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Il segreto della miniera
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E-book280 pagine3 ore

Il segreto della miniera

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Info su questo ebook

Un segreto antichissimo per cui l’uomo non è ancora pronto. Una promessa che si tramanda di padre in figlio. Due fratelli cui cambierà la vita.
Owen e Kylie si trovano a intraprendere un viaggio lunghissimo, con l’aiuto dell’amico Brent, alla ricerca di un fantomatico tesoro. La loro avventura sarà ostacolata dalla sete di potere di un uomo spietato che, per raggiungere i propri scopi, è disposto ad assoldare una squadra di mercenari.
«Legateli e lasciateli in un cunicolo laterale» ordinò Kim «saranno così fortunati da avere un posto in prima fila durante i fuochi d’artificio!» sentenziò ridendo, senza un briciolo di compassione.
Chissà chi riuscirà a raggiungere il cuore del segreto della miniera.
 
LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2018
ISBN9788856788013
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    Anteprima del libro

    Il segreto della miniera - Elena Bianchi

    Socrate

    Capitolo 1

    Sud Africa

    Primavera

    5.000 anni fa

    La mattina stava finalmente sopraggiungendo. Nonostante la pioggia caduta nella notte, il cielo si era rischiarato e il sole stava lentamente illuminando la steppa facendo avvertire il flebile tepore dei suoi raggi che, col passare delle ore, avrebbero riscaldato la giornata.

    Kamala non aveva dormito. Oggi era un giorno importante per lui e aveva trascorso tutta la notte a ultimare tutti i preparativi. Quello, infatti, sarebbe stato il decimo anno dopo la nascita di suo figlio; giorno in cui sarebbe diventato un adulto e si sarebbe unito agli altri nella caccia.

    Aveva pensato a tutto. Aveva preparato la terra rossa, bianca e gialla con cui si sarebbero dipinti i volti; aveva intrecciato le corde per le trappole a cappio da appendere ai rami con la speranza di catturare la selvaggina più piccola; aveva preparato il suo sacco e quello di suo figlio mettendoci dentro i pochi averi: una pipa fatta con osso cavo, un po’ di tabacco e della canapa. Nella faretra cucita al sacco, aveva messo due bastoni per fare il fuoco e le frecce, che aveva realizzato per sé e per il piccolo arco del ragazzo, imbevendo personalmente le punte d’osso con il veleno ricavato dalla larva di uno scarabeo, legandole poi al fusto con dell’erba in modo tale che, una volta ferita la preda, la punta si potesse staccare per restare conficcata nella ferita. Infine, aveva legato l’arco alla faretra e vi aveva aggiunto anche un paio di corte lance.

    Adesso tutto era pronto ma Kamala non si dava pace, aveva più volte consultato i bastoncelli miracolosi, ma anche lì, come nella pioggia che la sera prima aveva disturbato la danza propiziatoria per la caccia, si poteva leggere solo un presagio oscuro.

    Cercava in tutti i modi di non pensarci. Lui era il capo della tribù e suo figlio sarebbe stato il suo erede. Quel giorno si sarebbe distinto nella caccia per il suo valore e per il suo coraggio, sarebbe andato tutto bene e lui sarebbe stato orgoglioso del piccolo Kemetse, come suo padre lo fu di lui.

    Un rumore nella capanna lo distolse da tutti i suoi pensieri.

    «Kemetse, figlio mio, sei sveglio finalmente! Dobbiamo sbrigarci, un capo ha l’obbligo di dare il buon esempio, non possiamo fare tardi» gli disse, sollecitandolo con tono affettuoso.

    Il ragazzo si stiracchiò un po’ e, con un sorriso che gli fece illuminare i grandi occhi neri, sussurrò: «Hai ragione padre, oggi il capo sono io!». Kamala non lo riprese, in fondo aveva un po’ di ragione, quello era il suo giorno, il giorno in cui sarebbe diventato un uomo.

    La tribù si era svegliata da poco, ma erano già tutti pronti per partire. Era da un po’ che non uscivano per cacciare e speravano che quella sarebbe stata una giornata fortunata, soltanto Kamala e Gnut, lo sciamano che la sera prima aveva interrogato i bastoncelli insieme a lui, osservavano l’orizzonte sospettosi e preoccupati da ciò che avrebbe potuto offuscare quella splendida giornata.

    Erano già passate tre ore da quando avevano lasciato l’accampamento, tuttavia non avevano ancora incontrato nessuna traccia di animale. Avevano sistemato delle trappole sugli alberi incontrati lungo la strada in modo che, se avessero funzionato, al ritorno avrebbero raccolto la selvaggina.

    Passate le cinque ore senza trovare nessun animale da cacciare, Kamala cominciò a pensare che lo strano presagio della sera prima riguardasse l’esito infruttuoso della giornata e, per quanto avessero bisogno di mangiare un po’ di carne, in cuor suo sperava che fosse solo quello.

    La vista di un branco di antilopi fece sussultare Kemetse, che subito si appiattì nella steppa insieme con gli altri. Il padre strisciò silenzioso verso di lui e gli sussurrò: «Fa’ attenzione figliolo!», cercando di nascondere la paura da cui si sentiva pervadere.

    Gli uomini della tribù si avvicinarono al branco senza che gli animali si accorgessero di loro, come dei serpenti che strisciano silenziosi in mezzo all’erba. Fremevano in attesa di poterli attaccare, ma sapevano che quel giorno la prima freccia a essere scoccata doveva essere quella di Kemetse.

    Non appena udirono il sibilo del dardo volare sopra le proprie teste, anche gli altri scoccarono le loro frecce. Poi si misero nuovamente al riparo ben nascosti dall’erba, immobili, ad attendere che il veleno facesse effetto, senza perdere di vista gli animali che erano riusciti a colpire e aspettando di poter uscire allo scoperto per raccogliere il frutto della caccia.

    La freccia del giovane ragazzo era andata a segno.

    Avrebbe voluto gridare a tutti Guardate ce l’ho fatta!, ma sapeva che doveva attendere in silenzio, affinché gli animali non fuggissero.

    Vibrava d’impazienza, standosene nascosto tra l’erba fino a che non udì uno scalpitio. Alzò lievemente la testa per vedere cosa stesse succedendo e restò sconcertato quando scorse la sua preda che correva via. Ma dove andava? Quello era il suo trofeo, lo avrebbe mostrato a tutti vantandosi di quanto fosse stato bravo. E adesso? Gli altri lo avrebbero deriso ripetendogli che non era stato in grado di ucciderla, non poteva lasciarla andare via.

    Si mise a strisciare freneticamente, ignorando il dolore provocato dagli arbusti secchi e dalle pietre appuntite che gli graffiavano la pelle. Non sentì neppure il padre che gli ordinava di fermarsi. Doveva raggiungerla e portare a termine il suo compito, nessuno avrebbe deriso il futuro capo.

    Kamala, ancora terrorizzato dai cattivi presagi, intimò a Mahala di seguirlo e di riportargli suo figlio incolume.

    Già si avvertiva il malcontento tra gli altri cacciatori. Quello non era il comportamento da tenersi durante una battuta di caccia, soprattutto da parte del figlio del capo tribù. Avrebbe potuto far scappare via il resto del branco, facendoli restare senza il cibo tanto agognato.

    Stavano per lamentarsene con Kamala, quando furono distratti da Mahala che, noncurante degli animali, si alzò in piedi e si mise a correre verso di loro gridando.

    «Sono spariti! Sono spariti!».

    Le antilopi che non erano state colpite fuggirono via, mentre le altre, con grande conforto dei cacciatori, stavano già soccombendo al potente veleno.

    A quel punto tutti volsero istintivamente il proprio sguardo verso Mahala, cercando di capire cosa stesse succedendo.

    L’uomo che correva verso di loro continuava a dimenarsi, suscitando una breve ilarità nel gruppo. Alto un metro e quaranta, sporgeva dall’erba soltanto per la parte dalle spalle in su, con le braccia che si muovevano freneticamente sopra la testa e le ginocchia che di tanto in tanto sbucavano all’altezza del petto, gridando frasi incomprensibili.

    «Sono spariti, è stato un maleficio! Sono spariti nel nulla!».

    Nessuno comprendeva a cosa si stesse riferendo, tanto che ormai tutti credevano che stesse delirando. Solo Kamala si fece scuro in viso e, alzandosi di scatto dalla sua postazione, corse verso di lui.

    «Cosa è successo a mio figlio? Dove è? Perché non è tornato con te? Ti avevo ordinato di ricondurlo da noi!».

    Sapeva che un capo non doveva mostrarsi spaventato e debole, ma in quel momento non riuscì a controllarsi. Kemetse era il suo unico figlio e non poteva perderlo come già era successo con sua madre, deceduta durante il parto senza che lui potesse fare nulla per impedirlo.

    Kamala non aveva voluto una nuova compagna al suo fianco, per questo non aveva avuto altri figli e adesso non poteva neanche immaginare di aver perso per sempre anche lui.

    Mahala riprese fiato e ancora affannato ricominciò a farneticare: «Mi dispiace capo Kamala ma sono spariti! Sono spariti tutti e due! È stato un maleficio ne sono sicuro, non potevo farci niente! Un momento li avevo davanti a me e il momento dopo non c’erano più!».

    Tutti i compagni si fecero intorno a lui cercando di calmarlo e capire di cosa stesse parlando.

    Kamala si riscosse dai propri pensieri e cominciò a impartire ordini: «Dobbiamo ritrovare Kemetse. Voi cinque occupatevi degli animali morti, noi andremo con Mahala, ci mostrerà cosa è successo». Non poteva accettare, inerme, che il presagio diventasse realtà portandogli via il figlio tanto amato, doveva fare il possibile per trovarlo.

    Mahala restò impietrito, non poteva disobbedire a un ordine del suo capo, ma non voleva neppure tornare indietro. Aveva troppa paura.

    Un compagno lo riscosse prendendolo per un braccio. «Hai sentito il capo? Dobbiamo ritrovare Kemetse. Mostraci il punto in cui è svanito». A quelle parole l’uomo fece un passo indietro, poi però trovò la forza per guidare il gruppo nel luogo dove era avvenuto ciò che riteneva un sortilegio.

    «Ecco, erano là quando sono svaniti nel nulla, ma più di così io non mi voglio avvicinare!» affermò l’uomo indicando con il bastone per scavare.

    «Codardo!» sussurrò Kamala, con tono di disprezzo. «Va bene non imporrò a nessuno di seguirmi, se credete alle parole di un pazzo, potete restare qui ad aspettare il mio ritorno, ritroverò mio figlio da solo!» affermò poi, vedendo che anche gli altri si erano fermati a osservare con uno sguardo impaurito il luogo indicato.

    Mentre si avvicinava, scrutato dagli altri che attendevano di vederlo sparire da un momento all’altro, Kamala notò un grosso buco nel terreno nascosto dall’erba alta. «Stupidi idioti» esclamò. «Mio figlio potrebbe essere là sotto ferito, e loro si lasciano spaventare da un maleficio inesistente», si lamentò ad alta voce.

    «Padre, sei tu? Aiutami ti prego, non riesco a risalire, devo essermi rotto qualcosa!».

    Al suono di quella voce, l’uomo si confortò e cominciò a gridare verso gli altri: «Presto portatemi delle corde, Kemetse è qui sotto, dobbiamo raggiungerlo! Fate presto!». I quattro uomini si guardarono stupiti del fatto che non fosse successo niente al loro capo. Esitarono un attimo ma poi corsero verso Kamala.

    «Che cosa è questo?» esclamarono quasi in coro.

    «Il vostro maleficio! Sbrigatevi, legate insieme delle corde, devo scendere là sotto». Li riprese con un tono che lasciava trapelare la ritrovata serenità, e allo stesso tempo l’impazienza di raggiungere suo figlio.

    In poco tempo le corde furono pronte e Kamala si fece calare nel foro per raggiungere il ragazzo, che continuava a lamentarsi per il dolore alla gamba.

    «Ancora un altro po’, sono quasi arrivato».

    Quando finalmente toccò terra, corse ad abbracciare Kemetse, e quando si staccò da lui, rimase sconvolto nell’ammirare tanto splendore.

    «Che posto è questo? C’è un fiume che scorre sotto terra. Com’è possibile?». L’acqua era la più cristallina che i due avessero mai visto, e scorreva silenziosa vicino a loro.

    «Sì padre... là si forma anche un piccolo laghetto, ma mi aiuteresti ad alzarmi? Da solo non ce la faccio». Rispose Kemetse che, mentre Kamala si apprestava a scendere da lui, aveva avuto tutto il tempo di guardarsi intorno.

    Kamala non lo sentì neppure, si stava già dirigendo verso il laghetto come se fosse attratto da una forza sconosciuta. Si chinò e bevve da quella fonte limpida che tanto lo chiamava a sé.

    «No padre, non lo fare!» gridò, ma era troppo tardi. Il ragazzo era terrorizzato da ciò che gli poteva accadere. Infatti, poco prima, anche l’antilope aveva bevuto da quella fonte, per poi morire non distante da lì. Non sapeva se fosse stato a causa dell’acqua o del veleno della sua freccia, ma ora temeva per il destino del suo unico genitore.

    Kamala bevve e subito la sua pelle scura sembrò risplendere di luce propria. Completamente imperlata di sudore, rifletteva la luce del sole, che riusciva a filtrare fino a lì sotto attraverso il pertugio da cui era disceso poco prima. Si sentì come se lo stessero sollevando da terra, fu pervaso da brividi fino a cadere a terra incosciente. Quando si riprese, suo figlio era strisciato verso di lui e lo teneva tra le braccia.

    «Questa sarà la nuova dimora della tribù, ci accamperemo all’entrata e proteggeremo questo posto dal resto del mondo, saremo i guardiani della sorgente».

    Capitolo 2

    Provincia del Capo, Sud Africa

    1895

    La giornata era calda all’esterno, e all’interno della miniera l’aria era irrespirabile. L’umidità si attaccava alla pelle e lavorare era praticamente impossibile. Per fortuna dovevano far brillare quella parete.

    Dopo aver posizionato l’esplosivo, erano stati fatti uscire tutti i minatori per timore di qualche crollo collaterale. Solo Karl e il signor Thompson erano rimasti nei pressi dell’entrata.

    Il boato, prodotto dalla pietra che crollava dopo la detonazione, fu più forte di quanto si fossero aspettati.

    «Karl va’ a controllare che sia andato tutto per il meglio!» ordinò Thompson.

    Il ragazzo s’infilò di corsa all’interno della miniera, tenendo un fazzoletto sulla bocca per proteggersi dalla polvere e dal fumo.

    La visibilità era essenzialmente inesistente, ma lui conosceva quelle gallerie come il palmo della sua mano. Guardava a destra e a sinistra, sfrecciava sicuro tra i carrelli in sosta sui binari senza mai fermarsi. Sembrava tutto in ordine, non riusciva a dare una spiegazione a quello strano rumore udito dopo l’esplosione.

    Arrivato di fronte alla parete che avevano fatto saltare in aria, scrutò ogni singola pietra. Le tastò e, con il lento diradarsi del fumo, poté anche notare un lieve scintillio prodotto dal riflesso dalla luce della sua lampada sulle pareti. La detonazione era andata come doveva.

    Stava tornando indietro per avvertire tutti della buona notizia, correva ancora più forte di quando era entrato.

    Passando di fronte alla galleria tre ovest, notò qualcosa di diverso e si fermò di scatto, fece qualche passo indietro e imboccò l’entrata.

    Com’era possibile? Da quella galleria stava filtrando della luce; le lampade a olio erano tutte spente, ma allora da dove proveniva quel bagliore. Che cosa stava succedendo?

    Arrivato in fondo, rimase strabiliato da ciò che vide. Era impossibile!

    In un attimo tornò sui suoi passi e uscì dalla miniera. Gli sembrò di aver volato per arrivare fin lì, i suoi piedi quasi non avevano toccato terra per quanto erano andati veloci.

    Il fazzoletto lo aveva perso da qualche parte all’interno delle gallerie e il suo respiro era divenuto sempre più affannato, sia per la corsa che aveva appena fatto, sia per le polveri che aveva respirato.

    Gli occhi gli bruciavano tremendamente e non vedeva quasi più nulla, soprattutto con il riverbero della luce esterna, che gli batteva direttamente sul viso. Tuttavia riuscì a distinguere chiaramente la sagoma dell’uomo che cercava.

    «Signor Thompson, signor Thompson» cercò di chiamarlo, ma si accorse che stava emettendo solo dei grossi colpi di tosse. Anche quando arrivò finalmente di fronte a lui, non riusciva ancora a parlare.

    «Tieni ragazzo, bevi un po’ d’acqua, dimmi, è andato tutto bene? Ci sono stati danni?» lo esortò il proprietario della miniera, porgendogli una borraccia. «Ma ti sei ferito... cosa è successo?».

    Karl si guardò addosso, non si era neppure reso conto che stava sanguinando da una spalla, forse si era graffiato con qualche roccia appuntita nella fretta di tornare, ma non se ne ricordava. E poi non era importante.

    «No, non si preoccupi, è solo un graffio» lo rassicurò.

    «E allora dimmi, cosa è successo?» Thompson lo esortò ancora.

    «La detonazione è andata bene. La parete si è sbriciolata e ho visto che qualcosa brillava sui muri». Fece una breve pausa per riprendere fiato, ma non abbastanza da permettere a Thompson di intervenire. Trasse un lungo respiro e continuò a raccontare: «L’esplosione è andata come avevamo calcolato, ma c’è stato un crollo in fondo alla galleria tre ovest».

    Distolto per un attimo dall’euforia provocata dalla prima notizia che Karl gli aveva riferito, Thompson si accigliò per un momento.

    Aveva sentito gli uomini descrivere quella galleria come se fosse maledetta. Alcuni avevano anche affermato di aver sentito dei lamenti provenire dal suo interno, e tutti si rifiutavano di lavorare là dentro. Stupide superstizioni, pensò, per poi riprendere a parlare con il ragazzo. «Per fortuna avevamo evacuato la miniera, anche se di certo in quella galleria non ci sarebbe stato nessuno comunque».

    «Ma signore...» cercò di interromperlo Karl, senza alcun effetto.

    «Sì, sì. Lo so, adesso dovremo ripulirla dai detriti, ma non credo che ci sia qualcuno disposto a entrare lì dentro. Forse dovremmo lasciarla così com’è e dedicarci a quelle pareti luccicanti di cui parlavi prima» sogghignò soddisfatto mentre si passava la mano tra i baffi sporchi di terra e gli occhi gli brillavano come oro.

    «Ma signore... mi scusi, io credo che debba venire a vedere» insisté Karl.

    Thompson, che già stava stimando quanto gli avrebbe fruttato il filone appena trovato, lo guardò con fare interrogativo. Non capiva cosa ci fosse da vedere in una galleria crollata, tuttavia Karl era così insistente che decise di lasciarlo continuare.

    «Deve vedere con i suoi occhi, io non so proprio come spiegarle, è importante e... inoltre, se fossi in lei, lascerei gli uomini fuori ancora per un po’».

    L’uomo non riusciva a comprendere cosa farneticava quel ragazzo. Aveva forse respirato qualche strano gas fuoriuscito dopo l’esplosione? Cosa poteva esserci di più importante del suo oro?

    Con fare titubante lo scrutò attentamente, non notò nulla di strano in lui, non più del solito almeno, e decise di assecondare le sue pretese. In fondo lo aveva incuriosito. Poi tutte quelle storie sulla galleria maledetta, chissà che non fossero fondate!

    Si lisciò nuovamente i baffi e, sorridendo, si girò verso i minatori. «Il signor Karl, qui, dice che dovrete attendere ancora un po’ prima di tornare al vostro lavoro, godetevi la vostra pausa perché al nostro ritorno non ammetterò gli sfaticati!» asserì con il suo solito tono bonario.

    Karl rientrò nella miniera, seguito da Thompson che sfoggiava un enorme sorriso. Si riusciva a distinguerlo bene, anche se aveva il volto in gran parte coperto con il fazzoletto. Le rughe che gli correvano sopra gli zigomi e gli occhi azzurri che brillavano di luce propria ne tradivano l’espressione beata.

    La polvere si era depositata a terra quasi del tutto, il fumo si era ormai dissipato e la visibilità era tornata normale, per quanto si possa definire normale all’interno di una miniera illuminata soltanto da una vecchia lampada a olio.

    «Potevi almeno accendere le lampade» bofonchiò, ma restò basito dalla risposta del ragazzo.

    «Non ce ne sarà bisogno, signore» replicò il ragazzo sicuro di sé.

    L’uomo stava per ribattere, ma d’improvviso si fermò, guardò davanti a sé e spostò Karl di lato.

    «Non capisco ragazzo, hai acceso le torce nella galleria crollata, che bisogno c’era?».

    «No signore, non le ho accese, sono subito corso da lei, non ne ho avuto il tempo».

    «Ma allora da dove arriva questa luce?».

    «Signore, con tutto il rispetto, le ho detto che deve vedere con i suoi occhi, a me non crederebbe mai!» insisté Karl.

    Thompson perse il sorriso che fino ad allora aveva nascosto sotto il fazzoletto. Esitò un po’, stava quasi per tornare indietro, ma trovò la forza di proseguire. In fondo al ragazzo non è successo nulla, e poi le storie su quella galleria sono soltanto dicerie si disse, cercando di non dare troppo peso a ciò che raccontavano i minatori.

    Seguendo la luce, arrivarono davanti alla curva che dava accesso alla maledetta galleria tre ovest.

    Karl si fermò e sussurrò: «Credo che vogliano che lei prosegua da solo, mi hanno detto che dovevo tornare all’entrata, per assicurarmi che nessuno arrivi fin qui».

    «Detto? Vogliano? Di chi stai parlando? Ragazzo, sei impazzito veramente?» domandò Thompson, ormai al limite della propria pazienza.

    Ma Karl era già corso via, se possibile ancor più velocemente della prima volta, lasciando dietro di sé soltanto un nugolo di polvere.

    Thompson cercò dentro di sé qualche briciola di coraggio per varcare l’ultima curva. Che cosa lo attendeva oltre? Esistevano davvero quegli spiriti maligni di cui farneticavano i suoi uomini? Chi era che voleva parlare con lui?

    «Ma no...! sono solo sciocchezze!» disse ad alta voce, quasi a voler esorcizzare i suoi timori.

    Aveva la testa pervasa da una miriade di pensieri, ma non riusciva ad andare oltre. In fondo, lui il coraggio non lo aveva proprio.

    Nato figlio unico da una ricca famiglia, fin da piccolo era stato tenuto sempre al riparo dai pericoli.

    Sua madre, una bellissima ragazza di buona famiglia, era iperprotettiva nei suoi confronti, soprattutto dopo che si accorsero di quel lieve zoppicare, causato da una malformazione del piede sinistro.

    La madre lo proteggeva da tutto e da tutti, lo coccolava come se fosse stato un piccolo principe.

    Lui osservava gli altri bambini intraprendere imprese temerarie senza alcun timore sul volto, come se fossero spinti da una forza invisibile

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