menadito, i fratelli. Da anni imperversavano saccheggiando ogni paese, violando ogni insenatura e raggirando ogni esercito cristiano in quello che era ormai un dominio musulmano.

    Con arroganza, nonostante il più focoso Oruk avesse voluto forzare il blocco con armi e sangue, seguivano la rotta più sicura che costeggiava la Corsica a ovest, lambendo dal mare le alte montagne che si gettavano a picco nell’acqua.

    Era giovane, Khareyddyn, ma con il fratello Oruk, stavano diventando una leggenda per i musulmani e un incubo per i cristiani. Una leggenda fatta di sangue, di oro, di spietata scaltrezza e anche di un’intelligenza del mare impareggiabile. Del resto sul mare ci erano nati, i fratelli Barbarossa, come cominciavano a chiamarli i Cristiani.

    Quella spedizione, una delle tante, la guidava lui, il più giovane - nonostante il fratello avesse nominalmente il comando - grazie alla sua sagacia che rendeva gli equipaggi più malleabili.

    Del resto, Oruk, aveva ben altri pensieri per la testa. Il consolidamento del potere dei fratelli sull’isola di Djerba, per esempio. Potere conquistato col sangue degli antichi padroni, ma che andava mantenuto. Lasciava quindi volentieri il comando al fratello minore, di cui si fidava ciecamente, mentre nella sua sontuosa cabina studiava piani per espandere il potere della sua piccola flotta.

    Khareyddyn guardava il mare davanti a lui, con gli occhi stretti a fessura per attenuare il bagliore del sole. Le mani appoggiate al parapetto del ponte di comando, le spalle rivolte alla costa, quasi in un gesto di rifiuto per la terra, come se la disdegnasse. Pensava, il giovane capitano, a dove approdare senza rischi per il bottino ricco che riempiva le stive, per approvvigionare di acqua e carne i suoi legni e arrivare a Djerba senza dover sbarcare in Sardegna. Era un pirata, non un missionario, e una volta riempite le stive di oro e schiavi, una fuga rapida era la soluzione ideale, e la più logica.

    La Corsica poteva andare per questo scopo, ma sia per gli approdi difficili, sia per il rischio di venire sorpresi a terra da navi franche o genovesi che pattugliavano quelle coste, tendeva a evitarla. E la evitò.

    Da ore scrutava il mare, ignorando, al fianco, i monti ormai vaghi per la lontananza, della sorella minore della Sardegna.

    Poi il suo volto si distese, vedendo, lontano all’orizzonte, un azzurro monte sbucare dal mare. Urlò alcuni ordini e le navi cambiarono rotta, allontanandosi ancora di più dalla costa e gettandosi nel mare aperto, verso quello che sembrava solo un miraggio.

    L’incontro

    Nei giorni che seguirono la scoperta del mare, il mattino Matteo si alzava, e dopo aver dato un rapido sguardo al gregge, mangiava un pezzo di pane e si incamminava con passo svelto verso il suo nuovo amico. Sì, perché dopo essersi bagnato nelle sue acque, prima con timore, poi sempre più sicuro, avvolto dal tiepido abbraccio salato, Matteo aveva scoperto un mondo pieno di vita.

    Il ricordo del suo primo viaggio per quel mondo era svanito, sostituito dai piccoli pesci, conchiglie, ricci di mare e granchi che molestava con la lama del suo coltello. Il tempo passava in fretta, mentre, accompagnato da uno dei cani giocava sulla stretta spiaggia.

    Era un bambino sveglio, Matteo, e ora che l’acqua l’aveva ripulito dallo sporco della città, che pareva si fosse attaccato alla sua pelle come il corallo alla roccia, era persino più bello. La pelle liscia, accarezzata dal sole, era diventata scura, specialmente quella del viso. Il bianco dei suoi occhi spiccava in mezzo al viso abbronzato, come stelle in un cielo senza luna, e i capelli gli scendevano a coprire il collo in riccioli che brillavano alla luce del sole. La camiciola lurida, lasciata da parte in un angolo della sua capanna, aveva liberato alla vista un petto ancora infantile che col passare dei giorni prese prima il colore di oro antico, poi di bronzo.

    Andria lo trovò in spiaggia, dopo averlo cercato invano nella piccola valle, e Matteo, nelle orecchie il rumore dolce della risacca, non aveva sentito né l’uomo né l’asino arrivare. Fu il cane che lo avvisò della presenza di un ospite.

    Il bambino stava tormentando un granchietto che, con imprudenza, aveva osato attraversagli la strada. Il sole gli accarezzava la schiena, dandogli una sensazione di pace, la stessa che gli avevano dato le poche carezze che aveva avuto dalla madre. Il ringhio del cane lo fece irrigidire. La mano destra si strinse al coltello, tanto che le nocche divennero bianche e il granchio fuggì veloce come non era mai stato, verso le onde vicine, e la salvezza.

    Matteo si voltò di colpo verso gli alberi, alzandosi rapidamente.

    Non ti spaventare, sono Andria!

    La voce proveniva dall’ombra che a malapena si distingueva, tra alberi e macchia, ed ebbe la facoltà di far rilassare Matteo, che abbassò le spalle e la mano che impugnava il coltello. L’uomo si fece avanti, stringendo gli occhi per la luminosità intensa del sole.

    Ti avevo avvisato di stare lontano dal mare, ma non mi hai dato retta. Nessuno dà mai retta a chi ne sa di più.

    Il tono era serio, quasi triste; il viso, rivolto verso di lui con gli occhi socchiusi e le labbra serrate, impenetrabile.

    Non facevo nulla di male… Gli animali ci sono tutti e stanno bene, replicò Matteo.

    Torniamo indietro! disse Andria, voltando le spalle a quell’acqua che temeva e incamminandosi. Matteo attese un attimo prima di seguire con riluttanza l’uomo. Con un fischio richiamò il cane che, dopo aver dato l’allarme, pago del dovere compiuto, si era rimesso a giocare con le onde. Uno scatto e fu al suo fianco, poi davanti a lui. Pochi balzi e scomparve, superando anche l’ospite.

    Non vi furono prediche o altri ammonimenti. Andria scaricò in silenzio la bisaccia con pane, formaggio e olive per Matteo e un involto di ossa spolpate per i due cani. Fece tutto con mosse lente, senza parlare. E con poche parole si congedò, lasciando il bambino convinto che l’uomo fosse ancora arrabbiato.

    Ma il motivo del silenzio di Andria era ben altro. Mentre stava lì, nascosto dalle ombre del bosco, e guardava la schiena del fanciullo, una sensazione ben

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