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Passa l'idea
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E-book266 pagine3 ore

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PASSA L'IDEA (Vendetta e omertà)

Un celebre gioco a quiz televisivo chiamato "Passa l’idea", una specie di "caccia al tesoro" a premi, s’intreccia con la storia violenta di un personaggio complesso: uno sconosciuto killer, che cerca di condurre un gioco analogo, coinvolgendo le forze di polizia. L’epicentro del racconto è Torino, dove troviamo il pragmatico commissario di polizia Cesare Vitali, alle prese con un delitto misterioso. Per risolvere il caso, i parenti della vittima incaricano, l’investigatore privato Valter Marras, ex ispettore di polizia e amico del commissario. Non esiste un movente, né l’arma del delitto; solo un messaggio enigmatico. Forse l’assassino vuol giocare con la polizia e le "Passa l’idea" in segno di sfida. - Inizia il gioco - . Per il commissario, prossimo alla pensione, quest’omicidio, è un incidente di percorso. L’assenza di prove e l’astuzia del killer, uomo freddo ma intelligente, rendono difficile e spasmodica la lotta contro il tempo per individuare e raggiungere il luogo indicato dal killer, prima che sia commesso un altro crimine. Il racconto dal sapore fantapolitico, narra le avventure dell’investigatore privato Valter Marras, che dà la caccia al killer, in collaborazione col suo amico commissario di polizia. Per fare questo è costretto a spaziare da Torino a Nizza fino a giungere in Sicilia. Lealtà verso le istituzioni e senso del dovere non bastano ai due amici per evitare un finale inatteso, in un alternarsi di episodi di successo e fallimento.

LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2017
ISBN9788826037745
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    Passa l'idea - Lombolo Soleado

    fantasia

    Primo

    Saliva i gradini velocemente, sbuffando e ansimando. Dopo anni di duro lavoro, pensava di meritare ogni tanto qualche serata tranquilla. Quel venerdì sera di fine giugno, non voleva perdere il suo programma televisivo preferito.

    Teneva già il telecomando in mano e aveva tanta voglia di partecipare al gioco interattivo. Era certo di conoscere la soluzione. Purtroppo non fece in tempo.

    Anche quella sera, come ormai accadeva troppo spesso, fu informato dalla centrale che c’era un’emergenza.

    «In Via delle Rosine trecentoventiquattro è stato rinvenuto il cadavere di un giovane.»

    Cesare Vitali si staccò a malincuore dalla comoda poltrona, dove stava accovacciato come un uccello sul proprio nido e spense con rabbia l'apparecchio. Afferrò l’inseparabile impermeabile e si precipitò in macchina. Non faceva freddo, ma in quei giorni i temporali erano frequenti.

    Discese di gran corsa la collina.

    Giunto in via Po, svoltò in Via delle Rosine, senza incontrare traffico. A quell’ora i torinesi erano tutti al cinema o in pizzeria o a guardare la televisione.

    Le strade sembravano deserte. La città, ancora inzuppata di pioggia, caduta per parecchi giorni senza tregua, luccicava sotto i lampioni e si presentava tranquilla, deserta, quasi gelida.

    «Forse è così che piace ai veri torinesi» bisbigliò a se stesso il commissario, che dopo dieci minuti si trovò sul posto.

    Una volante della polizia era ferma davanti al portone; un agente parlava al radiotelefono. Poco distante, sotto l’androne d’ingresso, c’era il vecchio custode dello stabile, piccolo e gracile con un pallore quasi cadaverico. Cesare si avvicinò a lui mostrando il tesserino di riconoscimento.

    «Buonasera, sono il commissario Vitali.»

    Il portinaio, lo sbirciò, annuì e gli indicò una finestra al quinto piano.

    «Non c’è ascensore!» provò a gridare. Ma si udì solo un filo di voce strozzata, come se gli fossero mancate le corde vocali. Le sue ultime energie le aveva consumate per salire di corsa al quinto piano, da dove aveva sentito provenire le urla di una donna. Ormai il commissario era già in fondo al cortile, che dall’androne portava alle scale.

    Il commissario, dopo i primi due piani, arrancava sempre più e cominciava ad accusare una fitta al fianco destro. Non ce la faceva a salire più in fretta quella vecchia scala, dalle pareti sporche color grigio fumo, che puzzavano d’umido e di muffa, come se si trovassero sotto il livello del mare. Gli mancava il respiro. I gradini erano molto alti.

    «Maledette sigarette!» lamentava fra sé a voce alta. Aveva promesso mille volte a se stesso di smettere di fumare, un giorno o l’altro, ma di certo, quel giorno mancava sul suo calendario. Infine l’ultima rampa! Si fermò un attimo, il tempo di riempire i polmoni di nuova aria e già udiva un lamento sommesso e inquieto, provenire dal quinto piano, dove c’era una porta aperta.

    Giunto sul pianerottolo, gli bastò un rapido sguardo per accertarsi che non vi era stata effrazione; per istinto, entrò senza bussare. Voleva imprimere nella sua memoria ogni particolare di quel luogo. Il più piccolo indizio, avrebbe potuto essere decisivo per cercare di ricostruire e comprendere l’accaduto.

    Fece tre passi nel corridoio; a sinistra vide la prima camera. Si arrestò per un attimo, appoggiandosi a uno stipite della porta. Una sua smorfia di disgusto non sfuggì all’ispettore Andrea Parodi che, in un salottino attiguo, cercava di confortare una ragazza molto turbata.

    Una scena raccapricciante si mostrò agli occhi del commissario. Pareva tratta e riprodotta da una stampa raffigurante un rito satanico.

    Un corpo nudo orribilmente straziato giaceva sul letto. Legato con del robusto filo elettrico, che tendeva le braccia e le gambe ai quattro angoli del letto, aveva la bocca sigillata da un grosso cerotto. Si vedevano le caviglie e i polsi martoriati, da ciò, s’intuiva che era morto dopo un tentativo disperato quanto inutile di liberarsi.

    Dalla quantità di sangue che aveva inzuppato le lenzuola, si poteva presumere che era morto dissanguato. A parte la mutilazione, non mostrava ecchimosi o lacerazioni causate dal suo aggressore. Il corpo dalle dimensioni perfette, si presentava come l'opera di uno scultore che non aveva dimenticato di mettere in evidenza la muscolatura. Era evidente che frequentasse una palestra; anche per questo, appariva poco comprensibile il metodo adottato per legarlo in quella posizione, senza una forte colluttazione. La coperta era tirata verso i piedi del letto, in modo da lasciare in vista solo le lenzuola bianche, quasi a voler dare più risalto al colore del sangue e ai particolari anatomici della vittima.

    Cesare aveva trascorso ormai tanti anni nella polizia, ma non si era mai abituato a certe scene, che definiva da mattatoio e che gli provocavano un forte senso di nausea, tanto da farlo star male per tutto il giorno.

    La giovane che si trovava con l’ispettore era Daniela, fidanzata di quel disgraziato di nome Giulio.

    Entrando in quella casa, Daniela aveva stentato a credere ai propri occhi; non riusciva a comprendere, a darsi pace davanti a tanto scempio.

    «Perché! Perché! Perché!» ripeteva con tono monotono e ossessivo a se stessa e agli altri, ma la risposta era un mistero per tutti.

    Per il commissario non era certo il momento di dare spiegazioni avventate, ma di scrutare bene ogni particolare, tentare di cogliere un indizio, un segno, un elemento utile per capirci qualcosa.

    Alcune ore prima, Daniela aveva telefonato a Giulio, per organizzare quella serata all’insegna della semplicità e spensieratezza.

    Quel venerdì, desideravano stare un po' insieme, per scrollarsi di dosso le fatiche e le preoccupazioni di una lunga settimana di lavoro, come facevano quasi tutti i venerdì. Lei era andata a trovarlo. Portava con se un sacchetto, con wurstel patatine e birra, per una cena veloce. Avrebbero concluso la serata al cinema per assistere alla proiezione di un film in prima visione, con il loro attore preferito: Harrison Ford.

    Giulio era un giovane di ventisette anni, torinese, istruttore di ginnastica, persona semplice e gioviale, attaccato al lavoro e alla sua fidanzata. Aveva conosciuto Daniela in palestra, l’anno precedente; con lei sperava in seguito di aprire un centro ginnico all'avanguardia, con sauna e piscina, nella centralissima Via Po. Contavano di sposarsi alla fine di quell’anno, ma qualcuno aveva distrutto il loro sogno.

    Il commissario si avvicinò all’ispettore Parodi.

    «Ciao Andrea, da quanto tempo sei qui?»

    «Da quasi venti minuti e ho trovato tutto così come lo vedi. La signorina Daniela, fidanzata di Giulio, mi ha assicurato che in questa stanza non è stato toccato nulla. È stato il custode, quasi in preda al panico, ad avvertirci. Aveva segnalato soltanto la presenza di un morto, senza specificare altro e dal momento che mi trovavo in zona …speravo di non disturbarti… mi hanno informato che avevi lasciato l’ufficio da poco, ma dopo aver visto questo…»

    «Hai fatto bene a farmi cercare Andrea; chiama anche l’agente Milena, sarà ancora in ufficio, dille di venire per accompagnare a casa la signorina Daniela, alla quale vorrei rivolgere prima qualche domanda; informa quelli della scientifica, c’è un po’ di lavoro anche per loro.»

    «Ho già provveduto prima del tuo arrivo e non dovrebbero tardare.»

    «Grazie.»

    Il commissario, lanciò un’occhiata diffidente alla ragazza che stava ancora seduta in un angolo del divano. Mugolava di dolore, mordendo e tirando con rabbia una punta del fazzoletto, fino a sfrangiarla.

    L’ispettore accompagnato dal portinaio, l’aveva trovata lì, ricurva in avanti, come se stesse per dare di stomaco.

    «Signorina Daniela, sono il commissario Vitali. Mi rendo conto che per lei è un momentaccio e non vorrei sembrarle insensibile… se la sente di rispondere a qualche domanda?»

    Daniela ammutolì e socchiuse gli occhi, dondolando piano il capo in avanti per esprimere consenso.

    «Ha idea di chi può essere stato? Giulio aveva dei nemici o sa di qualcuno che lo aveva infastidito negli ultimi tempi? Qualsiasi idea, anche la più banale, me la dica, potrebbe aiutarci ad acciuffare il colpevole.»

    «No…nessuno…mi dispiace…non è umano…»

    Un nodo alla gola, impedì a Daniela di continuare e gli occhi socchiusi, ormai gonfi per il pianto, le inondarono il volto di lacrime.

    Il commissario non aveva inteso bene se quel non è umano fosse riferito a chi aveva commesso il delitto o a lui stesso che voleva interrogarla; in ogni caso, pensò bene di lasciarla in pace.

    Intanto comparve Milena.

    «Buonasera commissario.»

    «Venga Milena, accompagni la signorina Daniela a casa sua. Si accerti di lasciarla in compagnia di qualche familiare o persona amica. Non mi pare in grado di trascorrere la notte da sola.»

    Non appena le due donne furono uscite dall'alloggio, il commissario chiuse la porta d’ingresso. Estrasse due paia di guanti in lattice dalla tasca interna del soprabito e ne porse un paio a Parodi.

    «Tieni metti questi. Sbrighiamoci; vorrei osservare quanto più è possibile, prima che arrivino i colleghi della scientifica. Mentre io guardo questa camera tu controlla il resto, può darsi che troviamo l’arma usata per realizzare quest’opera d'arte

    Le stanze apparivano in ordine, così come gli armadi e i cassetti del comò. Nessun segno di scasso. Il commissario ispezionò con attenzione da vicino il corpo esanime, ma solo nella parte visibile, non potendo liberargli polsi e caviglie. Non trovò segni particolari e non osò girarlo, benché ne avesse tanta voglia. Cesare sapeva che gli uomini della scientifica si sarebbero imbestialiti e con ragione; non ci teneva a scatenare una diatriba e beccarsi una nota negativa, adesso che gli mancava solo un anno per andare in pensione.

    «Forse, prima di coricarlo, lo hanno stordito colpendolo alle spalle, ma noi potremo verificarlo solo quando sarà slegato…qual è la tua opinione Andrea?»

    «Ritengo che chiunque lo abbia ridotto in questo stato, deve essere dotato di una mente malata, molto pericolosa. È un omicidio di particolare efferatezza e senza apparente movente.»

    «Non c’è una goccia di sangue sul pavimento, niente arma del delitto, difficile credere all’azione di una persona sola. Induce a pensare a un rito di qualche setta segreta, o ad un’insolita esecuzione per vendicare un torto. Però…sappiamo da esperienze precedenti, che, in questi casi, gli assassini sono soliti lasciare a bella posta un simbolo accanto al cadavere, una sorta di rivendicazione, mentre qui non abbiamo trovato niente.»

    «Mmm…guarda…guarda…»

    Osservando alcuni indumenti, che si trovavano per terra, sul lato destro del letto, emerse un particolare curioso, che mise in agitazione la fantasia di Cesare.

    «Parodi ascolta: questo portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni, stranamente, non si trovava infilato nella tasca come in genere si usa fare, facendo aderire la curva del portafogli, ormai deformato dall’uso, alla forma del gluteo, ma al rovescio; come se fosse stato manomesso, non per derubarlo, giacché contiene ancora molti soldi.»

    «Davvero strano» osservò l’ispettore. Cesare sfilò i guanti e si diresse verso la porta.

    «Andrea continua tu ispezionando ogni cosa, finché non verranno quelli della scientifica. Io vado giù per sentire il custode.»

    Le idee di Cesare si accavallavano, mentre lui scendeva quelle scale dall’aspetto lugubre, che adesso, gli davano anche una sensazione di gelo nelle ossa. Continuava a chiedersi: Chi può aver avuto interesse a commettere un tale crimine? Come avranno fatto ad entrare senza trovare alcuna resistenza? La vittima conosceva già l'assassino e si fidava di lui? C’entra la fidanzata? O il custode? In che modo l’aggressore ha potuto legarlo al letto, senza ricorrere alla forza? Perché gli ha manomesso il portafogli? Se gli è stato sottratto qualcosa, quale importanza può avere per l’omicida?

    Il portinaio stava ancora vicino alla guardiola, sotto il porticato dell’androne, a fumare irrequieto.

    «Ha visto commissà! Io non riesco ancora a stare calmo; in settant’anni, non sono incappato in una situazione così spiacevole neanche in Sicilia, lo prenderete vero? Altrimenti, chi dorme più tranquillo!» Portava la sigaretta alla bocca con le dita visibilmente tremolanti.

    «Certo, lo arresteremo, ma io ho bisogno anche del suo aiuto, mi dica con calma tutto quello che sa.»

    «Vorrei potervi aiutare, ma in verità stasera non ho notato nessuno che mi abbia insospettito, e poi sa, io smetto alle sette di sera, anche se spesso rimango a casa e a volte faccio per gli inquilini qualche lavoretto oltre l’orario. Oggi come quasi tutti i venerdì, molte famiglie sono già partite per andare a trascorrere il week-end fuori città e in molti alloggi non ci abita nessuno, perché sono uffici e dopo le cinque, sono vuoti. Per amor del vero, le do per certo che stasera non ho visto passare neanche la signorina Daniela, ma so, che quasi tutti i venerdì viene a trovare il fidanzato. Alle ventuno, stavo guardando il telegiornale, quando all’improvviso sento delle urla spaventose. Con mia moglie andiamo in mezzo al cortile, per scoprire da dove provengono. L’unica finestra aperta e illuminata era quella al quinto piano. Mi precipito su di corsa…alla mia età…e appena busso alla porta d’ingresso, la signorina mi aggredisce con violenza. Può confermarlo mia moglie che stava in cortile e ha avuto paura per me. Mi ha maltrattato, come se la colpa dell’accaduto fosse tutta mia, accusandomi di aver fatto entrare degli assassini. Poi mi ha quasi trascinato nell’altra stanza, costringendomi a guardare; era come impazzita; ma in quei momenti chiunque può reagire così.»

    Aveva appena gettato il mozzicone acceso sotto i piedi, che già cercava di sfilare nervosamente un’altra sigaretta dal pacchetto.

    «Secondo lei Giulio aveva dei nemici?»

    «Non posso immaginarlo, era un signore con la esse maiuscola, di una bontà infinita e lo incontravo tutte le domeniche in chiesa.»

    «Venivano a trovarlo individui che lei avrebbe preferito non fare entrare?»

    «L’unica persona di quel tipo era l'amministratore dello stabile, ma è morto d’infarto la settimana scorsa, pace all’anima sua.»

    «Ho capito, grazie, ma se ricordasse qualcos’altro, mi telefoni a qualsiasi ora; questo è il mio numero. Se non dovesse trovarmi mi lasci un messaggio; buonanotte.»

    «Ok, buonanotte commissà.»

    Intanto, erano arrivati quattro funzionari della scientifica, fra cui il medico legale. Vedendo Cesare impegnato col portinaio, dopo un accenno di saluto, erano rimasti ad attenderlo per ricevere una sua prima impressione su quanto aveva appreso e proseguire insieme.

    Nel contempo, osservavano quel cortile circondato da edifici fatiscenti, costruiti intorno al milleseicento.

    Il medico legale Vito Gasparre stimava il commissario, ma non tollerava vederlo invadere la propria sfera di competenza, nemmeno se in buona fede; quindi incontrarlo in cortile fu per lui un sollievo, perché significava che non aveva ancora sconfinato. Questo motivo aveva indotto Cesare a scendere in cortile, prima che comparisse Vito. Naturalmente per salvare le apparenze, fu costretto a salire ancora quelle scale!

    Dall’osservazione accurata del corpo, non emerse alcun particolare significativo, da cui iniziare un’indagine che già s’intravedeva nebulosa. Il corpo di Giulio, liberato dal filo elettrico che lo teneva immobile, fu visitato con scrupolo. Ispezionandogli la schiena, non furono notate contusioni o lacerazioni.

    Vito, con un gesto veloce, tolse il nastro adesivo dal volto di Giulio; le labbra subito si socchiusero e per una sorte beffarda, assunsero una smorfia simile a un sorriso. Effettuato un veloce esame alla dentatura, si affrettò a chiudergli la bocca.

    Adesso, si poteva guardare bene il viso di Giulio, dai lineamenti signorili. Un viso fin troppo bello per un uomo. La condizione in cui lo avevano ridotto, poteva far pensare all’azione di un maniaco sessuale.

    Il referto medico che ne derivò fu quasi lapidario, tipico di Vito.

    «Deceduto da circa due ore, per dissanguamento causato da asportazione degli organi genitali, da parte d’ignoti.»

    Terminato il suo lavoro, il medico legale si avvicinò a Cesare battendogli una mano sulla spalla.

    «Caro Cesare, per oggi non riesco a comunicarti niente di più preciso e come puoi constatare anche tu, qui hanno fatto un lavoretto da manuale. Non possiamo fare altro che aspettare l’esito dell’autopsia. A domani, buonanotte.»

    «Notte Vito.»

    Secondo

    Il forte vento che si era alzato durante la notte, aveva rovesciato i bidoni di rifiuti e trasportato in giro spazzatura, cartacce e sterpaglie, sollevando molta polvere, come se si fosse divertito a fare un dispetto ai torinesi, sporcando strade e marciapiedi. Aveva smesso di piovere; il cielo era terso ma la temperatura pungente. Torino, come sempre in questi casi, offriva uno spettacolo meraviglioso. Da un lato, si distingueva benissimo la catena montuosa delle Alpi, ancora innevata, che appariva molto più vicina, quasi a ridosso della città e dall’altro le colline verdeggianti, dal Colle della Maddalena alla Basilica di Superga.

    Il mio telefono squillava ripetutamente. Credevo, che a quell’ora del mattino, fosse il mio amico Roberto. Ero certo, che avrebbe cercato di convincermi a trascorrere il week-end a Bardonecchia, con la sua fidanzata e un’amica comune, che manifestava una particolare attenzione nei miei confronti.

    «Arrivo, arrivo» gridai verso l’apparecchio, come se qualcuno potesse ascoltarmi. Poi ripresi a parlare a bassa voce, come ormai mi accadeva spesso, stando in casa da solo.

    «Maledizione alla premura, odio fare le cose di corsa! Mi serve ancora qualche secondo e avrò terminato di sviluppare l’ultima di queste foto.»

    Avevo immortalato, con la mia reflex digitale, una donna sposata piuttosto bella, insieme al suo amante, molto più giovane di lei, mentre si scambiavano effusioni amorose come due adolescenti, in un angolo isolato, collocato sulla sponda opposta ai Murazzi del fiume Po.

    I due sprovveduti non avevano considerato o gliene importava poco, che dall’ultimo piano dei palazzi sul Corso Cairoli, anche se molto distante, qualcuno avrebbe potuto vederli e fotografarli come avevo fatto io; ma senza dubbio non sospettavano di essere pedinati.

    Meditavo su quelle foto. Erano il frutto di un mio lavoro come investigatore privato, per certi aspetti parecchio spiacevole. Non era bello, da parte mia, invadere la sfera privata delle persone a loro insaputa e nemmeno arrogarmi il diritto di emettere giudizi sul comportamento dei due amanti. Chissà quali motivi reconditi, avevano determinato il loro comportamento.

    L’incarico mi era stato affidato da oltre un mese e mi aveva tenuto impegnato parecchie ore ogni giorno, tra pedinamenti, attese spossanti e appostamenti sulla riva del fiume, dove credo di essermi beccato una bronchite. Infine, con un potente teleobiettivo, avevo colto i momenti più convincenti del tradimento. Questa volta il marito Mario Mengoni, ricco industriale della lana, che già cominciava a spazientirsi per la lunga attesa di un resoconto, sarebbe rimasto soddisfatto del mio lavoro e contento di poter iniziare le pratiche per il divorzio.

    Dopo una breve pausa, il cordless riprese a squillare. Mi precipitai verso l’apparecchio, perché era già partita la registrazione della segreteria telefonica.

    «Pronto?»

    «Ciao Valter, sei tu?»

    Non era la voce di Roberto, bensì quella roca del commissario Cesare Vitali che ormai avevo imparato a riconoscere e che non mi aspettavo di ascoltare.

    «Valter Marras sempre allerta!»

    Risposi in modo giocoso, come facevo sempre quando lui non mi domandava subito come va?. Quel sei tu?

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