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Le stelle che non cadono
Le stelle che non cadono
Le stelle che non cadono
E-book414 pagine5 ore

Le stelle che non cadono

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Info su questo ebook

Nel salone di Palazzo Boldrini, a Lendinara, il 24 settembre 2017, "Le stelle che non cadono" di Giuseppe L. L. Terracciano è stata scelta dalla prestigiosa giuria fra le 426 opere in gara e ha ricevuto il Premio Letterario Internazionale quale "Migliore Opera Autobiografica".
LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2017
ISBN9788892669987
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    Anteprima del libro

    Le stelle che non cadono - Giuseppe L.L. Terracciano

    tedesca.

    1

    Sogni e realtà

    …Mi ritrovai a quattordici anni a un punto di partenza, pronto a spiccare il volo verso il futuro. Ben presto mi accorsi che mi mancavano le ali…

    Nel settembre del 1943 le truppe alleate sbarcarono a Salerno e iniziarono l’avanzata verso Napoli. Casoria fu occupata prima dai tedeschi e, in seguito, dagli alleati, che la usavano come deposito logistico. Le case erano semidistrutte. Sui campi non cresceva né grano, né papaveri. Piovevano bombe dal cielo e le mine impedivano ai contadini di lavorare i campi. Quasi ogni notte, svegliati dall’ululato delle sirene, io in braccio a mia sorella maggiore, mio fratello in braccio alla mamma (pesava un po’ più di me), attraversavamo di corsa la strada per cercare riparo in uno scantinato, che si trovava nel seminterrato di un edificio, non proprio stabile, all’angolo della strada. Più tardi mia sorella mi confidò che, se l’edificio fosse stato colpito, anche solo di striscio, da una bomba, avremmo fatto tutti la morte dei sorci. Lo scantinato non era un riparo, ma essendo seminterrato, ci dava l’illusione di esserlo. Dall’Abbazia di Montecassino, a soli 94 km da Casoria, arrivavano notizie devastanti: il complesso dell’Abbazia era in procinto di essere distrutto per la quarta volta nella sua storia. Fondato da San Benedetto verso l’anno 529, il Monastero di Montecassino fu eretto sulle fondamenta di una fortificazione romana del municipio di Casinum. In questo luogo si esercitava ancora il culto pagano, in un tempio dedicato ad Apollo. La prima distruzione avviene nel 577 per opera dei Longobardi. Nell’883 i Saraceni invadono il Monastero, lo saccheggiano e lo danno alle fiamme.

    Nel 1349 avviene la terza distruzione, questa volta causata da un terribile terremoto, che lasciò in piedi soltanto poche mura. Il 15 febbraio 1944, nella fase finale della seconda guerra mondiale, Montecassino si trovò sulla linea di scontro tra i tedeschi e gli alleati. La storia ci riporta, che dal 15 al 18 febbraio del 1944, per effetto dei bombardamenti anglo-americani, dovuti a una decisione affrettata dei comandi, erroneamente convinti, che il Monastero fosse stato trasformato in un caposaldo tedesco, caddero su Montecassino tonnellate di bombe. Forse si trattò di un errore di tattica militare, ma intanto tutto quello, che per quasi un millennio e mezzo aveva rappresentato la cultura e il lavoro benedettino, fu ridotto a un ammasso di pietre. Casoria era piena di alleati, tende dappertutto, motociclette che andavano avanti e indietro. Per me, che allora avevo quattro anni, tutto questo movimento di gente in divisa, polvere che si alzava al passaggio di ogni camionetta (allora c’erano poche strade asfaltate e la carrozzella era il normale mezzo di trasporto) era affascinante. Douglas, un soldato alleato inglese, aveva montato la sua brandina nel sottoscala a piano terra della nostra abitazione. Di mattino, quando era sveglio, venivano a trovarlo alcuni commilitoni. Quando sentivo un vociare incomprensibile, rinforzato dalla tromba delle scale, scendevo per organizzare qualcosa da mangiare, da bere, non importa; per me era una questione di sfida, che io portassi qualcosa a casa. Iniziavo sempre da Douglas, perché sapevo che gli ero simpatico.

    Tutt’a pasta

    gli chiedevo, e lui ridendo: You don’t need Tooth paste ed io:

    allora dammi nu poco di smoc

    e lui ridendo: You don’t smoke

    E sì, vabbé ma smocca papà affermavo con forza.

    Ogni mattina, facevo il giro del campo e riuscivo spesso a portare qualcosa a casa: una sigaretta, un pezzetto di cioccolata, un tubetto di dentifricio vuoto, dal quale Papà riusciva sempre a tirarne fuori qualche traccia col suo sistema di stiratura totale del tubetto.

    Una volta sono riuscito a portare a casa un pezzetto di un qualcosa che sembrava un sapone giallognolo, avvolto in una carta che non era né carta, né stagnola.

    Douglas mi disse, che si poteva mangiare e che era molto buono e prezioso.

    Io corsi subito dalla mamma, la quale, alla sola vista esclamò: è burro!

    Prese un pezzettino di pane e, con la punta del coltello, vi spalmò una quantità invisibile di quella cosa.

    È l’unica cosa al mondo, che non avrei dovuto mai fare! Era una cosa disgustosa, un sapore rancido, un odore estraneo, una cosa di un altro mondo.

    Mi sentii male.

    Questo episodio che mi ritorna spesso alla mente, è stato per me una specie d’incubo, perché una gran parte della mia vita si è svolta in Germania, Austria e altri paesi del centro e nord dell’Europa. In questi paesi non c’erano la conoscenza e la cultura dell’olio d’oliva e tante volte, ancora oggi, è stato ed è ancora per me un tormento, essere invitato a cena dagli amici e confessare, che io assolutamente non riesco a mangiare piatti preparati col burro.

    A sei anni andai alle scuole elementari, a otto m’innamorai di una bambina che incontrai a scuola. Era dolcissima e si chiamava Maria Rosa.

    Cambiavo abito un paio di volte al giorno per farmi bello e andavo sempre in giro per Casoria a cercarla, ma non sempre riuscivo a vederla e, quando c’incontravamo, non osavamo darci la mano perché arrossivamo subito per l’emozione.

    Mia madre ci insegnò, che bisogna obbedire, quando lei dice di fare una certa cosa. Io credevo che si riferisse a mio fratello, che era sinceramente più buono di me, ma mia madre aveva deciso un pomeriggio di fare un test sulla mia resistenza all’obbedienza.

    Mi ero vestito più bello del solito e stavo per scappare. Mia madre mi afferrò all’ultimo momento sul pianerottolo e mi disse di portare il secchio della spazzatura giù al raccoglitore.

    Io risposi che non sarei andato;

    lei m’intimò di portare via la spazzatura. Io risposi che non avevo tempo.

    Dopo un ordine imperativo di mia madre e il mio ripetuto rifiuto, mi sentii rovesciare sulla testa tutta la spazzatura. Dovetti pulire tutta la scala e lavarmi dalla testa ai piedi. Quel giorno non uscii più e m’iscrissi al volontariato per lo smaltimento quotidiano della spazzatura dal primo piano al piano terra, anche quando il secchio era vuoto.

    I cinque anni di scuola elementare e i tre di scuola di avviamento industriale passarono veloci. Mi ritrovai a quattordici anni a un punto di partenza, pronto a spiccare il volo verso il futuro.

    Ben presto mi resi conto che mi mancavano le ali.

    La vita era un futuro infinito: sogni, speranze, miraggi, erano tutti lì ad attendermi, non sapevo come e in quale direzione muovermi.

    Volevo bruciare i tempi, avere tanti soldi per aiutare la mia famiglia. Dicevo alla mamma che possedevo cento lire, lei non mi credeva ed io insistevo: trenta lire le ho nel salvadanaio, venti lire forse me le darà Papà, venti lire me le darà certamente lo zio di Napoli, che, forse, ci verrà a trovare in settimana, venti lire non so ancora chi me le regalerà, dieci lire non so ancora chi me le regalerà e così ho cento lire.

    Non so per quali vie mi capitarono nelle mani i dialoghi di Socrate trasmessici dal suo allievo più attento e importante: Platone.

    Divoravo queste scritture con avidità; ero affascinato da quel mondo d’ideali così lontani dalla realtà della vita che si svolgeva a Casoria. Questi valori cominciarono poco a poco a diventare i miei.

    Socrate era un uomo piccolo di statura e non appariscente. Nelle strade e nelle piazze di Atene parlava con i giovani e li coinvolgeva in discussioni su bene, libertà, equità, bellezza e amore.

    Non era certamente bello, ma era pronto e vivace di spirito e possedeva un’ironia scintillante e una capacità di far riflettere i suoi ascoltatori, i quali, prima scettici, erano via via affascinati dai suoi pensieri.

    La sua passione per la giustizia e la verità fecero breccia nelle schiere dei giovani, ma irritò il governo, il quale accusandolo di non essere devoto e di sedurre e istigare la gioventù, lo condannò a morte.

    Egli difese a testa alta i suoi pensieri davanti ai giudici e vuotò il calice col veleno, nonostante avesse la possibilità di fuggire.

    Ci lascia, per tutti i tempi, l’esempio di un saggio che è pronto a sacrificare la vita per le sue convinzioni.

    Non ci sono scritti di Socrate.

    Attraverso la descrizione del suo allievo Platone, scopriamo tanti aspetti, che ancora oggi toccano ciò che sentiamo come bisogno in questa società materialista e opportunista. Platone ha origine da una famiglia nobile di Atene; era un uomo di mondo: è stato in Egitto, nell’Africa settentrionale e nell’Italia meridionale. Tentò di

    realizzare le sue idee da statista alla corte di Dionisio a Siracusa, ma cadde in disgrazia e giunse, per un certo tempo, persino alla schiavitù.

    Nelle sue conversazioni era sempre Socrate il suo partner. La linea idealistica e mistica dei suoi dialoghi, così come il loro calore religioso, non hanno rappresentato solamente un lavoro preparatorio al Cristianesimo, ma sono rimasti una sorgente, dalla quale attinge ogni nuovo idealismo.

    Mi procurai l’Iliade di Omero. Volevo imparare a memoria i ventiquattro libri per presentarmi a una trasmissione che allora era in voga; si chiamava lascia o raddoppia. Cominciai con i primi dei quasi diciassettemila versi …

    Cantami o diva del pelìde Achille

    l’ira funesta che infiniti addusse

    lutti agli Achei, molte anzi tempo all’orco

    generose travolse alme d’eroi,

    e di cani e d’augelli orrido pasto

    lor salme abbandonò……

    Mi fermai dopo appena un centinaio di versi;

    non era quella la strada che mi avrebbe portato nel futuro. Avevo sviluppato una mia tecnica per imparare a memoria i versi, che più tardi mi sarebbe stata molto utile:

    Leggevo un verso lentamente, lo rileggevo ad alta voce scandendo ogni singola parola, lo scrivevo, poi lo recitavo a occhi chiusi e infine controllavo il verso recitato con quello scritto nel mio quaderno.

    Mi accorsi che la mia era un’impresa impossibile; richiedeva troppa pazienza e razionalità, mentre la mia testa era ancora piena di fantasia.

    Mia madre aveva sette sorelle e nessun fratello. Era la terza figlia in ordine di età. Aveva appena compiuto otto anni, quando venne a mancare suo padre, mio nonno. La nonna dovette andare a lavorare nei campi e a mia madre toccò il compito di accudire alle sorelline, per le quali fu, fino a tarda età, un punto di riferimento.

    Mio padre era benestante, un uomo bello e colto. Aveva una bellissima mamma, che morì in seguito al diffondersi della febbre spagnola nel 1918.

    La febbre spagnola è ancora oggi ricordata come la più grave epidemia d’influenza dell’umanità. Tra il 1917 e il 1919 morirono più di cinquanta milioni di persone nel mondo (si parlò perfino di cento milioni); più di quanti ne causò la grande guerra e più di quelli causati nell’Europa del trecento dalla peste nera. Fu causata dal virus H1N1, molto simile al virus dell’aviaria e a quello dell’influenza suina.

    La sua gravità fu sottostimata e solo la stampa spagnola ne parlava, perché la Spagna, non partecipando alla prima guerra mondiale, non era sottoposta alla censura di guerra. Da qui il nome febbre spagnola.

    Il padre di mio padre (mio nonno) era anch’egli un bell’uomo ma non mi piaceva; non so se i nonni devono piacere per forza, soltanto perché sono nonni. Non mi piaceva, perché penso che io non gli piacessi.

    Essendo mio fratello nato due anni prima di me e otto anni dopo l’ultima delle quattro sorelle, era lui che portava il nome e cognome del nonno, padre di mio padre, mentre io mi dovetti accontentare di portare il nome del nonno, padre di mia madre, che non ho mai conosciuto e che non portava ad alcuna discendenza.

    Il nonno paterno mi faceva sempre notare, che mio fratello era il suo prediletto. Quando, ancora bambini, andavamo a trovarlo la domenica, egli faceva sempre la stessa domanda: chi è il più bravo di voi due? Io sono il più bravo!

    Allora tuo fratello è meno bravo e gli regalo due centesimi per consolarlo.

    La domenica successiva:

    Chi è il più cattivo di voi due? Io sono il più cattivo!

    Allora tuo fratello è più buono e gli regalo due centesimi per premiarlo.

    Mi rallegravo per mio fratello (apparentemente), perché così ci aveva insegnato nostra madre, ma mi arrabbiavo molto, perché non riuscivo a dare una risposta che regalasse anche a me qualche consolazione o qualche premio. Decisi che non sarei più andato a trovare il nonno.

    Una delle sorelle di mia madre aveva un figlio, che lavorava in una propria officina e faceva riparazioni e vendita di bilance e affettatrici più usate che nuove.

    Questo cugino era visto da noi con ammirazione per due motivi: il primo era perché abitava nella città di Napoli, mentre Casoria, anche se distante soltanto alcuni chilometri, era periferia.

    Il secondo motivo era, che avendo un’officina propria, anche se buia e angusta, significava che era un commerciante, categoria di persone altolocate e benestanti. Veramente non aveva il fisico di un commerciante; era un bell’uomo, alto, snello elegante; mentre il segno inconfondibile del commerciante era il pancione che portava a spasso. Avere la pancia grossa significava aver mangiato abbondantemente.

    A Casoria non erano molti, quelli che avevano la pancia da commerciante.

    Mio cugino accettò di prendermi a lavorare nella sua officina. Iniziava la mia vita lavorativa; stavo diventando adulto. Guadagnavo duemila lire la settimana; giusto per pagare il tram che dalla piazza principale di Casoria mi portava a Piazza Principe Umberto di Napoli.

    Da lì ad arrivare all’officina di mio cugino, c’erano due o tre chilometri da percorrere. I soldi non bastavano per prendere un altro tram, né il mattino, né la sera e allora non mi restava che andare a piedi.

    Nell’officina non c’era un maestro o un operaio che potesse insegnare il mestiere; quando mio cugino faceva una riparazione, bisognava essere molto attenti; guardare, intuire e memorizzare.

    Uno dei compiti assegnatimi, che non mi piaceva per nulla, era di portare (e poi andare a riprendere) i piatti delle bilance a cromare.

    Era una strada molto lunga da fare, il cromatore abitava ai quartieri spagnoli. I piatti erano pesanti, erano di ottone e l’unico modo per trasportarli era porli sulla testa.

    A metà strada, tra l’officina e il cromatore avevo scoperto un muretto, dove poter fare una breve pausa. I piatti erano talmente pesanti che da solo non riuscivo a metterli giù. Allora m’inginocchiavo fino a che la testa arrivasse all’altezza del muretto, facevo scivolare i piatti in avanti e così mi liberavo del peso, almeno per alcuni minuti.

    Mio cugino era una persona buona, sempre allegro e con i suoi discorsi filosofici e satirici, come li sanno fare così bene i napoletani; non credo che volesse farmi lavorare tanto: il problema era il mio fisico, esile, pochi muscoli, neanche ancora quindicenne…poi quel caldo afoso… sudavo.

    Il ritorno non era mai a vuoto, perché riportavo indietro i piatti che avevo consegnato la volta precedente.

    Quando, seduto sul muretto, mi riposavo, mi veniva in mente sempre una piccola storia, che mio padre mi raccontava:

    C’era un uomo che un giorno caricò il suo vecchio padre sulle spalle e si mise in cammino senza aprire bocca. Camminava diritto verso una destinazione che solo lui conosceva.

    Alla domanda di suo padre, dove lo portasse, non rispondeva. Arrivato nelle vicinanze di un muretto, si fermò, vi si sedette sopra per una breve sosta. Suo padre gli disse: questo muretto lo conosco bene. Anch’io mi fermai in questo posto, quando portai mio padre all’ospizio per i vecchi.

    Il figlio, colpito da questa esternazione, riprese il padre sulle spalle e, piangendo, se lo riportò a casa.

    Non so perché mio padre mi raccontasse questa storiella; temeva forse, che avrei potuto farlo anch’io con lui? Solo il pensiero, che avesse potuto crederlo, mi riempiva di tristezza.

    Il lavoro nell’officina di mio cugino mi piaceva, ma non mi soddisfaceva.

    Volevo fare di più, ma non vedevo altre possibilità. Mi venne un’idea che misi subito in pratica:

    La sera, quando rientravo a casa dal lavoro, mi lavavo, cambiavo l’abito, mangiavo velocemente un piatto di minestra (la carne si mangiava solo la domenica) e, con una borsetta portadocumenti di plastica nera, somigliante da vicino molto a vera pelle, con dentro qualche vecchio depliant della Bizerba (marca molto nota di bilance), alcune notizie sulla disponibilità nel magazzino di bilance e affettatrici usate, mi mettevo in cammino.

    Strada dopo strada, vicolo dopo vicolo, visitai tutte le botteghe, che avrebbero potuto aver bisogno di qualche macchina, che io ero pronto a mediare, coinvolgendo mio cugino nella fase finale della vendita. Per ogni bilancia usata venduta, mio cugino mi dava cinquemila lire; per ogni affettatrice, diecimila. Riuscii, in tutta Casoria, a vendere tre bilance ma

    nessuna affettatrice, perché erano troppo care.

    Tutti avevano già una bilancia; nessuno ne voleva una più moderna. Non che i nostri prodotti usati fossero più moderni, ma erano certamente più luccicanti e ciò era importante per il negozio e per i clienti.

    Completato il giro di tutti i negozi, avevo guadagnato quindicimila lire (pur sempre lo stipendio di sette settimane di lavoro!) ed ero tornato al punto di partenza.

    Era lo stesso punto, da dove ero partito alcune settimane prima, ma avevo imparato a parlare con le persone. Ogni colloquio mi aveva reso più sicuro e aveva incrementato la valutazione di me stesso.

    Dopo ogni visita, registravo in un quaderno il nome del negozio, l’indirizzo e le apparecchiature in uso. Intuivo, che queste informazioni potevano rappresentare un potenziale importante, ma non sapevo come utilizzarlo. Cercavo un qualcosa di continuo, non una provvigione unica per ogni macchina venduta e poi basta, tanto da vendere non c’era più niente. Cambiai strategia.

    Mi misi in cammino per un nuovo giro delle botteghe, ma limitato ai soli salumieri. Chiesi se potevo pulire l’affettatrice gratis. Risposero tutti di sì.

    Mi misi all’opera; aprii la mia borsetta, che questa volta conteneva un tubetto di pasta abrasiva, una bottiglina di spirito e uno straccio bianco candido; tirai fuori anche qualche attrezzo, che non utilizzavo, ma che faceva bella figura e riposi tutto ben allineato sullo straccio bianco sul bancone, accanto all’affettatrice.

    Cominciai a pulire prima la lama, poi lucidai la verniciatura. Alla fine del lavoro dicevo al salumiere di non dare al cliente le prime fette di prosciutto, perché sapevano di spirito.

    Quasi tutti affettavano quattro o cinque fettine e me le davano da portare a casa.

    Vidi che erano visibilmente soddisfatti del mio lavoro. In quel momento offrii loro di tornare una volta al mese e di pulire l’affettatrice, incluso l’affilatura della lama. Il tutto per 500 lire e un pacchetto di sigarette.

    Io a quindici anni non fumavo ancora, ma mio fratello, che aveva due anni più di me, già da un anno aveva il permesso di fumare in casa: fatto molto importante per essere considerato adulto; così gli vendevo i pacchetti di sigarette a prezzo ridotto.

    In seguito facevo anche il service alle bilance: lucidavo la vernice, il piatto cromato, smontavo il coperchio anteriore per dimostrare che conoscevo il mestiere, entravo all’interno della bilancia con un attrezzino simile a un uncinetto, che serviva per sganciare e agganciare le molle, ma non toccavo niente, chiudevo tutto e prendevo cinquecento lire per ogni bilancia al mese.

    La registrazione della lancetta sullo zero era inclusa nel prezzo, ma non tutti desideravano questa prestazione. Se c’era già un contratto di manutenzione per l’affettatrice, concedevo uno sconto di duecento lire sul canone per la bilancia.

    Ero contento, avevo i miei clienti e guadagnavo i miei soldi, che puntualmente consegnavo alla mamma, perché i soldi in casa non bastavano mai.

    Restai con mio cugino fino a settembre del 1955.

    2

    La domenica

    …La cosa più bella della messa fu la cerimonia dopo la messa. Don Biagio, tornato in Sacrestia, riempì un bel bicchiere di Vermut e mi diede due grossi biscotti da inzuppare…

    La domenica è stata sempre un giorno di festa; un giorno completamente diverso dagli altri giorni della settimana. C’era festa nelle strade, i venditori ambulanti con le cesti colme di verdure fresche, che venivano direttamente dal loro orto.

    C’era la messa delle nove nella chiesetta di San Rocco, ma non ci andavo quasi mai, perché in quella zona non conoscevo nessuno.

    C’era la messa delle dieci nella chiesa di San Benedetto, la mia parrocchia, dove è stato ritrovato il più antico documento di Casoria: una lapide di un sarcofago di un guerriero morto nel 1281 e sepolto in un’antica Cappella all’interno della chiesa.

    In questa Parrocchia, durante la Messa passava il sagrestano Tatonno per la raccolta delle offerte. chi non aveva spiccioli metteva una banconota nel cestino e si prendeva il resto. Era sempre attento a fermarsi e a inginocchiarsi in direzione dell’altare maggiore, quando giungeva il momento della Liturgia Eucaristica.

    Una cosa piuttosto strana ma divertente era, che insieme alla propria offerta, si poteva offrire l’offerta per qualcun altro seduto in chiesa. Quando Tatonno arrivava dal destinatario della’offerta, rifiutava l’offerta di quest’ultimo e, indicava davanti a tutti, l’offerente che aveva dato l’obolo in sua vece.

    Questo gesto di cortesia era molto apprezzato ed era segnalato con un breve cenno della testa verso l’offerente. Dopo la Messa, fuori dalla chiesa c’erano poi le strette di mano con i dovuti ringraziamenti per l’offerta data. Era un bel gesto, ma non per il sagrestano, il quale doveva avere una memoria da computer per tenere a mente non solo le persone che offrivano, ma soprattutto gli indirizzati, cosa non facile, quando si arrivava facilmente a una trentina di fedeli da individuare e da memorizzare. Capitava abbastanza frequentemente, che fuori della chiesa si ringraziassero persone sconosciute, che si meravigliavano dei ringraziamenti ricevuti ma che non osavano chiedere il perché.

    C’era poi la Messa delle undici nella chiesa dei Sacramentalisti, una chiesa raccolta, che mi ha sempre affascinato, perché durante la celebrazione eucaristica si creava un’atmosfera arcana.

    Il profumo dell’incenso che aleggiava nell’aria, il soffitto della chiesa dipinto di un blu Giottesco, che rappresenta un cielo stellato, le monache, nascoste dietro le finestre alte che cantavano, durante la Messa, salmi e altri canti sacri con una voce dolce e tenue; insieme creavano quell’atmosfera unica che mi avvolgeva e mi faceva sentire in pace con il Signore, con me stesso e con tutta l’umanità. La chiesa, con annesso il monastero, fu costruita dall’ordine delle Vittime Espiatrici di Gesù Sacramento tra il 1893 e il 1899, congregazione fondata da madre Maria Cristina Brando.

    La religiosa, già novizia presso il monastero napoletano delle Adoratrici Perpetue del Santissimo Sacramento, per motivi di salute si trasferì a Casoria e, dietro consiglio di padre Ludovico da Casoria, realizzò il nuovo istituto dedito all’istruzione delle fanciulle.

    La spiritualità espiatrice della fondatrice divenne il carisma dell’istituto. Maria Cristina Brando è stata beatificata da Giovanni Paolo II nel 2003.

    La chiesa, detta anche delle Sacramentine mi affascinava, perché era l’unica chiesa di Casoria costruita in stile gotico.

    Il gotico è arrivato in Italia nel XIII secolo, ma ha trovato radici profonde del romanico. Esso fu introdotto da un ordine religioso diramato dall’Ordine Benedettino: i Cistercensi, chiamati così, perché il loro ordine ebbe origine dall’abbazia di Cîteaux (in latino Cistercium) in Borgogna. Il periodo in cui in Italia si sviluppa il gotico, è anche un periodo di rinascita della cultura. È un periodo di grandi maestri come Giotto.

    La pittura si esprimeva in cicli di affreschi. Nelle chiese gotiche italiane, le finestre erano portate in alto e nella zona absidale, perché le pareti dovevano essere destinate agli affreschi.

    Poi c’era la Messa delle dodici nella chiesa di San Mauro Abate, Patrono di Casoria una grandiosa struttura in stile barocco, costruita ai primi del Seicento e conclusa nel 1621.

    La messa delle dodici era molto utile, quando si arrivava tardi a quella delle undici, aveva però lo svantaggio, che subito dopo la Messa dovevo recarmi a casa di corsa per arrivare prima che nostro padre desse inizio, con un gesto di benedizione della tavola e di tutti i sei figli pettinati, con le mani lavate e seduti, al pranzo della domenica (unico vero pranzo della settimana).

    Guai ad arrivare in ritardo, perché venivo riaccompagnato all’uscio di casa dalla mamma, che mi tranquillizzava con una voce appena percettibile per non compromettere l’autorità di nostro padre, il quale la poteva esercitare solo la domenica, perché dal lunedì al sabato era la mamma che comandava tutto e tutti.

    Appena uscito, dovevo bussare alla porta (il campanello non l’avevamo), chiedere il permesso di poter entrare e chiedere scusa a tutti i presenti per il ritardo, dopodiché, con un cenno della testa nostro padre dava il consenso di sedermi a tavola e di mangiare.

    Qualche volta tentennava prima di darmi il consenso; ciò creava una suspense nell’aria perché tutti smettevano di mangiare e di parlare e i loro occhi si muovevano tra la testa di nostro padre e la mia come una pallina di ping-pong.

    Le chiese le conoscevo tutte. Durante la Liturgia del Natale mi sentivo un eroe. Allora, a otto anni, avevo una voce tenorile ed ero ambito dalla mia Parrocchia per cantare la Messa solenne di mezzanotte. Si dice Messa di mezzanotte, ma iniziava alle dieci di sera, perché Don Biagio, il Parroco di San Benedetto, aveva parecchi anni.

    La mamma era molto orgogliosa di me, perché tutte le donne le chiedevano se era suo figlio che cantava e le facevano i complimenti.

    L’orchestra era sistemata dietro l’altare, per cui i fedeli non ci vedevano e noi non vedevamo loro. Essa era composta di un piccolo organo con due pedali che bisognava continuamente attivare per produrre aria sufficiente a far uscire i suoni; poiché l’aria usciva anche da altre parti, qualche volta mancava qualche tono. I tasti erano ricoperti di madreperla, ma alcuni erano senza. L’organista suonava per conto proprio, non aveva le note musicali, anche perché se le avesse avute non avrebbe saputo cosa farne. Il coro era formato da una sola voce: la mia. Anch’io cantavo per conto mio: iniziavo con il Gloria e poco dopo passavo al Credo, poi al Sanctus e poi all’Agnus Dei. Tutto espressamente in latino.

    Per lo più iniziavo io a cantare e l’organista mi seguiva. Penso che al contrario sarebbe stata una grande catastrofe.

    La cosa più bella della Messa di Natale fu la cerimonia dopo la Messa. Don Biagio, tornato in Sagrestia, riempì un bel bicchiere di vermut e mi diede due grossi biscotti da inzuppare. Quel vermut era così buono!

    Deve essere stato un martini bianco (a quel tempo non avrei mai e poi mai immaginato, che un giorno sarei diventato direttore dell’organizzazione della martini & Rossi). Peccato, che dopo aver vuotato il bicchiere, non mi ricordassi più dove fossi. La mamma, che si era attardata a parlare con le comare, venne in Sagrestia per accompagnarmi a casa. Il giorno seguente mi raccontò che per tutto il percorso, dalla chiesa di San Benedetto a casa nostra, in piena notte, io continuavo a cantare a squarciagola: Et in terra pax homnibus, bonae voluntatis, laudamus…La domenica era tutta una festa. Già dal mattino la casa era inondata di profumi di un ragù napoletano ineguagliabile. La mamma metteva a rosolare un pezzo di manzo con l’osso, quello che costa poco e dà molto sapore, nella caccavella (pentola) di coccio, poi aggiungeva una cipolla intera, una costa di sedano e una carota tagliate a pezzi, aggiungeva una foglia di lauro, diceva che fa bene allo stomaco, e faceva imbiondire il tutto.

    Alla fine versava mezzo bicchiere di vino rosso e lo lasciava consumare; dopodiché versava la polpa di pomodoro fatta in casa, e messa in bottiglie in estate, con i pomodori freschi e maturi, passati e messi in bottiglie, fatte bollire in un grande bidone, che nostra madre utilizzava sia per cuocere le bottiglie di pomodoro, che per fare il bucato con cenere e varechina.

    Al ragù aggiungeva alcune foglie di basilico, il sale, chiudeva col coperchio e lasciava cuocere a fuoco lentissimo per un paio d’ore.

    Il coperchio non chiudeva ermeticamente, cosicché dalla caccavella si sprigionava un profumo che inondava tutta la casa.

    Anche dalle altre case fuoriusciva un profumo di ragù della domenica, ma il nostro era particolare, forse perché la mamma utilizzava rigorosamente un recipiente di coccio e non una pentola di alluminio.

    Forse, anche perché, insieme alla carne, metteva una battutina di lardo e così risparmiava un po’ di olio, che a quei tempi era così caro, che si comprava a misurino di un decilitro alla volta.

    Il compito di nostro padre era di spezzettare gli ziti (maccheroni doppi lunghi circa trenta centimetri; adesso si vendono già su misura e si chiamano rigatoni o tortiglioni) in pezzi uguali, né troppo corti, né troppo lunghi e anche quello di grattugiare il formaggio parmigiano. La mamma diceva, che il formaggio si mette, quando si fa il sugo con i pomodori pelati in scatola, perché questi sono un po’ dolci e il parmigiano, essendo un po’ salato compensa il gusto. Quando si fa il sugo con i pomodori freschi, non bisogna mettere il parmigiano, perché altrimenti non si sente più il sapore del pomodoro, specialmente se si fa il sughetto sciué-sciué.

    Il sughetto sciué-sciué è detto così perché è semplice, gustoso e subito pronto. Basta mettere una padella (non di coccio; quest’ultima è riservata solo al ragù) sul fuoco con olio di oliva e alcuni spicchi d’aglio.

    Dopo che l’aglio è rosolato, si aggiungono i pomodori freschi, ben maturi, spezzettandoli con le dita sopra la padella (mai tagliarli col coltello!).

    A volte conviene spostare la padella

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