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Le aquile della guerra
Le aquile della guerra
Le aquile della guerra
E-book547 pagine16 ore

Le aquile della guerra

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Info su questo ebook

«Chi è l’astro nascente del romanzo storico? Io dico Ben Kane.»
Wilbur Smith

Un grande romanzo storico

9 d.C., Germania.
Vicino al Reno, il centurione romano Lucio Tullo arringa le truppe: sa che la sorte dei suoi uomini non dipenderà solo dalla disciplina e dalla formazione, ma anche dalla sua autorità. Sulla sponda opposta del fiume sono asserragliate le tribù germaniche, in rivolta per i tributi che l’impero pretende da loro. Ma né Tullo, né il suo comandante Varo sanno che a fianco degli avversari si schiererà anche il carismatico Arminio, ex alleato di Roma che da mesi sta tramando per far insorgere i barbari. E mentre le legioni di Varo si preparano a lasciare l’accampamento, migliaia di ribelli si vanno ammassando nelle vicinanze, pronti a sferrare l’attacco decisivo. Uno scontro all’ultimo sangue deciderà il destino delle aquile di Roma: li attende il trionfo o la morte in una terra straniera e ostile?

La bravura di Ben Kane nel raccontare i momenti cruciali e sanguinosi della storia di Roma non è seconda a nessuno

«Scritto magistralmente.»
The Times

«Una storia avvincente, che non dà tregua, raccontata con dettagli vividi in una prosa muscolare.»
Daily Telegraph
Ben Kane
Nato in Kenya, si è poi trasferito con la famiglia in Irlanda. Laureato in Veterinaria, è un grande appassionato di storia. È considerato uno dei massimi autori di romanzi storici contemporanei, tra cui ricordiamo La legione dimenticata, I figli di Roma e la serie di maggior successo, dedicata al gladiatore Spartacus. Con Le aquile della guerra, la Newton Compton inizia la pubblicazione della nuova trilogia di questo prestigioso autore.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2015
ISBN9788854190009
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    Anteprima del libro

    Le aquile della guerra - Ben Kane

    en

    1122

    Titolo originale: Eagles at War

    Copyright © Ben Kane 2015

    First published by Preface Publishing, an imprint of Cornerstone Publishing. Cornerstone Publishing is a part of the Penguin Random House group of companies.

    Ben Kane has asserted his right to be identified as the author of this Work in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    All rights reserved

    Traduzione dall'inglese di Marco Bisanti e Federica Gianotti Tabarin

    Prima edizione ebook: gennaio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9000-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Ben Kane

    Le aquile della guerra

    omino

    Newton Compton editori

    Questo libro è per i miei lettori, per ciascuno di voi. Siete sparsi in tutto il mondo e in tutti i continenti, escluso l’Antartide*. Il vostro affetto mi dà la libertà di essere uno scrittore a tempo pieno e di fare un lavoro che amo.

    Per questo, grazie di cuore.

    * Se lavorate in Antartide e leggete i miei libri lì, vi prego, ditemelo!

    «Quintili Vare, legiones redde!».

    (Quintilio Varo, rendimi le mie legioni!).

    Testimonianza di Svetonio sulla reazione dell’imperatore Augusto alla notizia della disfatta di Varo

    Prologo

    Germania, 12 a.C.

    Il piccolo dormiva sodo ma alla fine le pacche insistenti sulla spalla lo svegliarono. Aprì gli occhi gonfi di sonno e vide una sagoma china su di lui. Appena tratteggiato dal lumicino che aveva dietro, il viso del padre – barba, sguardo intenso, cornice di trecce intorno al viso – lo fece sobbalzare dallo spavento.

    «Tutto bene, orsacchiotto? Non sono un fantasma».

    «Che c’è, padre?», mormorò.

    «Devo farti vedere una cosa».

    Dietro l’imponente figura paterna c’era la madre. Malgrado l’oscurità della lunga capanna e lo stordimento del risveglio, il bambino si accorse che era triste. Guardò di nuovo il padre. «Viene anche lei?»

    «No. È una cosa da uomini».

    «Ho solo sette anni».

    «Non importa. Voglio che tu veda. In piedi. Vestiti».

    La parola del padre era legge. Abbandonato il calore della sua pelle d’orso, il bambino infilò le calze con cui aveva dormito negli stivali, accanto al letto basso. Afferrò il mantello che gli faceva da seconda coperta e lo avvolse sulle spalle. «Pronto».

    «Andiamo».

    Quando le passarono davanti, la madre allungò il braccio. «Sigimero. È sbagliato».

    Il padre si voltò. «Deve vedere».

    «È troppo piccolo».

    «Non discutere, donna! Gli dèi ci guardano».

    La madre piegò la bocca e si fece da parte.

    Il piccolo fece finta di non aver sentito né visto niente. Seguì suo padre scansando gli schiavi che dormivano a terra, il fuoco acceso, i tegami e le casse di legno coi viveri. Le due entrate della tenda stavano agli estremi opposti, l’una davanti all’altra. Il riscontro d’aria calda con l’altro capo della capanna faceva entrare i forti odori e i versi delle mucche, delle pecore e dei maiali che stavano fuori.

    Il padre mise giù il lume e uscì. Si voltò. «Vieni».

    Il bambino si fermò sulla soglia. Il cielo era pieno di stelle ma la notte era ancora buia e minacciosa. La cosa non gli piaceva, ma il padre lo richiamò con un cenno. Così lo raggiunse fuori e fece un respiro profondo all’aria fredda e umida. Le narici gli si gelarono: l’inverno aveva già dato il primo morso all’autunno. «Dove andiamo?»

    «Nella foresta».

    Il piccolo si irrigidì. Di giorno amava stare nella macchia, ci andava con gli amici e giocavano a rincorrersi o a chi stanava prima tracce di cervo. Di notte, invece, non c’era mai stato. La foresta a quell’ora era un regno di ombre, infestato di spiriti, bestie feroci e, per gli dèi, chissà quali altre cose. Tantissime volte si era svegliato per i lupi che ululavano alla luna. Se ne avessero incontrato qualcuno?

    «Presto!». Il padre era lontano sul sentiero che portava fuori dal villaggio.

    A quel punto, rimasto solo, il bambino ebbe ancor più paura di quello che l’avrebbe aspettato e corse dietro al genitore. Voleva chiedergli se potevano tenersi per mano ma conosceva già la risposta. Camminare al suo fianco era meglio di niente. La lunga spada che batteva sulla coscia di Sigimero indicandone l’alto rango era un’immagine rassicurante e ricordò al piccolo che suo padre era un temibile guerriero, pari – se non superiore – a qualunque altro fratello della tribù dei cherusci.

    Così, più o meno rincuorato, chiese: «Cosa dobbiamo fare?».

    Sigimero si voltò a guardarlo. «Assisteremo a un tipo di sacrificio per gli dèi che non hai mai visto prima».

    Alla paura viscerale si unì l’eccitazione. Il bambino voleva saperne di più, ma il tono conciso del padre e il fatto che continuava dritto a passo svelto gli misero un freno alla lingua. Doveva pensare solo a stargli dietro. Affondando gli stivali nel fango, seguirono il sentiero che si snodava in mezzo a una schiera di capanne. Quando ne passarono una, un cane si mise ad abbaiare scatenando un coro di altri guaiti. Malgrado il chiasso, il villaggio non si scompose. Tutti dormivano, pensò il piccolo. In fondo era tardi. Ridacchiò, elettrizzato. Restare alzati per assistere a un banchetto nuziale con gli amici era bello, certo, ma uscire nel cuore della notte – e nella foresta, per giunta – quello che era un sogno. Il fatto, poi, di essere col padre, che lui idolatrava, lo rendeva ancora più bello. Sigimero non era scontroso o cattivo come i padri dei suoi amici, ma non gli dava mai tanto conto. Era un uomo distante. Riservato. Sempre indaffarato con gli altri signori: o a caccia; o lontano, a combattere i romani. Quella era un’occasione da non perdere, si disse il fanciullo.

    Il sentiero li portò nella foresta che si stendeva a sud del loro villaggio. Nelle terre cherusche c’erano boschi ovunque, aveva raccontato Sigimero al figlio, ma attorno ai villaggi principali ne avevano abbattuti molti per destinare il terreno all’agricoltura. A ovest c’era il fiume che forniva l’acqua e tante specie di pesci. A est e a ovest, un mosaico di piccoli campi assicurava il grano, le verdure e l’erba necessaria al bestiame. Le macchie di alberi a sud davano la legna per il fuoco, i cervi e i cinghiali da mangiare, e ospitavano i luoghi sacri in cui i sacerdoti consultavano gli dèi.

    Dovevano essere diretti lì, pensò il giovane in un ritorno di ansia. Fortuna che il padre non lo vedeva tremare. Lui non avrebbe mai osato entrare in un bosco. Una volta, con gli amici, si erano allontanati fino a vedere l’ingresso di una foresta. I teschi cornuti dei buoi inchiodati agli alberi avevano messo alla prova il loro coraggio, così erano tornati indietro al villaggio correndo tutti in silenzio. Quella notte, padre e figlio si sarebbero spinti certamente oltre. Quando entrarono nella foresta sentì il sudore colargli lungo la schiena. Fatti coraggio, si disse. Non puoi farti vedere spaventato, né ora né dopo. Sarebbe stato un disonore per l’intera famiglia, e per suo padre.

    Malgrado i buoni propositi, a un tratto vide una sagoma spuntare da un albero e fece un salto per la paura. L’uomo, avvolto in un mantello e armato di lancia, alzò la mano per salutare. «Sigimero».

    «Tudro».

    Il bambino si rilassò. Tudro era uno dei guerrieri più fidati di suo padre, un uomo che conosceva da sempre.

    «Hai svegliato l’orsacchiotto».

    «Certo». La mano di Sigimero sfiorò la spalla del figlio, contatto graditissimo.

    «Sei pronto, giovanotto?», gli domandò Tudro.

    Pur non sapendo di che parlasse, il piccolo annuì.

    «Bene».

    Sigimero scrutò l’altro sentiero che da ovest si collegava a quello preso da lui per uscire dal suo villaggio. «Aspettiamo qualcun altro?»

    «Ci sono tutti. Guerrieri bructeri, catti, angrivari e tencteri. Anche i marsi hanno mandato i loro signori».

    «Donar sarà contento che siano venuti in tanti», disse Sigimero adocchiando il cielo. «Meglio sbrigarsi. La luna sarà allo zenit fra poco. I sacerdoti dicono che devono morire in quel momento».

    Tudro concordò con un mormorio.

    Devono morire in quel momento. Trattenendo l’ansia nata da quelle parole, il piccolo si concentrò interamente sul passo del padre.

    booooooo!

    Il bambino saltò in aria dalla paura. Si ricompose subito e accanto a lui vide Tudro che rideva. Il padre si rabbuiò e gli fece capire con lo sguardo che non doveva più muoversi.

    booooooo! booooooo!

    Stavolta non si mosse. Lo strano suono doveva provenire da un corno soffiato da un sacerdote, ma sembrava l’annuncio di un demone o un dio in arrivo nel bosco. Passarono in fretta una decina di secondi, poi venti, e ancora non si vedeva nessuno. Il piccolo vagò con lo sguardo per lo spiazzo buio, molto più inquietante di quanto avesse immaginato. Il sentiero che li aveva portati lì era stato abbastanza spaventoso, una torbida serpentina costeggiata su entrambi i lati dall’acquitrino. L’ingresso alla radura, un grossolano arco di legno decorato con teschi di buoi, non era stato da meno. Ma fu il sacro cerchio delle querce, largo cinquanta passi, in cui ora aspettava con suo padre, Tudro e un folto gruppo di guerrieri a torcergli le budella.

    Al centro c’era una coppia di altari, lastroni di pietra enormi che sembravano intagliati dai giganti. Su uno avevano allestito una pira; l’altro era ricoperto di sinistre macchie rosse. Davanti agli altari c’era un grande falò acceso, unica fonte di luce in tutto il bosco. Su uno dei due tavoli accanto al fuoco c’era una serie impressionante di attrezzi affilati e seghettati, sonde, tenaglie e martelli. Il secondo era completamente sgombero. Le cinghie penzolanti sulle quattro gambe ne indicavano l’utilizzo.

    Il bambino si aspettava di vederci legati sopra degli animali. Nei riti a cui aveva assistito al villaggio le offerte agli dèi erano state pecore e mucche. Una volta aveva partecipato – uscendone quasi sordo – al sacrificio di un cinghiale. Riusciva ancora a sentire quei versi.

    booooooo! booooooo! booooooo! Il suono veniva da dietro gli altari.

    «Eccoli», sussurrò il padre.

    Vinto dalla curiosità, il piccolo si mise in punta di piedi allungando il collo per vedere.

    Dagli alberi cominciò a snodarsi una processione. In testa comparvero due sacerdoti agghindati che soffiavano in lunghi corni di animale. A questi seguirono due splendidi cavalli bianchi, tenuti dagli accoliti, che tiravano un carro con sopra un vecchio sacerdote ricurvo. L’anziano teneva la testa bassa e il bambino capì che stava ascoltando i versi dei cavalli sacri. In base ai nitriti si potevano trarre importanti messaggi divini. Dietro il carro c’erano altri quattro sacerdoti che suonavano i corni, ma il piccolo si concentrò sulle tristi sagome che trascinavano i piedi al seguito dei religiosi.

    Otto uomini, legati al collo e ai polsi. Sette indossavano una tunica biancastra lunga fino al ginocchio, con la cinta alla vita. L’ultimo era vestito di rosso ed era l’unico ad avere un elmo con sopra un’impressionante cresta obliqua di piume rosse e bianche.

    «Romani», sussurrò il fanciullo intimorito. Dei nemici della sua gente, una volta aveva già visto i corpi lasciati a terra dopo l’imboscata che suo padre e i guerrieri della tribù avevano teso a una pattuglia. Quelli erano i primi romani che vedeva vivi. Certo, non erano del tutto incolumi. Persino a distanza e nella penombra, sui corpi dei prigionieri si vedevano chiaramente lividi e segni di frustate. I romani erano seguiti da una dozzina di aitanti accoliti, armati di lunghe lance.

    Il bambino cominciò a sentire un po’ di nausea. Qualunque cosa avrebbero fatto a quegli uomini, non sarebbe stata bella.

    Il padre gli afferrò la spalla con la sua presa d’acciaio e si chinò per parlargli all’orecchio. «Vedi quei bastardi?».

    Lui annuì.

    «I romani sono tutto quello che noi rifiutiamo, figlio. Il loro impero si espande più di quanto un uomo possa coprire a piedi in un anno, eppure non sono ancora contenti. Il loro imperatore, Augusto» – suo padre pronunciò quel nome con sprezzo – «sogna da decenni di assoggettarci tutti. Vuole noi e i nostri fratelli catti, marsi e angrivari. Vuole farci sudditi e ridurci per sempre in polvere dai suoi soldati. Non ci riuscirà mai!».

    «Mai, padre», concordò il ragazzo ricordando cos’era successo quando erano arrivati i romani, tempo prima. Un villaggio lì vicino era stato incendiato; erano stati massacrati in molti e, fra questi, anche suo zio e due cugini. «Lo fermeremo».

    «Fermeremo lui e le sue maledette legioni. Lo giurerò, insieme a questi guerrieri. Davanti a Donar». Fece un insolito sorriso al figlio. «Giurerai anche tu».

    Il giovane si stupì. «Io, padre?»

    «Sì, orsacchiotto. Sei qui per questo». Sigimero si portò un dito alle labbra, poi lo puntò in avanti.

    I suonatori di corno andarono ai lati degli altari e si zittirono. Tutti gli occhi videro il sacerdote anziano scendere dal carro e mettersi in posizione davanti al fuoco. I cavalli furono lasciati liberi e i prigionieri vennero spinti dagli accoliti fino ai tavoli.

    «Ti rendiamo grazie, potente Donar, che vegli su di noi». La voce del sacerdote era forte nonostante l’evidente gracilità. «Le tue saette ci proteggono, le nubi della tua tempesta ci danno la pioggia senza la quale i nostri raccolti avvizzirebbero. Quando combattiamo il nemico, la tua forza ci sostiene nella lotta e te ne saremo sempre grati».

    Tutta l’adunata risuonò di uomini che mormorarono il loro assenso sfregando gli amuleti a forma di martello e sussurrando preghiere.

    «Negli ultimi anni, abbiamo avuto bisogno di te ogni estate. Parassiti del genere» – il sacerdote additò con un’unghia lunghissima i prigionieri – «sono arrivati a migliaia, a portare la distruzione nelle nostre terre. Nessuno è al sicuro dalle razzie dei romani e dalla loro sete di sangue. Uomini, donne, bambini e malati vengono uccisi o fatti schiavi. I nostri villaggi sono dati alle fiamme e i raccolti saccheggiati insieme al bestiame».

    I guerrieri fecero commenti rabbiosi. Il padre del bambino serrò le nocche sull’elsa della spada. Lui stesso iniziò a provare una rabbia crescente. Aveva voluto molto bene alla zia e ai figli – suoi cugini. Quei romani dovevano essere puniti.

    «Ci siamo riuniti qui stanotte per renderti sacrificio, potente Donar», salmodiò il sacerdote. «Chiederti aiuto nella lotta agli invasori. Assicurarci che scappino, vinti, sull’altra sponda del fiume che loro chiamano Rhenus. Assicurarci che, una volta lì, non tornino mai più nelle tue terre, e nelle nostre».

    «donar!», urlò Sigimero.

    «do-nar! do-nar! do-nar!», risposero i guerrieri in un ruggito. Il piccolo si unì al coro ma la sua esile voce si perse tra quelle assordanti degli uomini. «do-nar! do-nar! do-nar!».

    «A voi i giuramenti», ordinò il sacerdote quando le grida cessarono.

    Il bambino ebbe un moto d’orgoglio vedendo Sigimero farsi avanti per primo.

    «Io, Sigimero dei cherusci, giuro davanti a Donar di lottare senza tregua finché non cacceremo per sempre i romani dalle nostre terre. Gli dèi mi folgorino se dovessi fermarmi prima».

    Il sacerdote restò a guardare in silenzio i guerrieri che, uno a uno, si impegnarono giurando di combattere finché il nemico non fosse stato sconfitto e respinto oltre il fiume. Alla fine toccò al bambino. Davanti a tanti uomini, il nervosismo gli fece tremare la voce ma per fortuna nessuno rise o sembrò irritato. Il sacerdote lo guardò persino con aria di approvazione e, quando tornò insieme agli altri, il padre gli diede un’energica pacca sulla spalla.

    Il celebrante fece un cenno. Quattro accoliti agguantarono il prigioniero più vicino, un romano basso e col faccione, e lo trascinarono avanti mentre lui scalciava e si dimenava. Senza tanti complimenti, fu sbattuto sul tavolo libero e gli legarono gli arti.

    Allora si creò un rispettoso silenzio in cui si sentivano solo i bisbigli del romano.

    Il bambino non era ancora convinto fino in fondo di quel che sarebbe successo a breve. Quando invece vide le facce intorno a lui diventate serie e crudeli, non poté più negare di esserne certo. Trascinò di nuovo gli occhi sul tavolo e sulla vittima che vi avevano allungato sopra.

    Il sacerdote anziano scelse una sonda curva di ferro e la levò in alto. «Senza occhi, i romani saranno ciechi. Non vedranno i nostri guerrieri imboscati, o i loro accampamenti segreti».

    Gli astanti emisero in coro un feroce Ahhhhh. Non è che ora…? Il bambino tremò.

    Quando l’officiante si avvicinò al tavolo, due accoliti tennero ferma la testa del romano. I gemiti si fecero più alti.

    Una voce cavernosa iniziò a urlare in una lingua che il piccolo non capiva. Era il romano con l’elmo, che si era fatto avanti tendendo al massimo le catene. Parlò al sacerdote, all’assemblea dei guerrieri e agli accoliti.

    «Che dice, padre?», chiese il giovane sussurrando. «Tudro?»

    «Sono soldati», bisbigliò Sigimero. «Uomini d’onore: non meritano di essere trattati come animali. Chiede che vengano uccisi con rispetto».

    «Ha ragione, padre?».

    Gli occhi di Sigimero erano due frammenti di ghiaccio. «Hanno ucciso i tuoi cugini con onore? E tua zia? E tutta la gente inerme del villaggio che hanno ucciso insieme a loro quel giorno?».

    Il bambino non sapeva com’erano morti i suoi parenti. Né aveva afferrato in pieno quello che gli avevano detto i ragazzi più grandi sulle atrocità dei romani, ma era certo che sbudellare una donna incinta fosse una cosa malvagia. Il suo cuore si indurì. «No, padre».

    «Ecco perché moriranno come bestie».

    Non meritano di meglio, pensò il bambino.

    Il romano fu buttato a terra da alcuni accoliti e smise subito di urlare. Gli strinsero un bavaglio attorno alla bocca. Dopo di che, il sacerdote si chinò sull’uomo steso sul tavolo. L’aria fu spezzata da un grido raccapricciante. Il piccolo non credeva che si potesse urlare così forte. Il celebrante posò una cosa piccola, rossa e bagnata di fianco all’uomo e le urla si ridussero un po’. Un attimo dopo le grida tornarono al volume di prima, quando il sacerdote usò la sonda per scavare nell’orbita del secondo occhio.

    Levando in alto i due piccoli globi con la mano insanguinata, il celebrante si parò davanti ai guerrieri. «Senza occhi, il romano non può vederci! Accetta questa offerta, potente Donar!».

    «do-nar! do-nar! do-nar!», urlò il piccolo a squarciagola.

    I bulbi oculari gettati nel fuoco divamparono in scintille.

    «do-nar!», gridarono i guerrieri.

    Posata la sonda, il sacerdote prese un coltello dalla lama lunga. Quando lo infilò in bocca alla vittima e iniziò a rovistare gli si imbrattarono le mani di sangue scuro. L’uomo levò un grido gorgogliante dibattendosi sul tavolo.

    «Senza la lingua, il romano non può mentire!». Dalla mano del sacerdote volò un pezzo di carne tra le fiamme.

    Il bambino chiuse gli occhi. Il prigioniero doveva morire, pensò. Poteva essere stato lui ad aver ammazzato i suoi cugini. Con un colpo di gomito il padre lo costrinse a guardare di nuovo.

    «do-nar!».

    Il sacerdote piantò la lama nel petto del romano. Con atroce perizia lo fece ruotare avanti e indietro. Il ritmo staccato dei talloni dell’uomo sul tavolo aumentò sempre più, finché non rallentò all’improvviso. Prima che il sacerdote licenziasse il pugnale preferendogli una sega, quei piedi avevano smesso di muoversi. In pochi istanti, squarciò il torace dell’uomo e liberò il cuore della vittima dal reticolo di arterie che lo legavano. Brandì il piccolo globo insanguinato e lo mostrò ai guerrieri come un trofeo di guerra. «Senza il cuore, il romano non ha più coraggio! Nessuna forza!».

    «do-nar! do-nar! do-nar!».

    Il bambino benedisse quelle urla. Nonostante l’odio per i romani, quello spettacolo gli dava il voltastomaco. Quando il corpo della vittima fu lanciato nel rogo e bruciato, come fecero poi con il secondo, il terzo e il quarto romano, fu costretto a socchiudere gli occhi.

    Alla fine, Sigimero se ne accorse. «Guarda tutto!», sbottò.

    Lui obbedì controvoglia.

    Il fiato caldo di Sigimero gli entrò nell’orecchio. «Sai com’è morto uno dei tuoi cugini?».

    Il piccolo voleva rispondere ma si sentì una bacchetta al posto della lingua. Scosse il capo.

    «Ha cercato di difendere sua madre, tua zia. Era solo un ragazzo, i romani l’hanno disarmato con facilità. L’hanno tenuto fermo a terra e uno gli ha infilato una lancia su per il culo. Il bastardo però non l’ha spinta in fondo per ucciderlo subito. Ha aspettato che gli altri uccidessero il fratello e violentassero la madre davanti a lui».

    Le guance del piccolo si riempirono di lacrime calde – lacrime di rabbia, di paura – ma il padre non aveva ancora finito.

    «Quel poveraccio di tuo cugino era ancora vivo quando poi, quella sera, abbiamo raggiunto il villaggio. Toccò a suo padre, tuo zio, porre fine alla sua vita». Sigimero sollevò il mento del figlio costringendolo a guardarlo negli occhi. «Ecco che razza di creature sono i romani. Chiaro?»

    «Sì, padre».

    «Vuoi che succeda lo stesso a tua madre o a tuo fratello più piccolo? O a tua nonna?»

    «No!».

    «Allora convinciti che offrire i romani a Donar in questo modo è una cosa giusta. Necessaria. Con l’appoggio del dio del tuono li sconfiggeremo di sicuro».

    «Sì, padre».

    Sigimero lo fissò con aria severa e lui non distolse lo sguardo. Alla fine il padre annuì.

    Da allora non perse più un passaggio della cruenta cerimonia. Il tavolo era scurito dai rivoli di sangue rappreso e l’aria piena di urla assordanti e dell’odore nauseante di carne bruciata. Ogni volta che lo stomaco gli faceva storie, il bambino ripensava al cugino impalato su una lancia davanti alla madre e al fratello che venivano violentati e torturati. Quelle immagini cacciavano qualsiasi scena avesse davanti agli occhi. Gli facevano battere i piedi di rabbia e lo invogliavano ad afferrare il pugnale del celebrante per piantarlo nella carne romana.

    Ricorderò questa notte per sempre, giurò a se stesso. Un giorno, Donar mi è testimone, darò ai romani una lezione che non dimenticheranno mai.

    Io, Ermanno dei cherusci, lo giuro.

    Parte prima

    aquila

    Primavera, 9 d.c.

    La frontiera germanica

    I

    In sella a un magnifico stallone, Arminio osservava l’andirivieni al piccolo galoppo delle sue otto turmae di cavalleria nella gran piazza d’armi, fuori dal campo fortificato di Ara Ubiorum. Era una bella mattina, fresca e frizzante. Ormai erano svanite anche le ultime tracce dell’inverno e il paesaggio fertile attorno all’accampamento era di un verde acceso. Nel cielo saettavano grandi stormi di allodole ma le loro grida sottili erano soffocate dagli zoccoli scalpitanti dei cavalli sul terriccio rincalzato e dalle urla dei vice di Arminio che impartivano gli ordini.

    Anche lui, come i suoi soldati, vestiva a metà fra il romano e il germanico: cotta di maglia ed elmo argentato della cavalleria abbinati a un mantello di lana tribale, tunica, calzoni colorati e stivaletti alla caviglia. Una spatha micidiale, una lunga sciabola, gli pendeva da una bandoliera ornata d’oro sulla spalla. Era nel pieno vigore degli anni, ben piantato e affascinante, intensi occhi grigi, capelli neri e una barba folta dello stesso colore.

    I suoi cinquecento guerrieri cherusci formavano l’ala, l’unità di cavalleria, assegnata alla Diciassettesima Legione. Facevano da esploratori e proteggevano il fianco dei legionari in marcia, ma intervenivano anche in battaglia. Ciò imponeva un costante allenamento e Arminio era lì ad assicurarsi che i suoi uomini lo facessero. Aveva assistito infinite volte a quelle esercitazioni e conosceva a fondo ogni mossa. I suoi cavalieri esperti facevano pochi errori, così si ritrovò presto con la mente altrove. Il giorno prima, il capotribù di un villaggio sull’altra riva del Rhenus non gli aveva dato tregua. Aveva fatto la voce grossa lamentandosi della nuova tassa imperiale. Non era la prima volta che Arminio riscontrava tanto rancore. Lì, in Gallia, gli unici a essere contenti erano i germani arruolati nelle ben pagate milizie ausiliarie delle legioni. Dall’altra parte del fiume, dove c’erano le altre tribù, era tutta un’altra storia.

    Il governatore Varo e i suoi pari erano sordi al malcontento, pensava Arminio. Per loro, la romanizzazione della Germania procedeva secondo i piani. C’erano moltissimi accampamenti militari permanenti e temporanei sparpagliati ovunque su un immenso territorio, lungo quasi cinquecento chilometri e largo la metà. Almeno metà delle tribù della regione erano alleate dell’impero o avevano siglato dei trattati. Tolta qualche scaramuccia, da parecchi anni ormai regnava la pace. I lavori portati avanti ogni estate dalle legioni avevano fatto crescere il numero di strade lastricate. Un insediamento in particolare – Pons Laugona – aveva tutte le carte in regola per diventare la prima città romana a est del Rhenus, con un foro, dei palazzi municipali e una rete fognaria. E c’erano altre comunità ansiose di seguirne l’esempio. Nei villaggi era sempre più normale la presenza di un mercato stanziale. La legge imperiale stava permeando la società tribale: ormai i magistrati di Ara Ubiorum e degli altri campi a ovest del Rhenus viaggiavano regolarmente sul fiume per dirimere le dispute sulle proprietà terriere e altre questioni legali.

    Le trasformazioni sociali avevano esasperato alcuni capitribù ma un buon numero ne era abbastanza felice, pensò Arminio, soprattutto perché la qualità della vita era migliorata. I legionari avevano bisogno di enormi quantità di cibo, bevande e vestiti. I contadini che vivevano accanto ai loro campi gli vendevano il bestiame, il grano e le verdure, la lana e il cuoio. Le loro donne potevano vendere in giro i vestiti e, se volevano, anche i loro capelli. I prigionieri fatti negli scontri con le altre tribù si vendevano come schiavi, mentre gli animali selvatici catturati – e impiegati negli anfiteatri dei campi militari – fruttavano grosse somme. I giovani potevano unirsi all’esercito romano sottraendosi alle vite banali nelle fattorie. Accanto alle basi militari, i più intraprendenti aprivano taverne e ristoranti o vi trovavano impiego.

    Certo, appartenere all’impero dava molti vantaggi, ammise Arminio, ma si pagavano a caro prezzo. Prima di tutto, avere un sovrano assoluto, un cosiddetto imperatore: Augusto. Uomo a cui tutti dovevano fare atto di sottomissione; uomo che si doveva venerare quasi come un dio. Anche le tribù germaniche avevano dei capi, ma non venivano trattati come Augusto. Erano stimati, pensò Arminio. Temuti, probabilmente. Riveriti, forse. Amati, chissà. Ma superiori a tutti? Mai. Un capotribù che agiva come se valesse più degli altri non sarebbe durato molto. I guerrieri lo seguivano per stima, e se per qualche motivo la loro alta opinione di lui cambiava, si allontanavano o iniziavano ad appoggiare un altro capotribù. In qualità di capo dei cherusci, Arminio era ben consapevole di poter vantare un simile e vitale appoggio, specie perché passava la maggior parte del tempo lontano dalla sua patria, insieme alle legioni.

    Il secondo prezzo dell’appartenenza all’impero – Arminio storse le labbra perché era proprio questo, un prezzo – erano i suoi maledetti tributi. Quell’estate, la riscossione delle tasse si sarebbe estesa per la prima volta oltre il Rhenus. Gli ufficiali dell’impero avrebbero raccolto il denaro e le merci che molti avrebbero usato al posto della moneta, mentre la presenza delle legioni nei paraggi avrebbe assicurato il pagamento da parte di tutti. Il capotribù che aveva attaccato bottone con Arminio – ritenendo di potersi fidare perché anche lui era un germano – aveva dato in escandescenze. «Il tributo è uno scandalo! Io posso permettermi di pagare, ma quasi tutta la mia gente avrà difficoltà a coprire con le merci la somma richiesta. E poi, perché dovremmo pagare?».

    Arminio aveva mormorato varie insulsaggini sulla protezione offerta dall’impero e sui benefici per tutti, senza crederci veramente. E poteva anche darsi che il capotribù se ne fosse accorto. La questione controversa del tributo non riguardava solo le tribù che vivevano entro il confine dei circa cinquanta chilometri a est del Rhenus, ma tutte quelle che ormai vivevano sotto l’influenza di Roma. Le tribù delle terre più lontane mandavano già i loro figli a combattere con le legioni e si erano adattate agli altri aspetti della società romana. Accettare questi aspetti era una cosa, pensò Arminio, ma sull’imposizione del tributo la questione era completamente diversa. A quel punto gli risalì dal ventre l’antico rancore, il risentimento per Roma, la sua motivazione più profonda.

    Quando sentì degli zoccoli battere il terreno accanto a lui, Arminio tornò a concentrarsi sui suoi uomini. I cavallerizzi gli arrivarono da dietro ripetendo i soliti schemi. Schierati in file strette, cavalcarono puntando dritti una palizzata dell’impianto di allenamento. Quella era la lancia, la forma a punta studiata per bucare e aprire una linea nemica. Lo schema successivo, più o meno una V rovesciata, serviva allo stesso scopo ma si usava contro nemici impreparati che non avevano avuto il tempo di serrare le file. Il terzo schema era il più semplice: consisteva in una lunga linea di cavallerizzi alla carica, stretti l’uno all’altro, quasi caviglia contro caviglia.

    Mentre avanzavano, il trombettiere al centro soffiò con tutto il fiato che aveva in corpo. booooooo! booooooo! booooooo! Era l’attacco più usato su una fanteria nemica, funzionava quasi sempre. Forse per coraggio, voglia di impressionarlo o semplice scarso controllo dell’ufficiale in comando – chissà, pensò Arminio – i suoi uomini tuonarono fino a cento passi da una coorte di legionari in allenamento. I soldati romani sapevano che la cavalleria non era ostile, ma questo non li trattenne dal piegare in ritirata davanti ai cavalieri. I centurioni urlarono inferociti – sia ai cavalieri che ai loro soldati – e gli uomini ripresero subito gli esercizi dove li avevano interrotti, ma l’efficacia dello schema, e l’irritazione che aveva prodotto negli ufficiali legionari, erano innegabili.

    Funzionava perché metteva una gran paura, pensò Arminio con gran soddisfazione. Molti suoi cavalieri indossavano elmi d’argento, meno decorati del suo ma di foggia simile. Ognuno aveva il frontale borchiato che riprendeva la forma del viso di chi lo indossava. Come il resto dell’elmo, la faccia era rivestita di un sottile strato di lamina d’argento. Quando si abbassava, il campo visivo del guerriero si riduceva molto, motivo per cui potevano indossarli solo i cavalieri più abili. L’effetto della maschera però – trasformando chi la indossava in una creatura dall’aspetto sovrannaturale che poteva anche venire dall’aldilà – ripagava ogni sacrificio. Una carica pesante, anche se fatta con pochi di quei cavalieri, accompagnata dallo squillo incessante delle trombe, trafiggeva di terrore i cuori dei nemici più coraggiosi.

    Arminio aveva fatto tante campagne da aver già usato tutte le tattiche appena viste in esercitazione. Conosceva l’efficacia di ognuna e sapeva quale scegliere e in quale momento. Eppure la cavalleria era solo una parte dell’impressionante apparato bellico romano, il cui pezzo forte restavano quelle dannate linee di legionari corazzati. I suoi occhi grigi ripresero a vagare per l’unità minacciata dai suoi uomini.

    Gli sembrava ancora strano considerare alleati i romani. Lo era stato fin dal suo primo giorno di arruolamento nell’esercito imperiale, otto anni prima. Le campagne e le battaglie a cui aveva partecipato – dalla parte di Roma – gli avevano instillato un gran rispetto per quei soldati e quegli ufficiali. Il loro valore, la disciplina e l’abilità di non piegarsi davanti al nemico erano eccezionali. Più di una volta, lui e i suoi uomini erano stati salvati dall’intervento di quella o di un’altra unità. Aveva retto lunghe marce insieme alle legioni, si era ubriacato con i loro ufficiali e c’era persino andato a donne insieme. La sua fedeltà all’impero gli era valsa prima la cittadinanza e poi l’alto titolo di cavaliere, il grado più basso della nobiltà romana.

    Malgrado tante esperienze e onori, Arminio sentiva per i romani meno affinità di quanto si potesse pensare. Nel complesso, infatti, continuava a considerarsi, con orgoglio, un germano. L’atteggiamento superiore dei romani poi non aiutava. Malgrado la promozione di status, restava poco più di un selvaggio che indossava la pelliccia. Lui e i suoi uomini erano piuttosto bravi a combattere – e morire – per Roma, ma non tanto da essere stimati come pari. Era stata una cosa dura da digerire negli anni passati a servire l’impero un po’ ovunque, ma la vicinanza degli ultimi mesi alla sua terra d’origine aveva accentuato il suo risentimento. A circa tre chilometri da lì, sulla riva orientale del Rhenus, iniziavano le terre delle tribù. I suoi fratelli, i cherusci, vivevano lontano, eppure Arminio aveva molto più in comune con la tribù più vicina – gli usipeti – che con i romani. Avevano gli stessi valori, parlavano la stessa lingua e adoravano gli stessi dèi.

    Arminio ricordò la notte di tantissimo tempo prima nel bosco sacro e un rivolo di sudore gli corse giù per la schiena. Quando le legioni passavano il fiume per castigare le tribù insorte contro il dominio dell’impero, quelli che andavano a massacrare non erano daci, illiri o traci. Erano germani. Come lui. Come i suoi guerrieri. Come sua zia e i cugini morti da tempo. Perché dovevano assoggettarsi ad Augusto che viveva a Roma, a molte centinaia di chilometri da lì?, si interrogò Arminio. Perché dovrei farlo io stesso?

    Erano passati ventun anni da quella volta nella macchia con suo padre, ma le parole del suo giuramento gli risuonavano ancora come la prima volta in cui le aveva pronunciate. Un giorno, Donar mi sia testimone, darò ai romani una lezione che non dimenticheranno mai. Io, Ermanno dei cherusci, lo giuro.

    Alzò gli occhi alla volta celeste, imbianchita da una lanuggine di nuvole. Il sole scaldava, ma non troppo. Eppure le allodole canticchiavano in cielo, segno che la primavera stava passando. Presto sarebbe arrivata l’estate e Publio Quintilio Varo, il governatore della Germania, avrebbe spostato l’esercito a est. Oltre il Rhenus, dove le truppe avrebbero riscosso i tributi fino al fiume Visurgis. Solo i romani potevano inventarsi una cosa tanto stronza come le tasse, pensò Arminio. L’argento sudato delle tribù sarebbe servito a laminare le ennesime statue dell’imperatore e costruire strade per spostare i suoi eserciti. Potente Donar, pregò, ho atteso lunghi anni per soddisfare il mio giuramento. Per vendicare i fratelli della mia tribù uccisi da Roma. Fai che questo sia l’anno giusto.

    L’estate giusta.

    «Benvenuto!», lo chiamò a gran voce un centurione maggiore. Facendo bella mostra dell’armatura a piastre e dell’elmo con la cresta obliqua di piume rosse attraversava a grandi falcate la piazza d’armi in direzione di Arminio.

    Probabilmente era l’ufficiale in comando della coorte entrata in allarme, pensò divertito Arminio. Non sembrava contento.

    «Centurione». Arminio chinò il capo, ma non troppo. In quanto cavaliere, era lui il più alto in grado e il centurione lo sapeva. Dall’atteggiamento, Arminio capì che quella differenza non gli stava bene per niente. Ai suoi occhi, garantito, Arminio era un barbaro arrivista. L’enorme sforzo che aveva fatto per conquistare l’appoggio di tutti gli ufficiali maggiori aveva funzionato con molti, ma non in quel caso. Gli sovvenne il ricordo amaro del padre che l’aveva mandato a Roma a dieci anni. Aveva fatto parte del piano di Sigimero, sia quella mossa che il successivo arruolamento di Arminio nelle legioni. Il figlio doveva assorbire lo stile di vita romano, imparare tutto quello che c’era da sapere, senza dimenticare mai le sue radici tribali e i suoi reali vincoli di fedeltà.

    I giovani rampolli romani con cui aveva legato, comunque, l’avevano sempre considerato poco più che uno schiavo. Dopo molti scontri sanguinari, non tutti vinti da lui, avevano imparato a rispettare almeno i suoi pugni e i suoi calci, e a cucirsi la bocca quando era nei paraggi. Malgrado la paura, pochi gli avevano teso la mano dell’amicizia. Arminio aveva imparato a essere autosufficiente e non fidarsi di nessuno.

    Notò che il centurione gli fissava il mento. E ne indovinò di nuovo il pensiero prima ancora che gli trapelasse dagli occhi. Ti senti superiore. Vero, bastardo? Decise di lisciarsi la barba allora, gesto che per i romani era segno di inciviltà, ma per lui un simbolo della sua cultura. «Che posso fare per te?»

    «Gradirei che riuscissi a controllare meglio i tuoi uomini».

    «Di che parli?», mentì Arminio con gusto.

    «I tuoi uomini hanno caricato un attimo fa. Hanno quasi investito i miei soldati! Hanno seminato un gran…». Il centurione cercò una parola che non implicasse paura. «…casino».

    «Non si sono avvicinati tanto».

    «Quanto è bastato a spaventare…». Il centurione ci pensò di nuovo. «…le nuove reclute».

    Arminio alzò un sopracciglio. «Spaventare? Da quando i legionari della Diciassettesima si spaventano?»

    «È una reazione normale per uomini che non hanno mai visto prima una carica a cavallo», rispose irritato il centurione.

    «Chiamami signore, quando apri la bocca», ribatté Arminio scaldandosi a sua volta.

    Il centurione la spalancò, inghiottì, e mormorò: «Signore».

    «Non ho dato subito peso al tuo eccesso di confidenza perché non sopporto l’etichetta, centurione. Ma se uno mi manca di rispetto, io gli ricordo che a comandare l’ala assegnata alla Diciassettesima sono io. Non sono un semplice cittadino romano, come te. Sono un cavaliere. L’hai dimenticato?». Arminio guardò il centurione dritto negli occhi.

    «No, signore. Le mie scuse, signore», rispose il centurione arrossendo.

    Arminio aspettò qualche istante, sottolineando ulteriormente il suo grado superiore. «Stavi dicendo…?»

    «Non tutti i miei uomini sono avvezzi alla cavalleria, signore. Ancora», aggiunse in fretta il centurione. «Se i tuoi cavalieri potessero astenersi dall’avvicinarli troppo, te ne sarei molto grato».

    «Non ti prometto niente, centurione. Perché invece non te ne vai da un’altra parte e mostri ai tuoi uomini la cavalleria più di quanto hai fatto finora? Altrimenti, quando l’affronteranno in battaglia verranno spazzati via», disse Arminio con un sorriso gelido. «Puoi andare».

    «Signore». Il centurione riuscì in qualche modo a mettere nel saluto tutta la sua avversione. Fu una mossa astuta che tolse ad Arminio gran parte del piacere. Per ripicca, fece ripetere ai suoi cavalieri la manovra che aveva spaventato le nuove reclute della coorte. Dopo la terza carica, il centurione accettò la sconfitta e portò i suoi soldati in un’altra zona della piazza d’armi. Arminio li vide andare via soddisfatto. Quella mossa non gli avrebbe fatto guadagnare nessun amico fra i centurioni. Se il coglione si fosse lamentato con il legato, Arminio avrebbe avuto una tirata d’orecchie. Ma non gli importava. Ne era valsa comunque la pena, e il centurione non l’avrebbe più osteggiato.

    Qualche ora dopo, Arminio era nel suo alloggio a rimuginare sulla mossa migliore da fare. Misurò più volte avanti e indietro il suo ufficio scarno. Dieci passi da muro a muro e ritorno. Un’occhiataccia al busto di Augusto, messo lì per far sembrare che amasse l’imperatore più di se stesso. Ogni tanto spostava lo sguardo sulla carta geografica aperta, srotolata sul tavolo e tenuta aperta con dei lumi di argilla ai quattro angoli. Un grosso nastro segnava il Rhenus che correva da nord a sud; quelli più piccoli e sinuosi indicavano gli altri corsi d’acqua che attraversavano la Germania. Alcuni quadrati tracciati con l’inchiostro designavano le posizioni degli accampamenti e dei fortini romani in tutto il territorio. A est del Rhenus ce n’erano meno che a ovest naturalmente, ma le cose stavano cambiando, pensò con rabbia Arminio. Col passare degli anni, l’influenza di Roma si espandeva e le occasioni di ribellione diminuivano sempre più. Doveva succedere quell’estate, o mai più, si disse.

    Era ora di contattare i capi delle altre tribù e sondare la loro fedeltà. Nei giorni seguenti avrebbe avuto un’ottima occasione per farlo. Varo, il governatore della Germania, l’aveva convocato a Vetera, quasi cento chilometri più a nord. Invece di prendere le strade imperiali e più veloci a ovest del Rhenus, avrebbe viaggiato come tutte le altre milizie ausiliarie seguendo il percorso sull’altra riva del fiume. Una deviazione per andare a trovare la sua famiglia sulla strada per Vetera, come facevano i soldati semplici, gli avrebbe fatto perdere troppo tempo. Le terre dei cherusci erano troppo lontane a est. Invece, avrebbe incontrato i capitribù che sperava di convincere a sposare la sua causa.

    Era un piano rischioso. Qualunque farabutto col bisogno di mostrare la sua fedeltà a Roma poteva sempre fare la spia. Se Varo o qualunque altro ufficiale anziano avesse creduto a una storia del genere, lui ci avrebbe rimesso la pelle. Al diavolo i rischi, pensò Arminio senza esitare, figurandosi la zia e i cugini massacrati dai romani nei modi più crudeli. Le loro ombre l’avrebbero tormentato nell’aldilà se non li avesse vendicati. Purtroppo suo fratello Flavo non la pensava così, ma su questo non c’era niente da fare. Flavo, molto più giovane di Arminio, era sempre stato una testa calda. Non erano mai andati d’accordo, nemmeno da ragazzi, e forse non c’era da stupirsi che fosse fedele a Roma con tutta l’anima. Qualche anno prima, Arminio gli aveva confessato il suo odio per il dominio dell’impero sulla Germania. La reazione violenta di Flavo gli aveva fatto capire che non gliene avrebbe dovuto parlare mai più: non l’avrebbe fatto neanche adesso.

    Tump. Tump. Tump. Dei pesanti colpi alla porta lo ridestarono. «Chi è?»

    «Osbert».

    Pur non essendo un nome cherusco, l’uomo che c’era fuori non poteva essere romano. Non aveva detto signore. Se uno dei suoi uomini l’avesse chiamato così, Arminio sarebbe caduto a terra dallo stupore. Era un’altra usanza del suo popolo che molti ufficiali romani tendevano a disprezzare. Non riuscivano a vederla per quello che era, pensò Arminio: che i capitribù non trattavano i loro uomini da inferiori. «Entra».

    Entrò un guerriero con una barba all’altezza della sua. Basso, petto a botte, incline al vino e alla battaglia, Osbert era uno dei suoi uomini migliori. «Arminio». Andò alla mappa senza altri convenevoli, grugnì e trascinò un grosso dito sulla strada che portava a est. «Pensavi al viaggio?»

    «Sì».

    «Normale routine, a Donar piacendo».

    «Già». Sempre che, pensò Arminio, non riesca a frenare il suo desiderio di confidare il piano anche a Osbert. «Cosa ti porta qui?»

    «Il sacerdote Sigismondo sta celebrando un sacrificio in onore di Augusto. Visto che dopo il rito accetterà anche altre offerte, alcuni di noi stanno prendendo degli arieti. So

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