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Una ragionevole disobbedienza
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E-book228 pagine3 ore

Una ragionevole disobbedienza

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Info su questo ebook

Cosa accumuna l’apparente suicidio di una giovane coppia di amanti clandestini con il furto di una catenina legato ad un culto della Vergine antico e misterioso? In una fredda mattina di metà novembre, la vita che brulica intorno al sordido albergo, dove è avvenuta la tragedia, rimane sconvolta. Le autorità tacciono mentre le malelingue si scatenano. Donna Fernanda, la proprietaria e Tittella la giovane cameriera, testimone del fattaccio, rimangono invischiate loro malgrado in una storia ambigua e piena di contraddizioni che le porterà a compiere un viaggio catartico fino allo sconcertante finale. Pagina dopo pagina, in un crescendo emotivo, si svela la trama e si dissolve la nebbia che avvolge i protagonisti. In una Napoli di fine ottocento, chiassosa e raffinata, elegante e popolare, si muovono i personaggi in un palcoscenico ideale che sono le sue strade, mettendo in scena un racconto di denuncia sociale verso una discriminazione mai sopita.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2020
ISBN9791220218344
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    Una ragionevole disobbedienza - Giovanni Montini

    Giovanni Montini

    UNA RAGIONEVOLE

    DISOBBEDIENZA

    Romanzo

    Giovanni Montini

    UNA RAGIONEVOLE

    DISOBBEDIENZA

    Romanzo

    Prima Edizione Ottobre 2020

    Isbn 978-88-3343-274-8

    Quest’opera è frutto di fantasia ogni riferimento a fatti,

    persone o luoghi è puramente casuale.

    LFA Publisher
    Tutti i diritti sono riservati. © Copyright LFA Publisher

    Lello Lucignano Editore

    Via A. Diaz, 17 -80023-

    Caivano -Napoli, Italy

    Partita Iva 06298711216

    www.lfaeditorenapoli.it --info@lfaeditorenapoli.it

    Distribuzione Libro Co. Italia- Firenze. www.libroco.it

    «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce.»

    Blaise Pascal

    «‘O regno ‘e Napule è ‘nu paraviso, ma è abitato da’ diavule.»

    Proverbio napoletano

    Alle donne, alla loro forza e al loro straordinario coraggio.

    La paura lusinga. Accarezza dolcemente, come la più esperta delle amanti, e sussurra all’orecchio frasi deliziose. La paura non ha forma né colore, non ha volto né sostanza ma si riconosce quando s’avvicina. Il suo passo è leggero, e una volta che è arrivata è tardi per mandarla via. La paura abbraccia, non certo per affetto ma, piuttosto, per saziarsi. Salendo lentamente le scale, lei cercava di liberarsi da quell’abbraccio, ma inutilmente. Sentiva che la paura l’avvolgeva come un serpente tra le spire. Giunta sul pianerottolo, poggiò l’orecchio sulla porta. Il silenzio impregnava di sé ogni cosa. Pensò di bussare, ma poi rinunciò. Quando girò la chiave e aprì la porta, avvertì quell’abbraccio farsi più stretto, togliendole il respiro. La stanza era immersa nell’oscurità. La poca luce che filtrava dal corridoio non permetteva di scorgere nulla, se non pochi contorni. «Sono la cameriera» disse con un filo di voce, ma non ottenne risposta. Il primo passo che mosse produsse un forte scricchiolio sul pavimento. Avanzò cauta, abituando gli occhi al buio. Davanti alla finestra indugiò un momento, indecisa se aprire subito gli scuri. Poi, lentamente, la luce ovattata del primo mattino invase la stanza. Quando si volse spalancò gli occhi inorridita, portando una mano alla bocca.

    PARTE PRIMA

    Napoli

    Lunedì 16 novembre 1896

    I.

    Fu faticoso per gli uomini della polizia trasportare i cadaveri giù per le scale. Il corridoio era stretto e la curva della prima rampa non permetteva facili manovre. La finestra che dava sulla strada era spalancata ma, nonostante il freddo di quel mattino di metà novembre, sembrava conservare ancora quel soffocante odore di morte. Gli agenti si muovevano in silenzio, in contrasto con il brusio concitato che riecheggiava per la strada. Non si era mai vista così tanta gente a quell’ora. L’ingresso del palazzo era affollato di polizia e ciascun agente era intento nella propria mansione. I corpi erano stati sistemati sul carro in due involucri di iuta marrone, come sacchi di patate.

    Ferma sulla porta, Tittella strofinava le mani tra di loro. Non lo faceva tanto per il freddo quanto per reprimere quel tremore che avvertiva e che non riusciva a dominare. Voleva apparire calma, contenere la paura che ancora le mordeva lo stomaco. Cercava di nasconderlo, tenendo impegnate le mani e il corpo. Stringeva lo scialle e si sistemava continuamente i capelli. Li portava tirati all’indietro, la lunga coda avvolta su se stessa e fermata da un pettinino. Ma quel mattino li sentiva in disordine, le pareva che qualche ciocca si ostinasse a non rimanere al suo posto, che le scendesse sull’orecchio o sul collo. Guardava continuamente in fondo al vicolo, nella speranza che donna Fernanda sopraggiungesse al più presto. Osservava il commissario, seduto al tavolino d’ingresso, intento a scrivere il rapporto. Non le piacevano le forze dell’ordine. Volgeva sempre lo sguardo da un’altra parte, quando incontrava un agente. Ma quel mattino la sua mente tornava al fatidico giorno in cui li aveva sentiti bussare alla porta, il giorno in cui erano venuti ad arrestare suo padre. Non avevano avuto rispetto per nessuno. S’erano introdotti nel basso in cui abitavano, leggendo velocemente il mandato e chiudendo sonoramente le manette ai polsi di suo padre. Spesso quel suono metallico le tornava prepotentemente alle orecchie, nel buio della notte. Ricordava le grida di sua madre e la vergogna che l’aveva assalita nel vedere gli occhi dei vicini puntati su di loro. Non erano sguardi di compassione, erano sguardi di disprezzo.

    «Fate sfollare tutta questa gente, per favore» ordinò il commissario a un agente. «Sempre i soliti ficcanaso».

    Il giovane, facendosi aiutare da un collega, cominciò a spintonare i curiosi e le proteste si fecero più vive.

    «Non c’è niente da fare» aggiunse il commissario «questa città non cambierà mai». Accese il sigaro e si guardò intorno per cercare dove gettare il fiammifero.

    «Gettatelo in terra, tanto dovrò pulire» disse Tittella, volgendo lo sguardo da un’altra parte.

    Il commissario Lattanzi era un uomo robusto, sulla cinquantina, con la barba folta e lo sguardo vigile e scrutatore. Indossava un caldo cappotto, di quelli cuciti bene. Non aveva tolto il cappello, forse per il freddo. «Questo è il rapporto con la vostra deposizione» disse, mostrando il foglio alla ragazza. Se lo riprese subito dopo, scorrendo tra le righe.

    «Immacolata Esposito» disse lei, intuendo cosa stesse cercando. «Ma tutti mi chiamano Tittella» precisò.

    «Leggo, leggo» fece il commissario, indugiando ancora un momento sul documento. «Noi dobbiamo scrivere le vostre giuste generalità e non i nomignoli» rispose con un sorriso stanco. «La vostra firma la sapete fare un poco? Se no va bene anche una croce».

    «Ma io non me lo ricordo cosa vi ho raccontato, e poi non dovrebbe firmare la proprietaria?» domandò, dubbiosa. «Io sono solo la cameriera».

    L’uomo la guardò bonariamente. Stava per aggiungere qualcosa, ma poi tacque. «Siete voi l’unica testimone» le fece notare. «Dovete firmare voi. Ma non vi preoccupate, non avrete nessuna noia, ve lo garantisco» aggiunse, puntandole addosso quello sguardo indagatore. «A noi basta un segno e archiviamo tutto» concluse, porgendole il pennino. Tittella lo prese dalle sue mani con esitazione.

    «Lattanzi, io potrei anche andare» disse il medico legale, sopraggiungendo. «Una copia del referto ve la farò pervenire quanto prima. Buona giornata a voi» aggiunse, e toccandosi il cappello si congedò. Era un uomo alto e segaligno, che portava un paio di occhialetti dalla montatura sottile. Si allontanò velocemente per il vicolo, scostando i curiosi e alzando il bavero del soprabito. Il vento, proveniente dalla marina, sferzava come lame di coltello.

    «Ma come sono morti?» domandò Tittella al commissario, porgendogli la deposizione in calce alla quale era riuscita ad apporre una sigla. Era imbarazzata, non riusciva a guardarlo in viso.

    Lattanzi esitò prima di rispondere. Probabilmente la ragazza non si era accorta chi fossero davvero le due vittime. Preferì tacere per non impensierirla, era già tanto turbata. In seguito avrebbe saputo. «Suicidio» rispose stancamente. «Si sono ammazzati».

    Tittella intuì che il commissario non voleva parlarne. Per lei era un episodio sconvolgente, per lui una semplice formalità.

    «Sapeste quanta gente s’ammazza in questa città...» aggiunse l’uomo, dando una lunga tirata al sigaro. L’ingresso fu invaso da un fumo dall’odore dolciastro. Lattanzi percepiva cosa stesse passando per la testa di quella ragazza. Lo intuiva dai tratti del viso contratti, dagli occhi ancora spalancati per lo spavento. Avrebbe voluto farle una carezza per rassicurarla, dirle che presto avrebbe dimenticato tutto. «Tornate a casa e cercate di riposare» le consigliò paternamente, allontanandosi verso la rampa delle scale.

    Tittella avrebbe voluto fermarlo, trattenerlo per un braccio, domandargli come si erano uccisi quei due. Improvvisamente le tornarono in mente alcuni particolari che prima non aveva raccontato. Magari erano sciocchezze, magari invece sarebbero stati utili, ma nel dubbio preferì tacere. Ci fosse stata donna Fernanda accanto a lei, avrebbe avuto più coraggio. Ma si sentiva stanca, indolenzita, con la testa che le scoppiava. Lei era una semplice cameriera. Meno parlava, meglio era. Osservò il commissario che si allontanava, le spalle ampie, strette nel cappotto. Le parve che avesse un capello biondo su una manica. Forse apparteneva alla donna che si era suicidata. Ebbe la tentazione di afferrarlo, magari di conservarlo. Ma per farne cosa? Anche gli altri agenti andarono via e l’ingresso del piccolo albergo fu invaso dai curiosi. Un’orda le si fece addosso soffocandola di domande, toccandola, stringendola.

    II.

    «Portami un bicchiere d’acqua, che mi sento strozzare» disse donna Fernanda, crollando rumorosamente a sedere sull’unica poltrona della sala. Diede un gran respiro e cercò di allentare il colletto dell’abito. «Che corsa che mi sono fatta. Mi sono precipitata appena mi hanno chiamata. Non c’era una carrozza disponibile questa mattina, come se tutta Napoli avesse deciso di andare a passeggio!» affermò, bevendo avidamente.

    Certo la stazza non l’aiutava, ma Tittella conosceva benissimo le scuse della padrona. In realtà s’era presa tutto il tempo necessario per imbellettarsi, scegliere con cura l’abito e il cappellino. Niente doveva apparire fuori posto. Donna Fernanda amava sempre presentarsi sistemata di tutto punto, specie se c’era di mezzo qualche autorità, ma quando giunse, il commissario e tutto il suo seguito erano andati via da un pezzo.

    Ciruzzo, l’altro inserviente dell’albergo, aveva dovuto chiudere l’ingresso a chiave. Fuori si sentivano ancora le proteste della gente. Volevano sapere, ascoltare, sentire il racconto del macabro episodio. Alcuni avevano addirittura cercato di salire le scale, entrare nella stanza, sperando di trovare i cadaveri. Ciruzzo inizialmente aveva lasciato fare, divertito, con Tittella seduta in un angolo. Ma l’arrivo di donna Fernanda aveva messo fine a tutto quel caos. Era bastato un suo sguardo per capire cosa fare per evitare di incorrere in una sfuriata. Velocemente, Ciruzzo aveva fatto sgomberare l’ingresso, alzando la voce e spingendo fuori bruscamente i curiosi. In cuor suo però sperava che la porta cedesse sotto quella forza e che l’albergo si riempisse di folla. Era ancora ritto immobile davanti l’ingresso, come un soldato di sentinella.

    «È tutto sistemato, donna Fernanda» annunciò Tittella stancamente. «Il commissario ha detto che è tutto chiaro. I giovani si sono ammazzati. Hanno messo pure i sigilli alla porta della stanza».

    «Allora non possiamo vedere niente?» domandò Ciruzzo avvicinandosi, deluso.

    «Ma cosa vorresti vedere, animale che non sei altro!» esclamò la padrona. «Se hanno messo i sigilli, lì dentro non ci può entrare nessuno!» Si portò una mano alla gola, avvilita. «Vorrà dire che dovremo rinunciare per qualche giorno ad affittarla. Qualche soldo in meno, pazienza, ma che dobbiamo fare!» pensò ad alta voce. «Più tardi vado in commissariato a chiedere per quanto tempo. Qui con le stanze ci lavoriamo, mica le teniamo a farci ballare i topi!»

    «Ma guarda cosa va a pensare» disse tra sé Ciruzzo «sempre a far di conto». Non sapendo bene cosa fare, tornò vicino l’ingresso, tendendo l’orecchio alla strada. La folla non si era dispersa e sinceramente lui non vedeva l’ora che la padrona andasse via per farla rientrare e raccontare l’accaduto. Anche se non era stato di turno quella notte, maledetta la sorte, avrebbe avuto modo di intrattenere i curiosi con la sua versione arricchita di particolari fantasiosi. In fondo era sempre un dipendente dell’albergo, aveva che dire.

    «Ti sei spaventata?» domandò donna Fernanda a Tittella.

    Lei si limitò a scrollare il capo.

    «Io sarei morta di paura, se avessi visto i cadaveri. Mi fanno impressione» dichiarò la padrona. Poggiando i gomiti sui braccioli, si adagiò meglio sulla poltrona e aggiunse: «È rimasto qualcuno, su nelle altre camere?»

    «Nessuno, hanno mandato tutti via. La signora Casto è stata interrogata e poi si è allontanata. Hanno pure fermato quel giovane che si porta appresso ultimamente, ieri sera erano insieme. Ma hanno capito subito che non c’entravano niente. Quel ragazzo tremava, non so se per la vergogna o lo spavento.»

    Donna Fernanda fece un sorriso e sospirò. «E chi altri c’era?»

    «L’amico vostro, Giuseppe Sarnataro. Pure lui hanno interrogato ma gli hanno chiesto di rimanere a disposizione delle autorità. Non si deve allontanare da Napoli».

    «Povero Peppino. Quello non è capace di ammazzare una mosca».

    «Io credo che il commissario gli abbia chiesto di rimanere a disposizione tanto per dire qualcosa. Come quel foglio che mi ha fatto firmare come fosse chissà che.»

    Tittella era appoggiata al muro, gli occhi chiusi e le mani in grembo, come una scolaretta che recita una poesia. La proprietaria si guardò intorno, poggiando gli occhi sul pavimento, il soffitto, le scale che portavano alle stanze. Sembrava immersa in un pensiero profondo. «Ciruzzo!» gridò improvvisamente.

    «Comandi, donna Fernanda» disse il giovane, riavvicinandosi. Incrociò le braccia e le si parò davanti, intuendo le sue intenzioni.

    Sempre seduta come un’antica matrona, lei lo squadrò da capo a piedi. Scosse la testa con rassegnazione e sospirò. «Qui bisogna pulire da cima a fondo! Non possiamo lasciare l’albergo in queste condizioni. Comincia a mettere ordine» comandò. «E tu, Tittella, prima di andare via, ti prego, siediti vicino a me e raccontami un’altra volta l’intera faccenda» concluse, con voce supplichevole.

    III.

    Quella sera il vento si accaniva contro la città e nonostante i mille accorgimenti, il freddo s’insinuava in ogni angolo. Tittella aveva controllato che la finestra sul cortile fosse ben chiusa, bastava poco per spalancarla. Il sistema di riscaldamento non funzionava più tanto bene e sarebbe stata opportuna una revisione, ma a donna Fernanda evidentemente importava poco.

    Quando aveva il turno di notte, Tittella non riposava mai veramente bene, non riusciva proprio a stare tranquilla. Era pur vero che lavorava lì da otto anni, da quando ne aveva dodici, e non era mai accaduto nulla di pericoloso. Malintesi con qualche cliente c’erano stati, ma lei aveva sempre evitato polemiche, timorosa delle reazioni e soprattutto di perdere il posto. Ma quella paura che potesse succederle qualcosa era sempre in agguato. Sapeva bene che, nel caso, sarebbe bastato correre fuori la strada e fermare qualche passante per chiedere aiuto, ma spesso la gente che circolava di notte era più pericolosa di quella che pernottava in albergo.

    Sentiva cigolare l’insegna arrugginita che dava sulla strada. Fortunatamente reggeva bene, attaccata al perno di ferro posto in alto sulla destra. Albergo Luna recitava. Era un vecchio e decadente palazzetto posto alla metà di Vicolo Carmignano. S’era seduta dietro al bancone e, acceso il lume a petrolio, aveva cominciato il primo solitario. La notte era lunga e se non si fosse presentato nessun altro, verso la mezzanotte avrebbe potuto dare un giro di chiave. Era solita dormicchiare giusto qualche ora sulla vecchia poltrona, per poi svegliarsi verso le quattro. Era abituata a fare sacrifici, viveva la sua condizione con rassegnazione. Cosa mai avrebbe potuto fare, rifiutarsi di fare il turno di notte? D’altronde, il lavoro più intenso era di giorno, con il viavai delle ragazze. L’asso di denari non voleva saperne di uscire. Faceva i capricci? Si nascondeva di proposito per indispettirla? Era già la terza volta che rifaceva daccapo il solitario ma, continuando a perdere, aveva deciso di raggruppare le carte e riporle nel primo cassetto. Stava pensando di mangiare qualcosa quando li aveva visti entrare.

    Aveva capito al volo che non si trattava della solita gente che frequentava l’albergo. Erano due giovani di bell’aspetto, come del resto avrebbe riferito il mattino dopo al commissario. L’uomo aveva un volto delicato, e al contempo deciso, con un paio di folti baffi. I lunghi capelli neri erano tirati indietro, legati da un sottile nastro di velluto. Se non fosse stato per il suo impeccabile italiano, lei l’avrebbe facilmente scambiato per un turista straniero, di quelli sudamericani. La pelle olivastra, gli occhi profondi, le mani sottili, curate, da signore, che reggevano una costosissima valigia in pelle. Al suo fianco una ragazza bella ed esile. Nonostante l’aria perbene, la coppia dava l’impressione di voler nascondere qualcosa o sfuggire da qualcuno. La sensazione era palpabile, da poterla toccare. Ma Tittella aveva cacciato quel pensiero e aveva sorriso.

    «Avete una camera libera? Una qualsiasi, ne avremmo bisogno solo per questa notte» aveva detto l’uomo.

    «Certamente signori, prego accomodatevi!» era stata la sua risposta.

    La donna della coppia celava il viso sotto una delicata veletta. Indossava un cappotto di lana mohair abbinato a guanti di capretto, un abbigliamento da signora, di quelli che nemmeno donna Fernanda poteva permettersi. Era spaventata e lo dissimulava male. Guardava continuamente alla porta, come temesse l’arrivo di qualcuno. A Tittella quel particolare non era sfuggito, e anch’essa aveva dato un rapido sguardo all’ingresso, ma nonostante l’insolita sensazione di allarme i due giovani le avevano fatto simpatia. Forse fuggivano da un marito geloso. Lei era abituata alle stranezze della gente e la coppia non dava l’idea di portare guai.

    «Favorite le generalità» aveva detto.

    Donna Fernanda ci teneva tanto a farle registrare i nomi degli ospiti, ma che senso aveva se per la maggior parte davano nomi falsi? Lì venivano solo amanti clandestini. La gente perbene entrava in quel quartiere popolare e promiscuo, alle spalle di Porta Nolana, solo per nascondersi. Donna Fernanda diceva che le serviva lo stesso, per fare i conti, e Tittella aveva imparato un po’ a leggere e scrivere apposta per quello, ma ancora ci metteva le ore. Tant’è che prima scarabocchiava i nomi su di un quaderno e poi, con calma, durante la notte, li trascriveva in bella copia.

    Quel giovane però non aveva dato un nome falso. Le aveva messo in mano addirittura un passaporto, dicendo: «Prego. Per la signora garantisco io.»

    Mentre Tittella decifrava quello che stava scritto su quel foglio, i due ragazzi sembravano ansiosi di salire in camera. Aveva fatto più in fretta che poteva, poi gli aveva restituito il documento, pensando a quale stanza dargli. L’albergo disponeva di nove camere, tre per piano.

    «Prego, la numero tre» aveva detto decisa, protendendo la chiave. «Al primo piano, a sinistra». Era la meno schifosa. Ricordava anche di aver cambiato le lenzuola, qualche giorno prima. Nell’avviarsi, per un momento, quei due le avevano dato l’impressione di aver cambiato improvvisamente idea. La ragazza non aveva detto una parola per tutto il tempo e si era lasciata condurre da lui per un braccio fino al piano di sopra.

    Allora Tittella aveva tirato fuori da un ripiano del bancone il vecchio registro e pazientemente, intinto il calamaio, si era accinta all’opera. Francesco Falco, che bel nome, sembrava una carezza. La effe le era venuta bene, elegante, come si addiceva a quel giovane. Delicato, educato, con quell’abito dal taglio impeccabile, che gli calzava a pennello. Chissà chi e cosa si erano lasciati dietro, quei

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