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La diplomazia delle due sponde del Tevere: Aggiornamento Conciliare e democrazia nelle transizioni internazionali (1965-1975)
La diplomazia delle due sponde del Tevere: Aggiornamento Conciliare e democrazia nelle transizioni internazionali (1965-1975)
La diplomazia delle due sponde del Tevere: Aggiornamento Conciliare e democrazia nelle transizioni internazionali (1965-1975)
E-book510 pagine6 ore

La diplomazia delle due sponde del Tevere: Aggiornamento Conciliare e democrazia nelle transizioni internazionali (1965-1975)

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  Durante gli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo, le aperture del Concilio Vaticano II sul rapporto Chiesa-mondo e sul tema dei diritti umani, in particolare quello della libertà religiosa, imprimono un nuovo slancio al mondo cattolico nell’affermazione della democrazia in contesti europei dominati ancora da dittature di opposto segno ideologico, comunista a Est e di estrema destra nel Mediterraneo. Sia l’Italia che la Santa Sede si propongono dunque sullo scenario internazionale con una presenza più incisiva, che implica l’assunzione di un ruolo primario tra gli attori della politica mondiale. La recente disponibilità della documentazione archivistica consente di arricchire la conoscenza dell’azione insieme diplomatica, culturale e religiosa di Roma, al di qua e al di là delle due sponde del Tevere.
LinguaItaliano
Data di uscita28 mag 2018
ISBN9788838246968
La diplomazia delle due sponde del Tevere: Aggiornamento Conciliare e democrazia nelle transizioni internazionali (1965-1975)

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    Anteprima del libro

    La diplomazia delle due sponde del Tevere - Marialuisa Lucia Sergio

    Marialuisa Lucia Sergio

    LA DIPLOMAZIA DELLE DUE SPONDE DEL TEVERE

    Aggiornamento Conciliare e democrazia nelle transizioni (1965-1975)

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Pubblicazione dell’Istituto Internazionale

    Jacques Maritain di Roma

    Copyright © 2018 by Edizioni Studium - Roma

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838246968

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    FONTI E ABBREVIAZIONI

    PREFAZIONE

    INTRODUZIONE

    1. Né sconfitta né complice: la Chiesa del Vaticano II nelle transizioni europee

    2. «Come Diogene con la sua lanterna»: la Democrazia cristiana italiana alla ricerca dell’Europa lungo le rotte conciliari

    I. LA DIPLOMAZIA VATICANA E ITALIANA IN POLONIA FRA CONCILIO E POST-CONCILIO

    1. La Chiesa polacca del Vaticano II: Wyszyński e Wojtyła padri conciliari. L’affaire Pax nelle carte Cottier

    2. La diplomazia vaticana e italiana e gli inizi del disgelo polacco negli archivi Casaroli e Fanfani (1965–1967). La missione segreta di Luigi Longo e l’incidente Bernabei

    II. IL VIETNAM: LA SPINA NEL FIANCO

    1. Il magistero conciliare sulla pace; gli antefatti negoziali di «Marigold» e «Killy».

    2. Il pre-negoziato romano x=y+z e l’iniziativa segreta della Santa Sede dell’aprile 1968

    III. IL CASO ROMENO: PRIMA BRECCIA NELLA CORTINA DI FERRO?

    1. La specificità romena nella Distensione. La politica religiosa e la diplomazia della Santa Sede

    2. I colloqui bilaterali Italia-Romania

    IV. CONCILIO E DISTENSIONE IN PORTOGALLO: REQUIEM PER UNA DITTATURA

    1. Il Portogallo fra Aggiornamento conciliare e decolonizzazione. La posizione dell’Italia

    2. La diplomazia del Vaticano II alla prova: Casaroli, Moro e Kissinger nella guerra fredda euro-africana

    V. IL VATICANO II NELLA TRANSICIÓN: IL SOSTEGNO DELL’ITALIA E DELLA SANTA SEDE ALLA DEMOCRATIZZAZIONE SPAGNOLA

    1. La Chiesa nella caduta del franchismo fra Concilio e Concordato

    2. La diplomazia trans-partitica della Dc italiana e l’europeizzazione della Spagna.

    CONCLUSIONI

    1. L’appuntamento a Roma: il III Congresso internazionale dell’Apostolato dei laici, un momento condiviso di verifica dei percorsi post-conciliari.

    2. Il paradosso democristiano nella crisi del Post-concilio: successi internazionali e segni del declino.

    APPENDICE

    Sezione Polonia

    Archivio della Segreteria di Stato- Sezione per il rapporto con gli Stati

    Sezione Romana

    Sezione Spagna

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA

    Studium

    122.

    Storia / 18.

    Marialuisa Lucia Sergio

    LA DIPLOMAZIA DELLE DUE SPONDE DEL TEVERE

    Aggiornamento Conciliare

    e democrazia nelle transizioni internazionali (1965-1975)

    Prefazione di Philippe Chenaux

    A mia sorella Carla che mi è sempre vicina, con tanto affetto.

    FONTI E ABBREVIAZIONI

    Archivio della Segreteria di Stato vaticana, Fondo Spogli, Carte Agostino Casaroli, Città del Vaticano

    ASSR Archivio Storico del Senato della Repubblica, Fondo Amintore Fanfani, Roma

    ACS Archivio Centrale dello Stato, Archivio Aldo Moro, Roma

    AS PCL Archivio Storico del Pontificio Consiglio per i Laici, Città del Vaticano

    Archivio privato del Card. Georges Marie Cottier – Parigi

    Archivio Storico del Centro Studi e Ricerche Concilio Vaticano II, Pontificia Università Lateranense, Città del Vaticano

    National Archives and Records Administration (NARA), Record Group 59, General Records of the Department of State, College Park

    AS Acta Synodalia sacrosancti Concilii oecumenici Vaticani II, cura et studio Archivi Concilii oecumenici Vaticani II, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano:

    2/II Vol. 2 Periodus secunda, Pars II Congregationes generales XL-XLIX, 1972

    2/IV Vol. 2 Periodus secunda, pars IV Congregationes generales LIX-LXIV, 1972

    2/III Vol. 2 Periodus secunda, Pars III Congregationes generales L-LVIII, 1972

    3/II Vol. 3 Periodus Tertia, Pars II Congregationes Generales LXXXIII-LXXXIX, 1974

    4/I Vol. 4 Periodus quarta, Pars I Congregationes generales CXXVIII-CXXXII, 1976

    4/II Vol. 4 Periodus quarta, Pars II Congregationes generales CXXXIII-CXXXVII, 1977

    EV I Enchiridion Vaticanum, vol. 1, Documenti ufficiali del Concilio Ecumenico Vaticano II 1962-1965, testo ufficiale e versione italiana, EDB, Bologna 2002

    AP, CD Atti Parlamentari, Camera dei Deputati

    PREFAZIONE

    Dal discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite (4 ottobre 1965) alla firma dell’Atto finale della Conferenza di Helsinki sulla Cooperazione e la Sicurezza in Europa (31 luglio 1975), gli anni del pontificato di Paolo VI segnarono il grande ritorno della Santa Sede sulla scena internazionale. Dopo quasi due secoli di ostracismo, il papato ritornava ad essere uno dei protagonisti della diplomazia europea e mondiale. Lontano, infatti, dal portare all’abbandono della diplomazia pontificia e alla chiusura di tutte le rappresentanze diplomatiche della Santa Sede, come suggerito da un vescovo brasiliano alla fine del concilio, il pontificato di Paolo VI diede un nuovo impulso all’attività internazionale del papato. Il numero di Stati accreditati presso la Santa Sede passò, dal giugno 1963 all’agosto 1978, da quarantanove a ottantanove (compresi la maggior parte degli Stati africani di recente indipendenza). Per quanto riguarda le rappresentanze presso gli Stati (nunziature, delegazioni apostoliche), furono quasi tutte raddoppiate nello stesso periodo. Le relazioni con le organizzazioni internazionali (ONU, BIT, FAO, UNESCO) registrarono ugualmente una crescita significativa, con la creazione di un posto come osservatore permanente a New York (1964) e a Ginevra (1967). Questo sviluppo sarebbe stato impensabile senza il concilio Vaticano II. Sebbene non si fosse occupato espressamente di politica, il concilio aveva comunque contribuito a rivedere la natura del rapporto della Chiesa con il mondo mettendo fine «à une conception dualiste selon laquelle l’Eglise se situerait, comme une entité déjà parfaite, face à un monde inexorablement mauvais» [1] . Un tale riesame non poteva non avere un profondo impatto sugli orientamenti della politica internazionale della Santa Sede. Fino al Vaticano II, l’obiettivo primario della diplomazia pontificia era stata la difesa dei diritti e della libertà della Chiesa ( libertas Ecclesiae ). Questa preoccupazione aveva portato i predecessori di Paolo VI ad attuare una politica di accordi concordatari con gli Stati senza tenere conto della natura dei loro regimi in nome del sacrosanto principio del «bene delle anime!» ( salus animarum ). «Quando si trattasse di salvare qualche anima, di impedire maggiori danni di anime, ci sentiremmo il coraggio di trattare con il diavolo in persona», aveva dichiarato Pio XI all’indomani della firma dei Patti lateranensi con l’Italia fascista [2] . La novità della politica seguita da Paolo VI, nello spirito del concilio, consistette nel promuovere la pace e la giustizia internazionale attraverso il metodo del dialogo. La Chiesa postconciliare non cercava più solo di difendere i propri interessi, ma si faceva solidale con le angosce e le preoccupazioni di tutta l’umanità. Il volume di Marialuisa Sergio è prezioso perché mette in luce questo aggiornamento della diplomazia vaticana a partire dagli insegnamenti del concilio sul rapporto Chiesa-mondo e sulla libertà religiosa. Esso non è una sintesi (ancora prematura) sulla storia della diplomazia vaticana negli anni del post-concilio, ma si presenta piuttosto come uno studio ben documentato su alcuni casi paradigmatici nelle transizioni internazionali fra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta: la Polonia di Gomulka e di Gierek, la Romania di Ceaucescu, il Portogallo di Salazar, la Spagna di Franco. Frutto di lunghe e pazienti ricerche negli archivi vaticani (fondo Casaroli) e italiani (carte Fanfani), il volume evidenzia la profonda sintonia di questa diplomazia del concilio condotta da Paolo VI con quella del governo italiano allora posta sotto la guida di esponenti della Democrazia Cristiana come Amintore Fanfani e Aldo Moro, più volte primo ministro e titolare degli affari esteri dal 1963 al 1974. Trattandosi della cosiddetta Ostpolitik vaticana, l’autrice osserva con acutezza che il rapporto tra le due diplomazie non fu a senso unico: mentre, nel caso della Polonia, l’Ostpolitik italiana è stata anticipata e trainata da quella vaticana, nel caso rumeno sarà la diplomazia della Santa Sede a doversi muovere a rimorchio dell’attività negoziale dell’Italia. Nonostante l’udienza concessa da Paolo VI a Ceaucescu nel 1973, la Romania rimarrà l’unico paese a non essere presente con una delegazione alla cerimonia per l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo II nel 1978. Se l’attività diplomatica della Santa Sede per salvare il salvabile nei paesi dell’Est comunista dopo il concilio è stata oggetto di varie pubblicazioni negli anni recenti, non si può dire altrettanto per ciò che riguarda gli sforzi della Santa Sede per facilitare la transizione democratica nel Portogallo e in Spagna prima e dopo la morte di Salazar (1970) e di Franco (1976) e la reintegrazione di queste due grandi nazioni cattoliche nella famiglia dei popoli europei. L’autrice non manca a questo proposito, e giustamente, di sottolineare la sostanziale continuità tra il disegno europeista di Paolo VI e quello paneuropeista di Giovanni Paolo II all’insegna della riunificazione del Vecchio Continente. Un altro grande merito del volume è di dimostrare come la diplomazia delle due sponde del Tevere ha dovuto fare i conti con due attori poco accondiscendenti durante questo periodo: gli Stati Uniti d’America sul piano internazionale, e gli episcopati nazionali sul piano interno. L’amministrazione americana sotto la presidenza di Johnson non vide di buon occhio i tentativi di mediazione italo-vaticana per far cessare i bombardamenti sul Vietnam e negli anni successivi, solidamente ancorata alla visione geostrategica anticomunista sviluppata da Henry Kissinger, non approvò il sostegno dato all’opposizione democratica contro le due dittature iberiche. Le reticenze dell’episcopato polacco nei confronti della politica di dialogo avviata con il governo comunista, oppure quelle, iniziali almeno, dell’episcopato spagnolo di fronte al processo di revisione del concordato del 1953 furono gestite da Paolo VI con delicatezza e, nel tempo stesso, con risolutezza e non misero in pericolo, come si poteva temere, l’unità della Chiesa nel periodo travagliato del post-concilio. Il libro si conclude con la constatazione di un paradosso: la collaborazione diplomatica tra la Santa Sede e l’Italia avvenne in un periodo di declino programmato del movimento politico che la incarnava e l’aveva resa possibile, cioè la Democrazia Cristiana di Giorgio La Pira, Amintore Fanfani, Aldo Moro. Il declino progressivo di questa grande forza politica internazionale fu dovuto non soltanto alla secolarizzazione della società occidentale dopo il ’68, ma anche al disimpegno politico voluto della Chiesa postconciliare. L’abbandono del collateralismo e la scelta religiosa non implicavano in realtà una volontà di disimpegno dalla sfera pubblica e istituzionale ma l’animazione di essa in senso etico e valoriale. Se alcuni leader democristiani (come Fanfani) fecero fatica a capire questa nuova strategia di presenza ecclesiale e di evangelizzazione, altri (come Moro), invece, seppero accompagnarla efficacemente. L’assassinio dello grande statista pugliese (9 maggio 1978) preludeva di fatto alla morte del pontefice che l’aveva ispirata e attuata (6 agosto 1978). Con la loro scomparsa finiva una stagione particolarmente feconda delle diplomazie vaticana e italiana mirata alla promozione dei valori della democrazia in Europa e nel mondo che, ora, con il bel libro di Marialuisa Sergio, possiamo conoscere meglio.

    PHILIPPE CHENAUX


    [1] M. Merle, Ch. de Montclos, L’Eglise catholique et les relations internationales, Paris, 1988, p. 231.

    [2] Discorso agli studenti del Collegio di Mondragone, 14 maggio 1929 (citato in La politica del dialogo. Le carte Casaroli sull’Ostpolitik vaticana, a cura di G. Barberini, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 802-803).

    INTRODUZIONE

    UNA DIPLOMAZIA FIGLIA DEL CONCILIO

    1. Né sconfitta né complice: la Chiesa del Vaticano II nelle transizioni europee

    «La questione è di predicare il Vangelo e la dottrina della Chiesa; difficoltà possono sorgere dai Governi atei che si oppongono al Vangelo, o anche da parte di uomini di Chiesa che si esprimono male e inopportunamente» [1] .

    Con queste parole, il 6 giugno 1974, mons. Agostino Casaroli invitava il governo spagnolo, nella persona del ministro degli Esteri Pedro Cortina Mauri, a rifondare le relazioni Stato-Chiesa improntandole ai principi della Costituzione pastorale del Concilio Vaticano II Gaudium et Spes.

    Il segretario della Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari, impegnato a Est nella difficile realizzazione dell’Ostpolitik vaticana, stava infatti incontrando nella cattolicissima Spagna non minori difficoltà e resistenze nell’attuazione della diplomazia di Paolo VI, volta a informare il sistema delle relazioni internazionali ai principi del rinnovamento conciliare [2] .

    La caustica battuta di Casaroli, che di fatto equiparava in negativo il materialismo ateo dei regimi dell’Europa orientale con il nazionalcattolicesimo delle dittature mediterranee, sintetizza perfettamente l’orientamento della politica estera della Santa Sede che, durante gli anni Sessanta e la prima metà del decennio successivo, nel segno delle acquisizioni del Concilio sul tema del rapporto Chiesa-mondo e su quello dei diritti umani, tenta d’imprimere un nuovo slancio al mondo cattolico per l’affermazione della democrazia sugli scenari europei ancora sotto il giogo delle dittature, comunista a Est e di estrema destra nel Mediterraneo.

    Alla luce di questa considerazione, il presente volume prende in esame quei casi paradigmatici in cui è più evidente il nesso di causa-effetto fra la svolta del Vaticano II e il rinnovamento del sistema politico in linea con la ricezione conciliare, in particolare sotto il profilo concettuale dei binomi religione-democrazia e Chiesa-nazione.

    Non si tratta dunque di proporre una nuova storia diplomatica della strategia vaticana della Distensione, circoscritta alla sfera delle dinamiche elitarie e verticistiche delle cancellerie, quanto piuttosto di tentare una ricostruzione multi-prospettica e transnazionale, quasi una Transfergeschichte, dei processi religiosi, culturali e politici innescati dall’ Evento conciliare nella direzione di una promozione su scala europea della democrazia e dei diritti umani.

    Partendo dall’analisi del dibattito conciliare, e precisamente dall’angolo visuale degli Episcopati appartenenti ai paesi qui esaminati, la ricerca mira quindi ad approfondire, sulla base della documentazione archivistica, il tema della trasformazione del contesto socio-politico di provenienza per effetto del mutamento delle relazioni fra la Santa Sede e i governi in questione.

    Con riferimento al rapporto fra religione e democrazia, il punto di avvio è certamente la discussione conciliare sulla libertà religiosa, che prende le mosse all’interno del dibattito sulla difesa delle prerogative della Chiesa rispetto all’ingerenza dell’ordinamento civile per poi diventare un’affermazione di più ampia portata sul diritto dell’uomo alla salvaguardia della propria libertà interiore [3] .

    Come spiegava infatti l’esperto conciliare padre Georges M. Cottier [4] , in una nota del 15 maggio 1963 per il Segretariato generale dell’Episcopato francese, il problema dei Rapporti fra la Chiesa e lo Stato era stato inizialmente preso in considerazione in un capitolo dello schema De Ecclesia dalla Commissione preparatoria, nella prospettiva del giusto riconoscimento dei diritti della Chiesa da parte della società politica; tale questione, però, successivamente scomparsa dal programma indicato dalla Commissione di coordinamento, sarebbe ritornata da un altro punto di vista nello schema XVII (in seguito schema XIII), nel capitolo II dedicato appunto alla libertà religiosa [5] .

    Prende dunque spazio il tema del pluralismo religioso come «valore integrante del bene comune che si impone come tale all’autorità politica» [6] , nella consapevolezza che gli Stati moderni, non più tutori del cristianesimo come nella società dell’Ancien Régime, non possano che regolare la convivenza civile secondo il parametro del rispetto delle diverse identità religiose e soprattutto sulla base del riconoscimento della dignità umana e del conseguente diritto della persona a rivendicare l’esercizio della propria responsabile libertà, principalmente sotto il profilo dei valori spirituali e religiosi, nei confronti di ogni possibile limitazione coercitiva da parte del pubblico potere [7] .

    La Declaratio de libertate religiosa. De iure personae et communitatum ad libertatem socialem et civilem in re religiosa, promulgata da Paolo VI il 7 dicembre 1965, pur essendo tra i testi più combattuti per l’opposizione della minoranza conciliare [8] , rappresenta dunque uno dei grandi traguardi del Concilio sotto il profilo della relazione fra religione e politica e fra Chiesa e democrazia.

    L’affermazione del principio della libertà religiosa nei paesi europei ancora segnati dalla dittatura costituisce infatti un fattore decisivo nella generazione di nuovi processi democratici. Come si vedrà nei capitoli successivi, a Est la Dignitatis Humanae apre una breccia nel muro divisorio fra i Blocchi, orientando i cattolici, laddove sono maggioranza, nella battaglia per la difesa dei diritti della Chiesa del silenzio (Polonia) o contribuendo, dove sono invece minoranza, a restituire dignità a una Chiesa invisibile, perché legalmente abolita, e perseguitata dal regime perché considerata straniera (Romania).

    Nel Mediterraneo, con la stessa dichiarazione conciliare viene inferto il colpo di grazia ai regimi di Franco e di Salazar, spingendo il cattolicesimo iberico a rinunciare agli antichi privilegi della religione di Stato per scindere il legame deleterio fra fede e potere politico.

    In entrambi i contesti appare decisiva la valorizzazione da parte di Paolo VI della funzione degli Episcopati nazionali, così come emerge con forza il ruolo risolutivo del primate della Chiesa polacca Stefan Wyszyn ´ski e del primate di quella spagnola Vicente Enrique y Tarancón.

    Non è solo però il rapporto fra religione e democrazia a essere segnato dalla svolta conciliare, ma anche quello più antico e altrettanto problematico fra Chiesa e Nazione.

    Come si cercherà di evidenziare nei capitoli che seguono, il forte legame emotivo e simbolico fra fede e autocoscienza della nazione nei paesi a maggioranza cattolica, o autocoscienza di gruppo nel caso di una presenza minoritaria (come in Romania), si declina, al tempo dell’ Aggiornamento, in forme ambivalenti e contraddittorie: di volta in volta esso agisce o come un fattore propulsivo di emancipazione dalla dittatura (a Est), o si traduce in una pastorale di conservazione dell’ordine politico esistente, come in Spagna e in Portogallo, dove la retorica identitaria diventa il campo di tensione fra spinte gerarchico-istituzionali e struttura sociale, caratterizzata dalle esigenze di una società sempre più pluralistica e secolarizzata.

    Una rappresentazione emblematica di queste dinamiche è offerta dall’iconografia mariana. In Polonia l’immagine della Madonna Nera di Czestochowa, simbolo di libertà della Chiesa del silenzio, è letteralmente pedinata dalla polizia politica per impedirne l’ostensione nelle processioni di massa, come ricorda – in un telegramma del 6 luglio 1966 – l’ambasciatore d’Italia a Varsavia Enrico Aillaud, secondo il quale «la vicenda dell’immagine si presterebbe a considerazioni umoristiche – tanto ridicola appare la caccia ripetutamente datale dalle Autorità, scottate da una evasione notturna dell’immagine stessa da Czestochowa, alcune settimane fa, se non coprissero uno stato di tensione che si è manifestata anche in forme più gravi» [9] . In Portogallo, invece, sono frequenti le liturgie politiche, celebrate dal Patriarca di Lisbona attorno all’icona di Nostra Signora di Fatima, con cui il regime di Salazar celebra se stesso come depositario di una missione mondiale di civilizzazione cristiana contro l’eresia comunista [10] .

    Come si vedrà, tuttavia, l’apertura della Chiesa del Concilio alle istanze di progresso e di libertà dei paesi in via di sviluppo e dunque la simpatia nei confronti degli indipendentisti delle colonie lusitane dell’Angola e del Mozambico determinerà in Portogallo una precisa presa di posizione del mondo cattolico su una serie di questioni fondamentali strettamente legate fra loro: la fine della presunta legittimazione cristiana dell’imperialismo dell’ Estado novo salazariano fondato sul rapporto fra religione e identità nazionale; il rifiuto dei legami atlantici delle dittature mediterranee cementati dall’anticomunismo e dalla presenza transnazionale di gruppi eversivi di estrema destra; la coscienza dell’inconciliabilità fra colonialismo e apertura all’Europa comunitaria.

    In situazioni nazionali del tutto differenti, in cui la posizione della Gerarchia ecclesiastica appare specularmente ribaltata (a Est debole e perseguitata, a Sud onnipotente e complice), i principi teologici stabiliti dal Vaticano II concorrono quindi in eguale misura a infrangere assetti politico-religiosi apparentemente cristallizzati e immodificabili.

    Sarebbe in definitiva riduttivo circoscrivere la politica estera della Santa Sede fra la metà degli anni sessanta e la metà degli anni settanta nel semplice schema dell’attività diplomatica svolta dalla Curia a sostegno degli episcopati locali dell’Europa orientale, poiché da sola non esaurisce la complessità insieme teologica e geopolitica della Renovatio ecclesiae del Concilio.


    [1] Archivio della Segreteria di Stato, Sezione Rapporti con gli Stati, Fondo Spogli, Carte Casaroli, Fasc. ff. 576-629, Verbale dattiloscritto del 6 giugno 1974, ff. 621, 622, 623, 624.

    [2] Per un inquadramento generale, cfr. A. Melloni, La politica internazionale della Santa Sede negli anni sessanta, in Id. a cura di, Il filo sottile. L’Ostpolitik vaticana di Agostino Casaroli, il Mulino, Bologna 2006, pp. 3-47.

    [3] Cfr. P. Chenaux, Paolo VI e la libertà religiosa, in «Anuario de Historia de la Iglesia», 25, 2016, pp. 193-207.

    [4] Il card. Georges Marie Cottier, teologo della Casa Pontificia dal 1989 al 2005, partecipò ai lavori del Concilio Vaticano II come esperto a fianco dell’arcivescovo di Aix-en-Provence Charles de Provenchères e successivamente come perito ufficiale nella IV sessione (14 settembre 1964-7 dicembre 1965). Fu particolarmente impegnato sul tema della libertà religiosa accanto al maestro, il card. Charles Journet, uno degli artefici della Dignitatis Humanae; cfr. ML. Sergio, Un teologo domenicano al Concilio Vaticano II: p. Georges Cottier, in «CVII – Centro Vaticano II. Studi e ricerche», IX, n. 2, 2015, pp. 119-138. Alla vigilia dalla promulgazione della Dignitatis Humanae, così scriveva Jacques Maritain al p. Cottier, il 25 settembre 1965 : «Et espérons que pour la liberté religieuse on fera appel à lui, de telle sorte que les vérités énoncées par la Déclaration possent in meliori luce poni ! », cit. in C. Journet, J. Maritain, Correspondance, vol. VI, 1965 - 1973, Éditions Saint-Augustin, Saint-Maurice 2008, p. 78.

    [5] G.M. Cottier, L’ Église et la société politique, in «Études et documents», bollettino curato dai periti del Concilio per il Segretariato generale dell’Episcopato francese, 12, 15 maggio 1963, ciclostilato di 7 pagine.

    [6] Archivio privato G.M. Cottier, Nota Œcuménisme.V.Ch.Liberté religieuse del 21 novembre 1963.

    [7] Archivio Pontificia Università Lateranense, Fondo Cottier, Fasc. 12, De Ecclesia, Dattiloscritto del 23 gennaio 1964, La Liberté religieuse. Suite au premier dossier (2 janvier 1964) constitué par S.exc. Sauvage, évêque d’Annecy.

    [8] Come ricorderà in seguito il card. Cottier, la Dichiarazione fu «un des textes les plus combattus du Concile. [...] À l’époque, Mgr Lefebvre ne nous apparaissait pas comme un leader. Il agissait dans l’ombre d’autres évêques beaucoup plus batailleurs et flamboyants, comme Mgr. Carli, qui parlait un très beau latin, et bien sûr le cardinal Ottaviani, préfet du Saint-Office. Lequel s’est battu jusqu’au bout, obligeant le Concile à préciser sa pensée», in P. Favre, Georges Cottier: Itinéraire d’un croyant, CLD, Tours 2007, p. 74.

    [9] Archivio della Segreteria di Stato, Sezione Rapporti con gli Stati, Fondo Spogli, Carte Casaroli, Fasc. ff. 253-343, Telegramma dell’Ambasciata d’Italia a Varsavia al Ministro degli Affari Esteri Amintore Fanfani, trasmesso per conoscenza alla Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, f. 282.

    [10] S .Cerqueira, L’Église catholique et la dictature corporatiste portugaise, in «Revue française de science politique», 23, 3, 1973, pp. 473-513, in particolare pp. 481-484.

    2. «Come Diogene con la sua lanterna»: la Democrazia cristiana italiana alla ricerca dell’Europa lungo le rotte conciliari

    «Je suis convaincu que, malgré les difficultés existantes, nous pourrons les surmonter au cours d’une marche dont nous ne nous dissimulons pas qu’elle sera peut-être lente et difficile [...afin] de trouver la meilleure méthode à suivre pour partir – comme Diogène avec sa lanterne – à la recherche de l’Europe» [1] .

    La suggestiva immagine della «ricerca dell’Europa con la lanterna di Diogene», che Amintore Fanfani utilizza in un colloquio con Maurice Couve de Murville il 27 marzo 1965 in riferimento alla Crisi della sedia vuota e allo stallo delle politiche comunitarie, rende plasticamente la visione complessiva dell’intera politica estera della Democrazia cristiana italiana degli anni sessanta e settanta. Si tratta cioè di una strategia che si muove, fra innumerevoli tensioni e battute di arresto, in direzione della costruzione di una politica di pace e di sviluppo su scala europea, inclusiva però non solo dei paesi fondatori dell’Europa comunitaria ma anche di quelli dell’Est e del Mediterraneo. Anche in questo caso si può parlare di una diplomazia figlia del Concilio, che appare pienamente romana nel doppio significato del termine, poiché riconducibile tanto all’impulso della Santa Sede, quanto all’impegno della Farnesina.

    Con l’inizio dell’esperienza dei governi di centro-sinistra nei primi anni sessanta, l’Italia comincia infatti a proporre una politica estera autonoma e originale, coerente con la sua posizione geografica nel Mediterraneo, confinaria fra Est e Ovest.

    Una maggiore autonomia dagli Stati Uniti è perseguita dall’Italia nel tentativo di favorire il dialogo fra i blocchi – nella convinzione espressa da Amintore Fanfani fin dal VI congresso nazionale del partito nel 1956 – che, «imponendo una seria trattativa ai partner del blocco sovietico con la forza delle proposte, la chiarezza degli intenti, i consensi dei popoli liberi» [2] , si possa dimostrare la superiorità della democrazia occidentale sul modello marxista, fino alla definitiva implosione, nella lunga distanza, dell’intero mondo comunista [3] .

    Per questo l’Italia tenta di aggiornare i rapporti con gli Stati Uniti alla luce di un atlantismo rinnovato [4] , che pretende «consultazioni politiche sui maggiori problemi, su un piede di parità», e si oppone alla formazione di direttori in seno alla Nato [5] .

    La necessità di un nuovo orientamento diplomatico nei confronti dei paesi dell’Europa dell’Est è certamente motivata, oltre che da ispirazioni ideali, anche da forti interessi economici poiché, in molti settori della classe dirigente, è diffusa l’idea che la stretta limitazione dell’azione internazionale del paese nel circuito atlantico sia negativa per la tutela delle proprie fondamentali esigenze di sviluppo economico (dagli scambi commerciali agli approvvigionamenti energetici) [6] .

    Ma sarebbe limitativo ignorare nella visione internazionale della Democrazia cristiana l’ispirazione ideale di fondo, radicata nella forte persuasione intellettuale dell’efficacia della cultura del dialogo [7] , fedele alla concezione personalista e cristiano-sociale nel frattempo corroborata e attualizzata dai pronunciamenti dottrinari del Concilio e del Pontificato di Paolo VI.

    Com’è stato efficacemente osservato da Roberto Ruffilli nel caso specifico di Aldo Moro, più volte primo ministro e titolare degli Affari Esteri dal 1963 al 1974, le scelte politiche permangono sempre coerenti con la concezione della persona umana secondo la lezione del cattolicesimo sociale europeo degli anni Trenta, aggiornata però alla luce del Magistero conciliare: «Il leader democristiano è rimasto fedele alle scelte di fondo adottate durante la formazione come giurista e come intellettuale di Azione cattolica: e cioè un giusnaturalismo ed un personalismo, non irrigiditi negli schemi del neotomismo di marca positivistica, ma influenzati da aspetti dell’idealismo e da uno storicismo, a forte carica spiritualistica, e con il perno nel realismo cristiano, circa la complessità del rapporto fra bene e male. [...] Nei discorsi post-sessantotteschi, Moro insiste molto sulla presenza di uno sviluppo incessante dell’uomo e della società, caratterizzato dalla compresenza di bene e male, e non riconducibile alla fine ad esiti obbligati, pur nella constatazione della crescita della capacità della ragione umana. Emerge qui anche l’influenza della lezione conciliare circa i segni dei tempi, e circa il superamento delle ideologie in tema di sviluppo unilineare, sottese alla dottrina sociale della Chiesa, secondo quanto sanzionato nel 1971 dalla Octogesima Adveniens di Paolo VI» [8] .

    Tale linearità si manifesta nella continuità fra l’azione di partito e la strategia internazionale, in modo particolare sul fronte della difesa dell’unità politica dei cattolici che, per Moro, è la condizione storica indispensabile per l’avvento di quella «nuova cristianità» personalista, che i credenti europei non devono smettere di sognare in nome di una società finalmente umana e di un ordine mondiale di pace duratura. È questo il senso di un significativo discorso che Moro pronuncia durante il convegno degli intellettuali di area democristiana sul tema I cattolici nei tempi nuovi della cristianità (Lucca, 28-30 aprile 1967), nel corso del quale egli introduce due ragioni per ribadire il principio dell’unità politica, che andava intesa, non come l’esito di una coazione autoritaria, bensì come una libera scelta di coscienza che in futuro avrebbe potuto anche dar luogo, in base a circostanze mutate, a inedite e autonome forme di presenza dei cattolici fuori dalla Dc [9] . Tali ragioni a favore dell’unità erano la democrazia e la pace: «Mi sono domandato con scrupolo che cosa facciamo, che cosa sappiamo fare, che cosa possiamo fare per la pace nel mondo. Noi cattolici impegnati nella vita politica, possiamo incrociare le braccia? Vi è certo un’esigenza di assunzione di responsabilità del politico, il quale non può consentire, come non può compiere, soprusi, il quale non può accettare pericolose alterazioni degli equilibri che caratterizzano il faticoso progresso del mondo verso la pace» [10] .

    Il riferimento ai «soprusi» e alle «pericolose alterazioni degli equilibri» tradisce la forte preoccupazione per un momento storico che si rivela fra i più complessi e difficili dell’Europa della seconda metà del Novecento, fra la guerra in Vietnam, il conflitto in Medio-Oriente nel 1967, il golpe militare in Grecia dello stesso anno. Questi episodi drammatici acuiscono la percezione negativa che la Democrazia cristiana di quegli anni ha della politica di Distensione perseguita dalle superpotenze lungo coordinate che, pur rappresentando l’inizio di un’evoluzione multipolare degli assetti internazionali (con l’entrata in scena di nuovi protagonisti, quali il Giappone e la Cina), di fatto comportavano un tentativo di esclusione dell’Europa dalla cabina direttiva del potere mondiale [11] .

    Per reazione all’unilateralità delle decisioni americane l’Italia, sotto la regia di Aldo Moro e di Amintore Fanfani, tenta d’impostare un metodo di Distensione allargato ai singoli paesi dell’Europa orientale attraverso la prassi degli accordi bilaterali, in vista di un cauto e progressivo superamento dei blocchi [12] . Con ciò la politica estera italiana, nonostante l’interna debolezza politica di Moro nel teatro domestico della Dc [13] , riesce «spesso a indicare ai suoi partner la via da percorrere insieme e prevedere quale avrebbe potuto essere, per ciascuno di loro, il punto d’incontro» [14] .

    Occorre tuttavia sottolineare ancora una volta la specificità della politica estera della Democrazia cristiana italiana, che non si esaurisce nella contingenza del confronto bipolare ma parte da motivazioni inscritte in una lettura degli eventi cristianamente ispirata. L’Est non è al di là del confine storico e culturale dell’Europa ma parte integrante di essa, secondo quanto Paolo VI aveva già ricordato agli studenti cattolici nel 1963 a proposito di «un’Europa socialmente e politicamente unificata» [15] , anticipando il noto discorso dell’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyła, alla vigilia della sua elezione al soglio pontificio, sul continente che respira con due «polmoni» [16] .

    Fin dagli anni cinquanta il dibattito europeista all’interno della cultura cattolico-democratica italiana aveva spostato le frontiere dell’Europa verso l’Est e nel Mediterraneo, ben al di là del perimetro dell’area centro-occidentale del continente in cui era collocata la Comunità europea [17] .

    Il governo di Roma, che persegue una maggiore indipendenza dagli Stati Uniti, guarda invece alla Santa Sede nel tentativo di contribuire alla Détente mediante una strategia di aperture verso i paesi d’oltre-cortina, ma anche attraverso un ruolo di mediazione nelle principali crisi internazionali, in particolare il Sud-Est asiatico. Sotto quest’ultimo aspetto, come si cercherà di approfondire in un capitolo a esso dedicato, il Vietnam rappresenta l’epicentro della politica estera dell’Italia nella seconda metà degli anni sessanta, appunto a causa della costante sollecitazione della Santa Sede in favore di una soluzione negoziata del conflitto asiatico.

    Infine, un altro fronte europeo della guerra fredda, sebbene preso meno in considerazione dalla storiografia italiana, è il Mediterraneo all’epilogo delle dittature salazarista e franchista.

    Come si è detto, la penisola iberica è per la diplomazia conciliare di Paolo VI e di mons. Casaroli un banco di prova fondamentale per l’inveramento dei principi del Vaticano II relativi al rapporto Chiesa-mondo e alla questione dei diritti umani.

    Anche in questo scenario la Democrazia cristiana, agendo di concerto con la diplomazia vaticana, non fa mancare la propria collaborazione, intervenendo attivamente nelle convulse dinamiche della transizione democratica post-salazarista e post-franchista.

    Scrive infatti nel novembre 1971 il responsabile della Sezione Esteri della Direzione centrale Angelo Bernassola, su «La Discussione», che è dovere dei democristiani italiani incidere negli affari internazionali con «presenza di idee, di iniziativa, di spinta» per non ridursi a «forza transitoria e senza storia» e per proporsi invece come avanguardia, in tutto il Mediterraneo, di un movimento «per lo sviluppo dei popoli e per la pace mondiale»; e ancora: «il nostro collegamento è continuo con i gruppi democratici cristiani operanti clandestinamente in Spagna, e sottoposti frequentemente dal regime franchista a violenze, processi e persecuzioni [...]. Questi movimenti democratici di ispirazione cristiana vanno seguiti, sostenuti politicamente e aiutati se vogliamo assicurare un futuro di libertà non solo politica ma – si badi bene – anche religiosa ai loro Paesi, allargare l’area democratica in Europa Occidentale e scongiurare un ulteriore aggravarsi della già pesante situazione nel Mediterraneo. [...] In conclusione possiamo serenamente affermare che il movimento democratico cristiano costituisce, in Europa e nel mondo, un insostituibile punto di riferimento e un prezioso polo di attrazione per tutte le forze che si riconoscono nei valori della libertà, della democrazia e dell’ordinato sviluppo civile» [18] .


    [1] Archives du Ministère des Affaires Étrangères, Paris-Nantes, Serie SG-Secrétariat Général, Réunions, Entretiens, Communiqués, b. 24 19, Entretiens franco-italiens, Rome 27/03/1965.

    [2] A. Fanfani, Relazione al VI congresso della Democrazia cristiana, Trento 14 ottobre 1956, in Id., Da Napoli a Firenze (1954-1959), Garzanti, Milano 1959, pp. 116-117.

    [3] Cfr. B. Bagnato, Fanfani, la crisi del comunismo e il nuovo scenario internazionale, Id, a cura di, Amintore Fanfani e la crisi del comunismo Arezzo 1957: XI Congresso delle NEI, Polistampa, Firenze 2009, pp. 93-174.

    [4] G. Formigoni, Democrazia Cristiana e mondo cattolico dal neoatlantismo alla distensione, in Un ponte sull’Atlantico. L’alleanza occidentale 1949-1999, a cura di A. Giovagnoli-L.Tosi, Guerini e associati, Milano 2003, pp. 141-167 e M. De Leonardis, La politica estera italiana, la NATO e l’ONU negli anni del neoatlantismo (1955-1960), in L’Italia e le organizzazioni internazionali. Diplomazia multilaterale nel Novecento, a cura di L. Tosi , Cedam, Padova 1999, pp. 201-233.

    [5] A. Fanfani, Programma del Governo delle convergenze democratiche, in Id., Dopo Firenze. Azione per lo sviluppo democratico dell’Italia, Garzanti, Milano 1961, pp. 83-87; Viaggio a Mosca e opera di pace dell’Italia. Discorso conclusivo del dibattito sul bilancio degli Esteri alla Camera, 29 settembre 1961, ivi, pp. 251-252; Id., Il secondo governo di centro-sinistra, in Centro-Sinistra ’62, Garzanti, Milano 1963, pp. 90-91. La costante richiesta dell’Italia agli Stati Uniti di dare applicazione all’articolo 2 del Patto atlantico, che contemplava una cooperazione fra alleati non solo militare ma anche economica e culturale, rimane però sostanzialmente inascoltata; cfr. A. Brogi, L’Italia e l’egemonia americana nel Mediterraneo, La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 149-250. Il piano Harmel del 1967, che prevedeva un sistema periodico di consultazione fra alleati per dare attuazione all’art. 2 del Patto atlantico, sembrava agli italiani piuttosto astratto, simbolico e inefficace. Sul piano Harmel cfr. Joachim Brockpähler, Die Harmel-Philosophie: Ausdruck einer kreativen Friedensstrategie der NATO, in «NATO Brief», 6, November–December 1990, pp. 20-24; sullo scetticismo italiano cfr. L. Nuti, L’Italia e l’Alleanza atlantica, in Le armi della Repubblica: dalla liberazione a oggi, a cura di N. Labanca, Utet, Torino 2009, p. 169.

    [6] Cfr. L. Tosi, Tra politica ed economia, i nuovi orizzonti delle relazioni internazionali italiane, in Amintore Fanfani e la politica estera italiana, a cura di Id.- A. Giovagnoli, Marsilio, Venezia 2010, pp. 61-62.

    [7] Su questa impostazione influì com’è noto la visione pacifista e l’attivismo negoziale del sindaco di Firenze Giorgio La Pira, strenuo sostenitore del dialogo con l’Urss, del confronto ecumenico fra religioni, della pace nel Mediterraneo e in Vietnam. Nell’immensa bibliografia su Giorgio La Pira, cfr. i ricordi di A. Fanfani, Giorgio La

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