Ciancianedda e altre novelle amastratine
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Ciancianedda e altre novelle amastratine - Maria Messina
Indice
Prefazione
La porta chiusa
La signorina
Ciancianedda
Il prete nuovo
Rancore
Vincere
La sorellina
La storia di Burgio
Don Lillo
Solo-Pane
Rose rosse
Il pozzo e il professore
Mandorle
Luciuzza
L'ideale infranto
Maria Messina
Ciancianedda
ed altre novelle amastratine
Youcanprint Self-Publishing
Prefazione
Riscoperta dalla critica quasi quarant’anni dopo la sua scomparsa, avvenuta a Pistoia il 19 gennaio del 1944, grazie a Leonardo Sciascia che per primo alzò il velo di silenzio che l’aveva segregata nell’oblio, Maria Messina, nata a Palermo il 14 Marzo 1887, ebbe in vita, per circa un ventennio, una discreta notorietà nazionale. Di alcuni dei 17 libri che la scrittrice pubblicò fra il 1909 e il 1928, esistono oggi delle versioni in francese, spagnolo e americano e probabilmente altre se ne aggiungeranno visto che l’interesse per la sua opera negli ultimi decenni si è consolidato. Diversi sono anche gli studi e le pubblicazioni condotti in prevalenza da donne che in lei vedono, sia pure allo stato larvale, una sorta di antesignana di quel femminismo destinato a fermentare molti decenni dopo. Dico allo stato larvale
in quanto le puntuali e circostanziate descrizioni delle condizioni femminili che emergono dai racconti di Maria Messina servono a prendere coscienza della subalternità dell’emisfero donna in una società patriarcale che affonda nei secoli e al contempo ne costituiscono una implicita denuncia. La sua permanenza a Mistretta si protrasse per 6 anni (1903-1909), periodo che si rivelò fondamentale perché la colse in piena fase evolutiva. Quando vi arrivò con la famiglia da Palermo, al seguito del padre nominato direttore scolastico, lei era, infatti, una ragazza di 16 anni. Quando la casa editrice Treves di Milano pubblicò nel 1909 la sua prima raccolta di racconti Pettini fini
di anni, lei, ne aveva compiuti 22. Afferma in proposito lo scrittore Luciano Nanni: "A noi pare che quel periodo rivesta un’importanza capitale nella formazione letteraria della Messina, essendo gli anni in cui si sviluppano le capacità creative, perciò anche il luogo diventa stimolo per le opere future, in tutto diciassette libri. Si pensi a H. Melville e ai pochi anni in cui visse come marinaio, eppure fu tale la potenza del ricordo che realizzo capolavori come il Moby Dick. Questo perché si fissa nella memoria un tempo mitico che poi la narrativa amplia e ricrea: una affinità quindi non da trascurare". Dai toponimi e dai soprannomi che si evincono in tutti i racconti di Pettini-fini, così come nel successivo "Piccoli gorghi del 1911, si evince che l’ambiente descritto dalla scrittrice apparteneva inequivocabilmente a quello di Mistretta (cittadina nota ai tempi dell’Impero romano col nome di Amestratos e i suoi abitanti come Amastratini). Successivamente lei si spostò, sempre al seguito del padre, in Umbria, Marche, Campania e Toscana, ma un pezzo del suo cuore rimase fortemente radicato a Mistretta, cittadina che allora, per numero di abitanti era una delle prime della provincia di Messina e che, con il suo variegato carico di avventure umane, che lei aveva pazientemente scandagliato, l’aveva condotta alla maturità. La sua esperienza letteraria successiva, protrattasi fino al 1928, conserva, infatti, evidenti tracce che riconducono inequivocabilmente ancora a Mistretta. Romanzi a parte, questo fenomeno è osservabile in tutti i suoi libri di novelle.
Il prete nuovo tratta dalla raccolta
Le briciole del destino edito nel 1918 ancora dalle edizioni Treves di Milano, così comincia:
Il figlio di donna Saveria la vedova l’avevano consacrato prete e tornava dal seminario di Patti. Patti è sede della diocesi alla quale appartiene Mistretta. Ma se questo non è un indizio sufficiente si può aggiungere un altro passo dello stesso racconto:
Sono la mamma e la sorella del prete nuovo, che dice messa a San Francesco! San Francesco, ora come allora, è una delle Chiese più importanti della cittadina. Sul primo racconto della raccolta dal titolo
Ragazze Siciliane edito da Le Monnier nel 1921, ad un certo punto si legge
Concetto andò alla messa delle otto, e passeggiò sullo stradale di Santo Stefano, ed Angela andò alla messa delle cinque e non fece più uscire la cognata (Rose rosse). Lo stradale di Santo Stefano è, per Mistretta, quello che per l’appunto conduce a Santo Stefano di Camastra. In un altro racconto (Il pozzo e il professore) dello stesso volume si legge:
Ora avvenne che il professore, incontrando don Nicolino per i viali della villa (che lusso di fiori, in ogni siepe!) gli domandò dei Laganga (evidente l’ammirazione per la villa comunale di Mistretta che fino a pochi decenni fa affascinava tutti i visitatori). La Ganga, d’altronde, è uno dei cognomi più diffusi a Mistretta. Nel libro
Il guinzaglio pubblicato nel 1922, assieme a quello che dà il titolo al volume, ambientato a Napoli, ve ne sono alcuni che sicuramente sono riconducibili a Mistretta, come
Don Lillo e
Solo-Pane. In quest’ultimo un passaggio del racconto così recita:
Il maresciallo, per liberarsi da quella noia, lo fece arrestare sotto l’accusa di avere simulato un furto. (…) Le vicine mormoravano: Hanno portato Solo-Pane a San Francesco
. E’ evidente che per le vicine di qualsiasi altro paese d’Italia la frase non avrebbe avuto significato. Ma per le vicine di Mistretta l’allusione è alquanto eloquente. Infatti solo per gli abitanti di Mistretta San Francesco
può essere sinonimo di carcere. Tanto perché, come sappiamo, la casa circondariale di Mistretta, fino a un paio di anni fa, era ubicata presso l’edificio che una volta costituiva il convento dei monaci francescani, accanto alla Chiesa tuttora esistente dedicata al Patrono d’Italia. Alcuni passaggi dei libri di Maria Messina hanno una finezza di introspezione che probabilmente possiedono solo gli psicologi. Lei ci è arrivata grazie ad una sensibilità straordinaria. Intorno ai 30 anni cominciò ad avvisare i sintomi della sclerosi multipla, che certo la fiaccarono fisicamente ma che non la distolsero dai suoi impegni letterari. Infatti per circa un altro decennio continuò a scrivere e pubblicare libri. Ma nel fascismo che coltivava il mito della razza superiore non potevano più trovare spazio e consenso quei personaggi deboli, marginali e perdenti da lei amorevolmente accuditi. I personaggi delle storie narrate da Maria Messina, infatti, non sono di quelli destinati a calamitare l’attenzione di quel lettore che si aspetta vicende avventurose e luoghi che offrono uno sbocco fantastico alla propria uggia. Personaggi e vicende da lei narrate non sono di quelli che mutano la storia, bensì quelli comuni su cui la storia è muta!
Filippo Giordano
La porta chiusa
Anche la camera di donna Ienna odorava di pane fresco, perché Salvatura a mezzogiorno aveva portata a vedere alla padrona due pagnotte appena sfornate, e poi, per farle piacere, le aveva lasciate nel cestino, su una seggiola.
Don Menu si vestiva per andare al casino. Secondo la sua abitudine andava da un punto all’altro della camera, mentre s’infilava o si abbottonava la sottoveste, e si fermava davanti alla finestra facendo dei piccoli sforzi per spingere il bottone troppo grande nell’occhiello del colletto nuovo, indurito dalla recente stiratura. Donna Ienna faceva la calza dietro i vetri, in piedi per esser pronta ad aiutare il marito a infilarsi il pastrano e a passargli la spazzola sul bavero.
Queste cose le faceva ancora lei. Ancora il sabato gli faceva trovare la camicia pulita sul letto, bella e preparata, pronta ad esser messa. Ma non più lei poteva sorvegliare le donne che facevano il bucato di ogni mese, nel cortile, o badare alla stiratura, nelle stanze di sopra. Non più lei poteva esser presente quando si faceva il pane – come quel giorno che tutta la casa odorava! -, non più lei preparava qualche manicaretto per don Menu… Salvatura, la serva anziana, si occupava di tutto. Troppo se ne occupava! E certi giorni che pareva lei la padrona di casa, donna Ienna si giurava di cacciarla via come un cane, mentre don Menu fosse al casino… Pure donna Ienna non era vecchia, non era, Dio liberi, paralitica.
Soffriva, o meglio aveva sofferto fin da ragazza, di mal di cuore: un po’ di palpitazione quando saliva le scale, un po’ d’insonnia la notte, di tanto in tanto. Piccoli disturbi ai quali non aveva voluto mai dare soverchia importanza. Ma quando, in occasione d’una bronchite, il vecchio dottor Saitta l’aveva osservata minuziosamente, picchiandole sulle spalle con due dita, come si fa con le bambole che non riaprono gli occhi, mettendole un orecchio sul petto nudo, per ascoltare, donna Ienna aveva saputo d’esser gravemente, e da assai tempo malata.
Quante raccomandazioni aveva fatto il vecchio Saitta! Che non si affaticasse in alcun modo: che non si chinasse neanche per raccattare il ditale se le cadeva; che, sopra tutto, non facesse le scale per alcuna ragione…
— Perché con voi, comare – aveva spiegato – che siete donna di giudizio, è inutile aver peli sulla lingua. Un piccolo sforzo, una piccola emozione, vi può mandare davanti al Signore, dritto dritto… Ma se vi usate riguardo camperete cent’anni, ve l’assicuro io…
I medici!! Non vedono che malattie mortali, e vite in pericolo. Forse perchè vedono chiudere gli occhi a tanta gente, a troppa gente, così mentre meno s’aspetta la morte, senza che forse loro stessi sappiano perché si muoia… Essi portano il malaugurio nelle case dove entrano.
Dal giorno della visita di Saitta successe una rivoluzione nelle abitudini di donna Ienna ch’era sempre stata una buona massaia. Don Menu, di solito così poco espansivo, parve impressionato. Si sedeva vicino a sua moglie e diceva:
— Quando Dio la manda – (voleva intendere la morte, lui) – e sia fatta la volontà di Dio. Ma andarla a cercare proprio noi, questo no. Tu devi solamente pensare a curarti, a essere una figlia di famiglia.
E figlia di famiglia era diventata per davvero, donna Ienna. Da sei mesi – non un giorno! – non saliva le scale che portavano al secondo piano. Al secondo piano c’era la cucina, la saletta da pranzo, la camera della serva, la credenza… La parte più importante, insomma.
È mai possibile che una padrona di casa debba trascurare tutto, essere come un’estranea nella propria casa? Ma don Menu faceva la guardia alla porticina della scala, come un mastino. Se usciva, e la serva doveva uscire anch’essa, si portava la chiave. Tante volte Salvatura tornava prima e si sedeva nella camera della padrona per aspettare.
— Vede che mi tocca! – diceva adirata. – Mentre su c’è tante cose da fare. E questo perché voscenza vuol fare la bambina! Non lo capisce che le scale non le deve salire!? Donna Ienna non avrebbe mai creduto che il marito avesse tanto a cuore la sua salute. Era parso sempre così burbero, così disamorato! E sul principio, tutta consolata, aveva ringraziato la Madonna, del miracolo. Ma poi, col tempo, s’era sentita quasi opprimere dalle troppe premure, dalle troppe raccomandazioni. Quando don Menu passeggiava in su e in giù per la camera, con le mani sulla schiena e la fronte aggrottata, al solito, donna Ienna provava una specie di sgomento come se suo marito la tenesse carcerata: allora guardava la finestra chiusa con gli occhi piene di lacrime, con una gran passione di uscire per la via e camminare senza dover tornare mai più.
No. Non se la sentiva di campare così, un giorno dopo l’altro, come una vecchiona che aspetti la morte.
— E tu ci pensi che sarà sempre così! – esclamava timidamente. – Credi che del mio male si guarisca? Meglio morire d’un colpo anzi che bere la vita a goccia a goccia… Ma don Menu si metteva a gridare , dicendo che alla fin fine il vero martire era lui che spendeva i soldi senza guardarli e mangiava male e si sacrificava in tutti i modi mentre lei faceva la vita comoda, sdraiata in poltrona, servita e pasciuta come una principessa; ripetendo che lui faceva più del dovere e tutte le sue attenzioni non erano neanche apprezzate. Gridava così forte che donna Ienna spaurita gli domandava perdono, gli giurava che non sarebbe uscita da quella camera, altro che morta.
Rimaneva come oppressa, dopo ogni scenata. Che voleva da lei don Menu? Era forse