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Chiesa senza storia, storia senza chiesa: L’inattuale “modernità” del problema chiesa-mondo
Chiesa senza storia, storia senza chiesa: L’inattuale “modernità” del problema chiesa-mondo
Chiesa senza storia, storia senza chiesa: L’inattuale “modernità” del problema chiesa-mondo
E-book322 pagine4 ore

Chiesa senza storia, storia senza chiesa: L’inattuale “modernità” del problema chiesa-mondo

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Info su questo ebook

A cinquant’anni dal Vaticano II, Papa Francesco ha messo in campo la categoria di «crisi dell’impegno comunitario» per leggere lo stato dell’arte della vita della chiesa di oggi. Per comprendere in maniera adeguata questo giudizio è necessario rileggere il lungo e accidentato percorso del rapporto della chiesa con il mondo: i termini con i quali, ancora oggi, si è soliti affrontarlo, proprio perché “moderni” nella loro genesi, non sono più attuali e utili. Occorre prendere sul serio l’invito a riconoscere e accettare senza riserve l’attuale «cambiamento d’epoca»: qui sembra aprirsi la strada per procedere a superare il divorzio tra la Chiesa e la storia, una tra le finalità al cuore del Vaticano II, ancora in attesa di essere pienamente recepito.
LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2018
ISBN9788838246517
Chiesa senza storia, storia senza chiesa: L’inattuale “modernità” del problema chiesa-mondo

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    Chiesa senza storia, storia senza chiesa - Gilfredo Marengo

    memoriam

    Al lettore

    Questo libro non è un saggio sul pontificato di Francesco, né sul Vaticano II. Si parlerà molto di entrambi, ma la prospettiva scelta vieta di riconoscere loro la qualifica di oggetto materiale del volume.

    Di un pontificato è giusto tentare una lettura sintetica solo quando esso si sia concluso e – per grazia di Dio – Francesco oggi è felicemente regnante, come si usava dire nel passato.

    C’è da avere, poi, fondati dubbi che sia utile produrre l’ennesimo saggio d’interpretazione dell’evento conciliare, illudendo chi scrive e chi legge di avere tra le mani un testo che dica la parola ultima, salvo essere messo in discussione da un successivo e analogo tentativo definitivo. La sterminata produzione, avviatasi più di cinquant’anni fa, impedisce di coltivare illusioni: non è ancora giunto, semmai sia indispensabile che avvenga, il tempo ove rispondere una volta per tutte all’interrogativo «Che cosa è successo nel Vaticano II?».

    Le pagine che seguono hanno un’altra origine: cercare di rispondere alla domanda che nasce quando, giusto nelle celebrazioni del mezzo secolo dal concilio, un papa – preso quasi dalla fine del mondo – metta in campo la categoria di «crisi dell’impegno comunitario» per leggere lo stato dell’arte della vita della chiesa di oggi.

    In questi decenni più volte è risuonato l’avvertimento a non dare troppo peso alle fatiche, confusioni e fragilità seguite alla celebrazione dell’assise conciliare. Tutta la storia della chiesa attesta che solo nel tempo la ricchezza e la fecondità di un concilio ecumenico diventa evidente, apprezzabile e produce i frutti attesi da quanti ne sono stati attori.

    Nei fatti l’accento su quella crisi, la volontà di procedere a una «trasformazione missionaria della Chiesa», l’appello alla «conversione pastorale» suggeriscono che, salvo meliori iudicio, fino ai nostri anni non si può dire conclusa quella fase di fatica e impaccio seguita al Vaticano II. Non può essere casuale che il vocabolario della crisi, molto frequentato nei primi anni seguiti a quell’evento nel linguaggio di Paolo VI, ritorni a essere utilizzato proprio da Francesco.

    Questo è il centro d’interesse del presente volume. Prenderlo in carico nel modo più attento possibile richiederà al lettore di farsi accompagnare in un cammino che dovrà misurarsi con fatti, idee e dibattiti ciascuno dei quali ha prodotto intere biblioteche [1] . Chi scrive è consapevole del rischio di pretendere una competenza in troppi ambiti della ricerca storica, filosofica e teologica. Correre un tale pericolo è sembrato giustificato dal momento che si è inteso proporre un tracciato che unisce – come in un noto gioco enigmistico – punti che altri hanno segnato e dai quali molto, anzi tutto, si è imparato. È responsabilità dell’autore avere tentato di collegarli secondo un percorso che ha qualche pretesa di novità e vuole offrire un contributo a una maggiore consapevolezza del peculiare momento storico che la chiesa sta vivendo.

    G. M.

    11 ottobre 2017, Memoria di S. Giovanni XXIII


    [1] Di conseguenza le note, oltre a dare conto delle fonti, non hanno alcuna pretesa di offrire un panorama esauriente della sterminata bibliografia sui temi trattati.

    I. Cinquant’anni dopo il Vaticano II: crisi e mondanizzazione

    Le celebrazioni anniversarie dei primi cinquant’anni della stagione conciliare (2012-2015) sono state segnate da eventi tali da renderle quasi paragonabili, per novità, a quanto accadde con l’annuncio e lo svolgimento del Vaticano II.

    Nulla faceva sospettare qualcosa di simile quando Benedetto XVI annunciò la celebrazione di un Anno della Fede e ne fissò l’inizio proprio nel cinquantesimo della solenne apertura del lavori conciliari (11 ottobre 2012) [1] , nel contesto dei lavori del XIII Sinodo ordinario del Vescovi sul tema La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana (7-28 ottobre 2012).

    L’attenzione ai percorsi di recezione del concilio, verso i quali era da prevedere un incremento di attenzione vista la ricorrenza cinquantenaria, ruotava intorno al dibattito continuità-discontinuità, nato a seguito di un intervento pontificio (22 dicembre 2005) [2] , la cui lettura fu segnata da istanze polemiche, rivelatrici di qualche tendenza a sottostimare la centralità dell’ evento conciliare nella vita della chiesa [3] .

    L’indizione di un Anno della Fede si ricollegava alla medesima iniziativa di Paolo VI (1967) [4] , a valle della conclusione del Vaticano II e originata da una forte inquietudine per quelli che si ritenevano gravi problemi dottrinali presenti sulla scena dei primi anni del post-concilio.

    A distanza di mezzo secolo si ribadiva il convincimento che il cuore della recezione del concilio consistesse in una soddisfacente ermeneutica dei suoi testi, al riparo da ogni eventuale incertezza o travisamento della dottrina. Tenuto conto della mutata fisionomia del panorama ecclesiale d’inizio millennio, se paragonata a quella fine degli Anni Sessanta del secolo scorso, le parole di Benedetto XVI sono rivelatrici di una peculiarità sensibilità. È arduo incontrare, negli anni del suo pontificato, le tensioni, i conflitti e gli accenti di contestazione che investirono la comunità ecclesiale nel primo decennio dopo il concilio. Il richiamo esplicito alle preoccupazioni che portarono Paolo VI a indire quell’Anno della Fede deve dunque avere avuto una differente motivazione. Essa non risiedeva tanto nella presenza dello stesso scenario problematico, ma piuttosto nella condivisione – da parte di entrambi i pontefici – del medesimo approccio al magistero conciliare. In tutti e due stava al primo posto la preoccupazione che esso potesse venire assunto secondo paradigmi dottrinali non corretti: di qui l’enfasi su una controllata interpretazione dei testi in capo alla quale veniva assegnato tutto il cammino recettivo del Vaticano II.

    Questa sensibilità è stata tra le più praticate e discusse in tutta la stagione post-conciliare: fatta propria da due pontefici, all’inizio e la fine dei suoi primi cinquant’anni, essa manifesta il suo singolare rilievo nella vita della chiesa contemporanea.

    Trascorsi sei mesi, gli eventi hanno subito una sorprendente accelerazione: l’11 febbraio 2013 Benedetto XVI annuncia le sue dimissioni e il 13 marzo viene eletto papa Francesco.

    Con la sua elezione alla sede di Pietro, per la prima volta la chiesa vede un Vescovo di Roma non europeo e pienamente post-conciliare.

    La biografia di J. M. Bergoglio (Buenos Aires, 1936) lo colloca fuori da molte delle problematiche che sono state al centro del dibattito ecclesiale e culturale dell’Europa del secondo dopoguerra [5] . Fino all’elezione al pontificato la sua vita e il suo ministero ecclesiale si sono svolti interamente nell’ambiente dell’America Latina. Mentre nelle chiese di antica evangelizzazione il cammino di adesione al Vaticano II ha visto al centro la sfida della secolarizzazione e della conseguente scristianizzazione, il tessuto ecclesiale dell’America Latina ha presentato caratteri molto differenti [6] : lì si è trattato piuttosto di favorire una maturazione dell’appartenenza alla chiesa, nei fatti quanto mai diffusa e capillare, muovendo da una tradizione ben radicata di religiosità popolare. Si deve tener conto di un particolare contesto sociale segnato dalla presenza di contraddizioni e profonde disuguaglianze, non di rado collegate a episodi di drammatica violenza, espressa simultaneamente da quanti intendevano ribellarsi allo statu quo e da quanti lo volevano mantenere. Se nell’Occidente del mondo la chiesa sembrava perdere il suo carattere di esperienza diffusa di popolo, nell’America del Sud essa era sfidata a prendersene cura favorendo una vita di fede più matura e consapevole, in un ambiente denso di conflitti sociali e profonde ingiustizie.

    Allo stesso tempo Francesco è totalmente post-conciliare: il suo approccio ai testi del Vaticano II non è in nessun modo influenzato dalle problematiche relative al loro iter compositivo, al quale egli non ha in nessun modo partecipato a differenza dei suoi predecessori. Le vicende della recezione del concilio hanno mostrato come sia quasi inevitabile che chi è stato in qualche maniera protagonista di quell’assise ne rilegga i documenti guidato, poco o tanto, dal giudizio maturato durante la loro scrittura. Tale attitudine – del tutto comprensibile e probabilmente senza alternative – può avere dato spazio a una certa enfasi sui tratti più problematici e discussi dei lavori del Vaticano II e a un’accentuazione del valore dell’uno o dell’altro testo, secondo la sensibilità maturata in quegli anni: il magistero dei predecessori lo documenta senza incertezze.

    Si può dire che l’attuale pontificato segna un cambiamento d’epoca nel tessuto della vita ecclesiale: non è azzardato collocarlo in parallelo con i mutamenti altrettanto radicali che si sono verificati nel mondo nell’ultimo mezzo secolo.

    Da questo punto di vista è interessante sorprendere nel magistero di Francesco i tratti originali con i quali egli esercita il suo ministero apostolico e, nello stesso tempo, la stretta connessione con gli accenti più tipici dell’evento conciliare.

    Al termine dell’Anno della Fede, il 24 novembre 2013, è stata pubblicata l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium [7] : il papa dichiara in modo esplicito che questo documento tiene il posto della tradizionale enciclica programmatica [8] , tipica di quasi tutti i pontefici da quasi due secoli. Proprio tenendo conto di questa intenzione, va compresa bene la scelta di presentarlo come frutto del Sinodo del 2012, sebbene non gli sia stata attribuita la qualifica di post-sinodale, comune a tutti i testi simili a partire da Catechesi tradendae (16 ottobre 1979) di Giovanni Paolo II. La piena paternità rivendicata da Francesco la assimila piuttosto a Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975) di Paolo VI, pur con una significativa differenza. Quel testo, infatti, nacque in conseguenza dell’insuccesso dei lavori del Sinodo del 1974 nel quale la Relazione finale, presentata dall’allora cardinale K. Wojtyła (1920-2005), non riuscì a raggiungere la maggioranza dei consensi richiesti [9] . In quell’occasione il papa si fece carico di supplire alle difficoltà emerse durante i lavori di quell’assemblea: non era accettabile che a dieci anni dal Vaticano II la comunità ecclesiale non sapesse dire una parola autorevole sul tema decisivo dell’«evangelizzazione del mondo contemporaneo» [10] .

    Nulla di analogo è accaduto nel Sinodo del 2012. D’altra parte un certo parallelismo con le dinamiche che presiedettero al testo montiniano apre la via a qualche considerazione. Sicuramente la volontà di dichiarare le linee portanti del pontificato giustifica la paternità rivendicata per questo documento che, pur recependo molte suggestioni dai lavori sinodali, dice molto di più degli esiti finali di quell’assise [11] .

    Se Paolo VI aveva dovuto supplire alle difficoltà emerse durante il Sinodo del 1974, il papa attuale, una volta ribadito il decisivo tema della Nuova Evangelizzazione, tanto da farne il fulcro del suo documento programmatico, lo ha trattato secondo accenti e registri originali. Nel medesimo tempo la scelta di affidare a un documento, strettamente radicato in una delle massime forme espressive della collegialità episcopale, il compito di enunciare alcune linee guida di un nuovo pontificato sembra in sintonia con l’intenzione di un esercizio del magistero papale attento a quella che viene indicata come una «salutare decentralizzazione» [12] .

    L’esortazione apostolica, dunque, non solo propone un’articolata serie di avvertenze, giudizi e contenuti di cui la comunità ecclesiale è chiamata a farsi carico nel presente, ma apre discretamente a nuovi indirizzi di metodo, nel delicato e controverso spazio delle relazioni tra primato petrino e collegialità episcopale.

    Evangelii gaudium prende le mosse dall’appello a una conversione pastorale, in vista di una trasformazione missionaria della chiesa [13] . Entrambe sono ambientate in un panorama sociale ed ecclesiale sinteticamente descritto attraverso la cifra di una «crisi dell’impegno comunitario» [14] .

    La categoria di crisi è stata sovente usata nel linguaggio ecclesiale quando si è trattato di leggere la temperie storica in cui la comunità cristiana era collocata, in specie quando la sua presenza nel mondo è diventato il caso serio; non così è stato quando ci si è volti a considerare la qualità della sue dinamiche interne. Non può, dunque, che sorprendere l’ampio sviluppo che le dedica l’esortazione apostolica [15] .

    È quasi inevitabile richiamare, limitandosi alla stagione post-conciliare, taluni accenti presenti negli interventi di Paolo VI a proposito delle criticità degli anni immediatamente successivi il Vaticano II [16] . Sembrerebbe, dunque, che questo mezzo secolo di vita ecclesiale possa essere riletto in un certo modo all’interno di un’inclusione individuata dalla categoria di crisi.

    Una tale conclusione ha qualcosa di sorprendente e, qualora fosse sostenibile, richiederebbe una radicale ritrattazione delle più consuete chiavi interpretativi di questi decenni. Conviene, pertanto, procedere con cautela, avendo cura di collocare questo tratto di novità dell’attuale pontefice nel percorso vissuto dalla chiesa nell’ultimo mezzo secolo.

    La stagione seguita alla chiusura dei lavori conciliari fu segnata da non pochi fattori problematici: si generò un diffuso senso di disagio, quasi che le attese di una feconda ricaduta di quel singolare evento fossero dolorosamente smentite dai fatti.

    Il severo giudizio del papa echeggiava soprattutto le problematiche istituzionali e dottrinali dominanti nel panorama ecclesiale della seconda metà degli anni Sessanta, anche in ragione degli influssi che il fenomeno della contestazione del Sessantotto esercitò in molta parte delle comunità cristiane [17] .

    Se il Vaticano II aveva inteso propiziare una singolare apertura al mondo, negli anni successivi parve a molti, in primis a Paolo VI, che quella intenzione avesse favorito, inopinatamente, il pericolo di una mondanizzazione di molti ambiti della vita ecclesiale.

    Dopo mezzo secolo, in una temperie storica radicalmente mutata, una preoccupazione analoga sembra riecheggiare in Evangelii gaudium, laddove Francesco punta l’attenzione sui rischi effettivi di una «mondanità spirituale» [18] .

    Questa, però, viene guardata secondo una prospettiva pastorale: si mettono in luce le ragioni per le quali essa è capace di frenare ogni impeto missionario, fino a dissolverlo. Alla sua ombra, infatti, prosperano modi di vivere l’esperienza cristiana segnati da una forte autoreferenzialità, cui si accompagna «un relativismo ancora più pericoloso di quello dottrinale. Ha a che fare con le scelte più profonde e sincere che determinano una forma di vita» [19] . A questo livello Francesco coglie un profilo peculiare della «crisi»: il pericolo di una doppia vita che i cristiani, soprattutto gli operatori pastorali, corrono: esso si esprime come «individualismo», «crisi d’identità» e «calo di fervore» [20] .

    Il parallelismo tra crisi e mondanizzazione è in grado di evocare immediatamente la questione chiesa-mondo: il terreno in cui queste problematiche affondano le loro radici e che – dagli anni del Vaticano II – sono state uno dei fulcri sui quali ha ruotato la vita ecclesiale. Nello stesso tempo esiste una differenza tra gli accenti di Paolo VI e quelli di Francesco: mentre il primo esprime una forte preoccupazione dottrinale, il secondo punta direttamente su squilibri ed equivoci propri della dinamica dell’agire delle comunità cristiane e, soprattutto, degli operatori pastorali; a cinquant’anni dal Vaticano II, Evangelii gaudium punta l’attenzione a una differente mondanizzazione, questa volta dipendente dagli stili di vita, diffusi nel corpo ecclesiale.

    Merita prestare speciale attenzione a due temi centrali nel magistero di Francesco: l’insistenza sul «cambiamento d’epoca» [21] , peculiare del nostro presente e la sottolineatura della pastoralità come paradigma decisivo che la chiesa deve assumere per sapere esprimere una presenza operosa e fruttuosa nel mondo, in assoluta fedeltà alla sua vocazione missionaria.

    Non a caso, commemorando il mezzo secolo trascorso dalla conclusione dei lavori conciliari, Francesco osservava:

    Oggi, qui a Roma e in tutte le diocesi del mondo, varcando la Porta Santa vogliamo anche ricordare un’altra porta che, cinquant’anni fa, i Padri del concilio Vaticano II spalancarono verso il mondo. Questa scadenza non può essere ricordata solo per la ricchezza dei documenti prodotti, che fino ai nostri giorni permettono di verificare il grande progresso compiuto nella fede. In primo luogo, però, il concilio è stato un incontro. Un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo. Un incontro segnato dalla forza dello Spirito che spingeva la sua Chiesa ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il cammino missionario. Era la ripresa di un percorso per andare incontro ad ogni uomo là dove vive: nella sua città, nella sua casa, nel luogo di lavoro… dovunque c’è una persona, là la Chiesa è chiamata a raggiungerla per portare la gioia del Vangelo e portare la misericordia e il perdono di Dio. Una spinta missionaria, dunque, che dopo questi decenni riprendiamo con la stessa forza e lo stesso entusiasmo. Il Giubileo ci provoca a questa apertura e ci obbliga a non trascurare lo spirito emerso dal Vaticano II, quello del Samaritano, come ricordò il beato Paolo VI a conclusione del concilio. Attraversare oggi la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon samaritano [22] .

    Nell’immagine della porta spalancata verso il mondo si coglie la ripresa dell’ispirazione nativa del Vaticano II, così come Giovanni XXIII la formulò proprio invitando l’assise conciliare a privilegiare l’indole pastorale del magistero [23] .

    D’altra parte, l’invito alla «conversione pastorale» appare in Francesco già in uno dei primi interventi rivolti all’episcopato, durante il viaggio in Brasile per le Giornate Mondiali della Gioventù, nel luglio del 2013, con esplicito riferimento alla Gaudium et spes [24] . In quell’occasione l’eredità conciliare è assunta nella direzione di produrre un reale cambiamento nella vita della Chiesa, non solo nelle sue forme istituzionali e neanche nel suo patrimonio dottrinale. Viene presentato un approccio alla pastoralità che l’affranca dall’orizzonte funzionalista di una scontata cura animarum e sembra ricollegarsi con il volto più originale del Vaticano II, ponendo al centro «gli atteggiamenti e una riforma di vita» [25] .

    Per chiarire il senso della sua proposta, Francesco ha messo sull’avviso verso quelle tentazioni che possono impedire un percorso di conversione pastorale: ideologizzazione del messaggio evangelico, funzionalismo e clericalismo [26] , tutti contenuti ampiamente ripresi in Evangelii gaudium [27] . D’altra parte

    sulla conversione pastorale vorrei ricordare che pastorale non è altra cosa che l’esercizio della maternità della Chiesa. Essa genera, allatta, fa crescere, corregge, alimenta, conduce per mano ...Serve, allora, una Chiesa capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia c’è poco da fare oggi per inserirsi in un mondo di feriti, che hanno bisogno di comprensione, di perdono, di amore [28] .

    Nello spazio aperto tra il polo delle tentazioni e la figura materna della pastoralità sembra collocarsi la possibilità di un rinnovato e fecondo percorso recettivo del Vaticano II, in cui viene già adombrata la centralità del richiamo alla misericordia, riprendendo esplicitamente un linguaggio caro a Giovanni XXIII [29] : in continuità con il suo predecessore, il papa mette a fuoco il nesso tra il cambiamento del modo di agire della Chiesa e la riscoperta della sua maternità che manifesta le «viscere di misericordia». In questo contesto si comprende la successiva decisione di indire l’Anno Santo della Misericordia [30] .

    Stanno qui insieme l’evocazione della novità dell’evento conciliare e la preoccupazione di una «mondanizzazione» della vita delle comunità cristiane.

    Se ci si pone in una prospettiva di lungo periodo questi elementi convergono nel mettere a fuoco alcuni filoni nevralgici, intorno ai quali la vita della chiesa contemporanea ha ruotano da decenni, non sempre riuscendo a sciogliere adeguatamente i nodi prodotti dal loro intrecciarsi raramente lineare.

    Nonostante tutto il formidabile impegno nella recezione del concilio, il papa – oggi – sente l’esigenza di richiamare la comunità ecclesiale ai paradigmi nativi di quell’evento, quasi che il lungo cammino percorso abbia portato frutti meno copiosi di quanto ci si poteva attendere.

    A questo punto, volendo utilizzare gli strumenti più frequentati per rileggere il concilio e i modi con i quali è stato recepito, verrebbe spontaneo mettere in campo due problematiche classiche: la polarità dottrina-pastorale e l’analisi delle complesse modalità con le quali da decenni la riflessione ecclesiale ha investito energie formidabili a proposito del rapporto tra la chiesa e il mondo del suo tempo. Proprio lo scarto tra l’attenzione prestata a queste tematiche, almeno quantitativamente smisurata, e gli esiti non conclusivi fin qui prodotti, invita a verificare se non siano percorribili altre piste di indagine.

    I modi con i quali, nell’ultimo mezzo secolo, ci si è rivolti a trattare la relazione chiesa-mondo documentano la continua messa in discussione delle immagini che, via via, la comunità ecclesiale ha inteso elaborare del mondo del proprio tempo, dovendosi misurare con i mutamenti sempre più rapidi cui esso è andato incontro che, progressivamente, sono sembrati capaci di mettere in crisi le analisi prodotte dalla teologia e dal magistero ecclesiale: il percorso recettivo di Gaudium et spes rappresenta un esempio emblematico di tali difficoltà. A ben vedere queste dinamiche sono dipese dal convincimento che solo una previa, soddisfacente comprensione del mondo fosse la necessaria premessa a un’adeguata presenza e azione della chiesa in esso.

    Questo approccio – molto frequentato negli ultimi decenni – ha in verità una lunga storia: esso ricalca ampiamente lo stile con cui la comunità ecclesiale si è espressa a partire dalla nascita della modernità storica. Fu quella stagione ad avviare una percezione di un mondo e di una società che progressivamente assumevano un profilo autonomo, distinto e distante dalla comunità ecclesiale, tanto da produrre un singolare dualismo e da istituire l’interrogativo sulle loro reciproche relazioni.

    Si possono affacciare due considerazioni: alcuni dei nodi problematici, tipici della stagione del Vaticano II e della sua recezione, affondano le loro radici in un terreno antico, non solo immediatamente pre-conciliare, ma piuttosto disteso nell’arco temporale degli ultimi cinque secoli del secondo millennio cristiano.

    Qualora questa osservazione fosse corretta, ne seguirebbe immediatamente che i termini con i quali si è soliti riflettere intorno alla relazione tra la chiesa e il mondo, proprio perché moderni nella loro genesi, non sono fruibili né se ci si rivolge alla stagione ecclesiale precedente né, ipoteticamente, in una temperie storica in cui la modernità sia ormai appartenente al passato, anche se prossimo, del nostro mondo.

    L’ipotesi che qui si vuole verificare può essere annunciata nel modo seguente. Talune suggestioni presenti soprattutto in Evangelii gaudium aprono la via a un superamento degli assetti con cui da secoli si è presa in carico la problematica chiesa-mondo. Francesco, affacciando due tratti di novità, la libera da quanto ha reso il maneggiarla, a dir poco, disagevole e complicante.

    In primo luogo il papa ha messo in discussione uno dei capisaldi della prassi ecclesiale moderna che da secoli ha riservato al magistero pontificio la prerogativa di qualunque intervento autorevole sul tema [31] .

    In secondo luogo, l’esortazione apostolica introduce un’esplicita correzione metodologica:

    conviene ricordare brevemente qual è il contesto nel quale ci tocca vivere ed operare. Oggi si suole parlare di un eccesso diagnostico, che non sempre è accompagnato da proposte risolutive e realmente applicabili. D’altra parte, neppure ci servirebbe uno sguardo puramente sociologico, che abbia la pretesa di abbracciare tutta la realtà con la sua metodologia in una maniera solo ipoteticamente neutra ed asettica. Ciò che intendo offrire va piuttosto nella linea di un discernimento evangelico. È lo sguardo del discepolo missionario che si nutre della luce e della forza dello Spirito Santo. Non è compito del Papa offrire un’analisi dettagliata e completa sulla realtà contemporanea, ma esorto tutte le comunità ad avere una "sempre vigile capacità di studiare

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