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Genesi di Atheris - Mappa per l'Abisso
Genesi di Atheris - Mappa per l'Abisso
Genesi di Atheris - Mappa per l'Abisso
E-book546 pagine7 ore

Genesi di Atheris - Mappa per l'Abisso

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Info su questo ebook

C’è un tempo in cui le leggende si avvicinano alla realtà e la reclamano, fino a quando il confine tra superstizione e verità si perde. Quel tempo è giunto. Sul finire dei cento anni di esilio, le ombre si stanno addensando, le tracce di antichi orrori vengono a galla e il mondo freme in tumulto, pronto a spezzarsi per divorare eroi e peccatori senza alcuna distinzione. In uno scenario che scivola inesorabilmente verso il baratro, dove il seme della guerra tra quattro regni minaccia di germogliare e imponenti tempeste scuotono i mari, fieri uomini di spada e plasmatori dell’Arte Arcana, mercenari senza scrupoli e pirati senza gloria, saranno trascinati in un intreccio di ambizioni che li renderà inconsapevoli artefici della salvezza... o della caduta di tutto ciò che conoscono.

Laddove interi popoli crollano e vengono forzati all’esilio, nel tenebroso labirinto delle Regioni Sotterranee o solcando le terre dei barbari, feroci battaglie si susseguono e, sotto lo sguardo silente degli Dèi, nessuno è risparmiato, nessuno vede la trappola tesa. Ognuno gettato su ruvidi sentieri, sospinto lungo una mappa di sangue ove le frontiere tra Bene e Male sono vaghe e ingannevoli, sarà pedina perfetta nelle mani di un dimenticato incubo che sta forzando i cancelli proibiti dietro cui è segregato. Sono solo leggende?
LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2019
ISBN9788827860168
Genesi di Atheris - Mappa per l'Abisso

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    Anteprima del libro

    Genesi di Atheris - Mappa per l'Abisso - Rita Arcidiacono

    Prologo

    Il ventre della terra ringhiò affamato e un brivido si propagò, attraversando le venature delle rocce fino a percuotere la schiena di G’yrsei.

    La caduta era stata interminabile.

    Improvvisamente, la lingua di roccia su cui si era spinto durante la battaglia era venuta meno e l’aria scura lo aveva afferrato, scorrendogli sul torace, sulle braccia, fra i capelli, fino a riempirgli gli occhi e le orecchie di un rombo assordante. Ferito e sorpreso, aveva steso le dita nel vuoto in cerca di appigli, senza trovarli, fino a quando il suo corpo non aveva raggiunto il lastrone di pietra ruvida che lo aveva preceduto, franando sul fondo della vallata sotterranea. Avrebbe voluto urlare, ma il fiato aveva abbandonato i polmoni in un unico istante e tutto quello che uscì dalla bocca fu un fiotto di sangue frammisto a muta disperazione.

    Era ancora vivo. Quindi l’agonia sarebbe stata più lunga di quanto avrebbe sperato di dover sopportare. Dov’era il suo carnefice?

    G’yrsei aprì gli occhi, richiamato dal fremito della roccia che gli mordeva le spalle e dietro un velo di lacrime involontarie, lasciò vagare lo sguardo appannato sullo scenario che lo circondava, incapace di muovere un solo muscolo. Intorno a lui, la dimora che conosceva aveva cambiato faccia in modo raccapricciante.

    Le nere volte di pietra che formavano il dedalo delle terre del sottosuolo, un tempo decorate solo dalle ricche vene d’argento e dalle pallide formazioni calcaree, ora sbiadivano nell’aria satura di polvere e terriccio. Torrenti di fine pietrisco scivolavano senza sosta lungo le pareti del vasto antro irregolare in cui ora si trovava, fino a perdersi lontano, dove fuochi rossi e ocra profanavano quello che, da innumerevoli secoli, era stato un luogo consacrato al velluto nero delle tenebre.

    Ai confini della città fortificata, sulle pareti rocciose dei territori della prima frontiera, innumerevoli cicatrici si stavano aprendo, correndo disordinate fino alla volta offuscata dal fumo e sfigurando il familiare panorama per trasformarlo nella parodia della sua antica gloria. Il tempo delle aggraziate sfumature dell’indaco, dei delicati disegni purpurei che ricamavano le terre e le costruzioni della sua gente, degli imponenti colonnati, scolpiti con impareggiabile grazia laddove stalagmiti e stalattiti si baciavano, stava finendo.

    Peccato dover assistere alla sua decadenza.

    Pragmatico e dolorosamente lucido, G’yrsei si rese conto con amarezza della propria impotenza davanti a quello spettacolo, specchio sporco e dissacrato della sua stessa caduta, fisica e simbolica.

    Principe prima e regnante poi, aveva consegnato il suo popolo a livelli di gloria e potenza che non avrebbe mai immaginato di raggiungere in così pochi anni. Nelle profondità di un labirinto che si apriva ben al di sotto delle più ardite miniere, scavate dai popoli delle terre emerse, la sua gente aveva scolpito una città oscura e seducente, degna del nome dei drow, i temuti elfi scuri del sottosuolo.

    Consapevole dello scarso potere numerico della sua etnia, aveva evitato con saggezza di alimentare l’odio che fioriva nelle leggende di chi viveva nel mondo esterno, concentrando i propri sforzi nella già difficile lotta per la sopravvivenza con le altre razze sanguinarie che si spartivano il regno sotterraneo.

    Portando il dorso della mano al labbro per asciugare il sangue che gli solleticava il mento, G’yrsei si concesse un sorriso amaro e un momento di tregua. Meglio viziarsi con i ricordi delle proprie glorie e conquiste, che marcire nella consapevolezza della propria fine imminente. Chiuse gli occhi e adagiò piano la testa fra le braccia della rocciosa madre che un tempo lo aveva accolto e salvato dal rovente sguardo di Sraedian, demone infuocato il cui dominio era assoluto nei cieli che sovrastavano le terre di superficie. Nella sua mente le regioni dalla volta altissima erano per lo più fatte di luce accecante e acqua salata, la stessa che aveva deglutito in grande quantità durante il naufragio che lo aveva condotto sulle rive della nuova patria, il punto di partenza di una seconda vita.

    A quel tempo aveva creduto di essere rimasto l’ultimo della sua specie e la convinzione che il veleno iniettato dal morso di Sraedian non fosse curabile, lo aveva indotto a persuadersi che non sarebbe sopravvissuto a lungo. Non gli dispiacque essere smentito. Presto altri, naufraghi come lui, o condotti in quelle terre da forze di cui non aveva osato domandarsi l’origine, lo avevano raggiunto e riconosciuto come loro Signore.

    La Dea mi bacia, aveva pensato presuntuoso, e aveva fatto ergere un tempio in suo onore: la prima, vera, significativa opera del suo popolo. In dieci anni aveva racimolato un piccolo ma temuto esercito di guerrieri e sacerdotesse e grazie a una sostanziosa dose di diplomazia, suo talento innato, era giunto persino ad annoverare tra le proprie fila un fruitore dell’Arcano.

    La soddisfazione elargita dalla vista del nuovo regno che cresceva e si fortificava lo aveva saziato a tal punto che ogni mira espansionistica era impallidita; sarebbe bastata la crudele nomea dei drow a tenere lontano ogni antagonista dai confini delle regioni che avevano reclamato, concedendo loro il tempo necessario per germogliare. G’yrsei si sentiva a suo agio, nato per questo ruolo: era severo, temuto e rispettato e non era mai stato avaro quando si era trattato di dispensare feroci punizioni a chi lo aveva disatteso.

    Ma la stessa reputazione che costringeva i sottoposti a tenere basso lo sguardo al suo cospetto era in fondo un’arma a doppio taglio, eredità intrinseca per la sua stirpe, e prima o poi sarebbe giunto chi avrebbe riconosciuto la breccia nella corazza. Le temute rappresaglie della sua gente nei confronti delle razze considerate inferiori non giungevano, nonostante la presenza degli elfi scuri fosse stata scorta e narrata con reverenziale timore, e con il passare del tempo, la sua dedizione alla costruzione della città sotterranea divenne un segno di debolezza, anche se pochi occhi sarebbero stati in grado di scorgerlo.

    Forse, solo uno sguardo guidato da mano immortale.

    La Dea si prende gioco di me, pensò con rabbia e in quel momento un brivido freddo lo attraversò alla base del collo.

    Aprì gli occhi di scatto e la vide. Delineata dai fuochi ocra e scarlatti che si avvolgevano fra le spire di polvere ancora sospese nell’aria, una figura nera come il peccato lo sovrastava. L’ampio manto sulle spalle raccoglieva le correnti calde che si contorcevano nella spelonca e fluttuava morbido, sibilando senza pudore un canto empio e crudo.

    Ipnotizzato dai lunghi capelli nivei che la coronavano e che danzavano con pari grazia, G’yrsei perse qualche attimo, prima di assaporare in pieno il morso gelido dell’ansia che gli spezzò il respiro e gli strinse la bocca dello stomaco. Il bizzarro gioco tra luci incandescenti e fitte ombre gli negava il suo volto, i lineamenti cesellati, gli alti zigomi e le labbra che spesso aveva visto imbronciate e scontente. Ma riconobbe bene lo sguardo: occhi incendiati dallo stesso fuoco che stava consumando i lontani edifici, volitivi e prepotenti, eppure carichi di un mistero che persino lui, sovrano drow nella città di Amyn’xyr, non era riuscito a violare. Sotto quello sguardo sentì la propria vulnerabilità messa a nudo, una sensazione nuova, eppure affascinante in tutta la sua brutalità.

    I graffi e gli spasmi di dolore che avevano tormentato il breve viaggio quasi onirico nel passato tacquero riverenti, e persino la pietra che aveva accolto la rovinosa caduta sembrò svanire nel nulla, lasciandogli un senso di vuoto, subito colmato da generose ondate di adrenalina.

    La figura avanzò con straziante indolenza e una piega del mantello schioccò nell’aria, rivelando la sacra lama brunita che stringeva nel pugno. Raccogliendo tutta la dignità di cui era in grado, e cercando di ignorare il doloroso battito del cuore nel petto, G’yrsei deglutì, incapace di sussurrare una sola parola, ma sollevò il mento e indurì lo sguardo. Se solo il tempo avesse smesso di scorrere con quella insopportabile lentezza, lui non avrebbe dovuto conoscere così bene ogni istante che lo separava dalla fine della sua agonia, una meta quasi ambita nello stato in cui versava, ma che non gli sarebbe stata concessa con tanta pietà.

    Richiamato dal bagliore della lama, vi posò sopra per un solo istante lo sguardo avido, quasi a chiedere che gli fossero risparmiati i minuti successivi, ma subito dopo si costrinse a ricomporlo e affondarlo nuovamente negli occhi della creatura che lo fronteggiava. Adesso era abbastanza vicina da poterne sentire il vibrante profumo d’incenso, intrecciato al vile sentore di sangue che macchiava i suoi abiti.

    «Mi hai tradito», si sentì sussurrare e il rauco suono della propria voce lo sorprese. In tutta risposta, lunghe dita sottili, affilate come artigli, si allungarono verso il suo volto. Con il dorso gli carezzarono voluttuose la guancia levigata, seguendo i lineamenti duri e spigolosi, soffermandosi più a lungo a ridisegnargli la severa linea delle labbra.

    Centotrentaquattro anni erano troppo pochi fra la sua longeva stirpe, per controllare il fremito che lo attraversò e G’yrsei si maledisse silenziosamente per aver sobbalzato a quel tocco.

    «È vero», gli mormorò lei, e dall’intonazione morbida della voce il giovane sovrano poté giurare a sé stesso che c’era del puro compiacimento in quella semplice ammissione, quasi l’orgoglio per il compimento di un’opera d’arte. Come biasimarla…

    Chiuse gli occhi e sospirò a fondo. La mano che si era dilungata sulle labbra si spostò per posarsi con fermezza sulla spalla e premerla contro la roccia che si stava dissetando avida del suo sangue. Nella mente l’immagine del mondo che rovinava intorno a lui sbiadì e al suo posto vide l’altare sacro, limato in preziosa ossidiana, le candele votive, accese e tremanti. Vide la nebbia degli incensi spandersi tra le volte arcuate del tempio e la respirò per drogarsi e confondere i propri sensi troppo vivi e presenti.

    Quando sentì il tocco della lama posarsi sul petto, finalmente sorrise. Non sarebbe morto per mano dei nemici della sua gente, gli stessi che stavano sporcando le sue terre, annientando tutto quello che aveva costruito, dissacrando il tempio cui nemmeno a lui era concesso di varcare la soglia. Questo era il modo migliore per morire e non avrebbe potuto aspirare a nulla di meglio.

    La sua assassina lo capì.

    Avvicinò le labbra all’orecchio e vi lasciò un sussurro lieve, quasi complice.

    «Da qui continuo io…».

    Subito dopo affondò la lama.

    Capitolo I - La Caduta

    Così doveva finire in fondo.

    Un granello di sabbia nella clessidra del mondo.

    Il Tempo annuì e lo invitò.

    "Piega le ginocchia ora.

    E cadi."

    * * *

    Le nubi si erano addensate sopra la vallata e il vento scaricava su uomini e cavalli una cacofonia di odori fatta di pioggia, cuoio, salsedine e sangue. Il giorno si era rabbuiato in fretta e prometteva tempesta imminente, una cornice adeguata al termine di una giornata di estenuanti combattimenti.

    Adriel non aveva nemmeno provato a innalzare la propria tenda, troppo stanco e sporco per disdegnare che un po’ di acqua si abbattesse su di lui. E poi bastava guardarsi intorno.

    Poco distante, alcuni scudieri stavano lottando con teli e stendardi per accontentare i loro signori e preparare un riparo degno di eroi vittoriosi, ma a giudicare dai progressi fatti era evidente che quella battaglia la stavano perdendo. Le raffiche di vento irregolari strappavano dalle mani i drappi prima che potessero essere fissati, facendoli schioccare nell’aria in modo selvaggio e frustrando ogni tentativo con una determinazione che aveva del beffardo. Adriel avrebbe sorriso, forse li avrebbe anche aiutati a governare i cavalli che si agitavano, inquieti come vergini il giorno delle nozze, invece distolse lo sguardo e lo riversò sulle proprie mani. Erano livide e scorticate, ma soprattutto erano sporche di sangue. Chiuse gli occhi e strinse meglio i brandelli del mantello intorno a sé, calcando il cappuccio sulla fronte per nascondere la smorfia disgustata che gli aveva increspato le labbra. Anche così però, al di là delle bestemmie di servi e scudieri intenti nei compiti più ingrati, i canti stonati e volgari dei combattenti che festeggiavano la vittoria lo raggiunsero.

    «Sta per piovere Adrì! Vero che te ne sei accorto?», la voce che lo scosse vibrò nel solito tono scanzonato e quasi petulante, ma per lui ebbe un sapore di piacevole familiarità. Riaprì gli occhi per piantarli sulla borraccia che l’amico gli stava sventolando davanti al naso e improvvisamente ricordò di avere sete.

    «Vero, ma un po’ d’acqua non ha mai ucciso nessuno», si interruppe per ingollare un lungo sorso e si pulì le labbra con il polso prima di continuare con voce più chiara, «dovresti farci pace anche tu Valanjr, anche solo per berla ogni tanto».

    Il mercenario si strinse nelle spalle e sedette accanto a lui.

    «Questa roba fa schifo… ma almeno la chiamano vino ed è un nome che mi fa felice», lo liquidò, tendendo eloquentemente la mano per riavere la borraccia e servirsi a sua volta. Adriel lo squadrò, cercando di carpire, al di là del cuoio e della ferraglia che indossava, se e quanto fosse ferito. Fu sollevato nel vedere che, a eccezione di una manciata di brutte abrasioni e lividi, era solo sporco, come lo era anche lui del resto. Apparentemente ignaro di quello sguardo indagatore, Valanjr rovesciò indietro la testa e si dissetò, senza curarsi troppo dei rivoli rossi che gli colavano sul mento e lungo il collo.

    Cosa facesse di lui un amico, Adriel non avrebbe proprio saputo dirlo. Erano diversi in tutto.

    Valanjr era di carnagione chiara, aveva lunghi capelli di un biondo così pallido da apparire quasi cinereo e lineamenti volitivi, anche se non squadrati. Gli occhi erano due vivaci e maliziose perle di colore verde intenso, come quello dei boschi di montagna. Petto e spalle possedevano la virtù di una muscolatura decisa e aggressiva. Sebbene Valanjr fosse di fisico asciutto, come ogni guerriero ben temprato, Adriel non poteva che sentirsi minuto accanto a lui. Più alto dell’amico, non possedeva però un corpo così prepotente e anzi, a un occhio privo di malizia sarebbe apparso gracile ed eccessivamente magro. Il nero ricco dei capelli e l’acciaio che risplendeva nello sguardo amplificavano l’aria malinconica e tetra che lo ammantava costantemente.

    Ma le differenze più profonde tra loro non risiedevano nell’aspetto.

    Amante del gioco d’azzardo, degli imbrogli, della vita mondana e non ultimo, padrone di una buona dose di spirito combattivo, Valanjr rappresentava quasi il suo rovescio della medaglia. Per quanto a volte fosse grezzo, maleducato e attaccabrighe, Adriel non se la sentiva di biasimarne il piglio leggero che aveva per affrontare il mondo e farlo roteare tra le dita con l’abilità di un giocoliere. E poi era bravo a richiamarlo alla realtà, come stava facendo adesso dandogli di gomito per strapparlo a un altro dei suoi lunghi momenti meditativi.

    «Quelli stanno festeggiando, lo sai eh?».

    «Sì».

    «Fra poco arrostiranno carne di maiale selvatico e io voglio esserci».

    «Fra poco pioverà».

    Valanjr si alzò e spolverò le braghe con rumorose manate.

    «Sì, appunto. E se non riusciranno ad accendere un fuoco, si accontenteranno lo stesso di spartire il vino… e io voglio esserci!».

    «Non ti trattengo», tagliò corto Adriel, accennando un sorriso per smorzare quello che era un implicito invito a lasciarlo solo. Per accentuare il messaggio, adagiò le spalle allo scomodo masso roccioso che lo riparava alla vista degli altri combattenti e richiuse gli occhi stanchi. Ma Valanjr era un osso duro da scoraggiare. Apparentemente sordo alla sua richiesta, si piegò sulle ginocchia di fronte a lui e abbassò la voce, quasi stesse per confidare un enorme segreto.

    «Adrì! Forse non te ne sei accorto, ma abbiamo vinto la battaglia», agitò la borraccia come fosse un campanello davanti al volto dell’amico per sottolineare meglio quello che stava cercando di dirgli, e continuò golosamente canzonatorio, «significa che i buoni hanno ucciso tutti i cattivi e il mondo sarà un posto più felice. Noi siamo i buoni… va bene, tu sei uno dei buoni, io un po’ meno… ma loro restano i cattivi… e i cattivi sono morti».

    Tutti? avrebbe chiesto Adriel, se non fosse stato certo che una simile domanda avrebbe scatenato altre indesiderate spiegazioni sul perché fosse comunque necessario festeggiare alla fine di un massacro. Così si sforzò nuovamente di sorridere e si rivolse all’amico con la pazienza di chi è troppo stanco per intraprendere una nuova lotta.

    «E mentre cerchi di convincermi di una cosa che già so, laggiù i buoni si stanno spartendo il bottino di guerra. Che ci fai ancora qui?».

    Per un attimo, lo sguardo di Valanjr corse sinceramente preoccupato verso il campo, ma quello che vide fu solo un formicaio scomposto, fatto di uomini e animali che si muovevano febbrili attraverso tende precarie, cataste di legna instabili e sacchi di provviste i cui fori seminavano granaglie a manciate tra le braccia del vento. Il fumo acre dei fuochi, spenti in tutta fretta prima che le intense raffiche li propagassero, attraversava l’accampamento in grigie nuvole basse da cui, di quando in quando, emergeva il pollame lasciato allo sbaraglio, o qualche mulo troppo carico e pigro per muoversi attraverso il marasma.

    Valanjr ridacchiò divertito, incrociò le gambe e si lasciò cadere sulla terra brulla accanto all’amico.

    «Mi sa che sono troppo occupati adesso». Ma Adriel stava già guardando altrove e la sua espressione era tormentata.

    Per qualche tempo i due sedettero in silenzio, condividendo la borraccia e fissando il cielo che a ovest ribolliva arrabbiato. Nonostante non fosse ancora buio nella vallata, la notte aveva già conquistato la frontiera dell’orizzonte a ovest e muti lampi lontani si incalzavano con un ritmo crescente. L’oscurità uniforme che cancellava la linea di confine tra la catena montuosa e il cielo, si svelava a ogni bagliore e i contorni delle imponenti formazioni nuvolose riaffioravano dal nero, ridisegnati con colori lividi ed evanescenti. Era uno spettacolo che spezzava il fiato.

    «Nija è incazzata», mormorò sorridendo Valanjr.

    «Non nominarla!», lo ammonì Adriel e il mercenario avrebbe giurato di sentire una nota di timore reverenziale nel suo sussurro rauco, «Non ora... non quando il sangue che macchia le tue mani è di una progenie a lei non lontana».

    Questa volta, Valanjr non ebbe nulla da ribattere e tacque.

    Entro i ristretti confini isolani, laddove la civiltà delle altre terre non aveva messo piede, esistevano leggende e superstizioni che potevano intimidire persino uno come lui, e quella della Caduta di Nija era una di queste. Ripetuta e cantata con mille sfumature da madri, poeti e sacerdoti, essa preservava il sapore salato delle leggi di un popolo chiuso e incontaminato.

    Si narrava che all’alba del tempo, la Dea Nija fosse Signora dei Regni dell’Aldilà, una guida per condurre le anime dei morti lungo le vie del loro ultimo viaggio. Le genti la invocavano perché raccogliesse gli spiriti dei defunti, timorose che altrimenti avrebbero vagato in eterno sulle Regioni dei Mortali, tormentati e incapaci di rassegnarsi. A lei si votavano i guerrieri prima di una battaglia, i marinai prima di una traversata pericolosa, le madri prima di dare alla luce un figlio. Cupa e misteriosa, Nija accoglieva misericordiosa il richiamo di chi l’aveva invocata e solcava la terra nell’ora più oscura della notte, avvolta in un manto di buio impenetrabile perché qualunque mortale l’avesse vista avrebbe perduto la vita entro la notte successiva per seguirla.

    Agli Immortali però era concesso guardarla e Sraedian, Dio dell’Astro Infuocato, se ne invaghì così ardentemente che decise di farla sua. Quando Nija, che altro non conosceva se non l’oscurità, vide per la prima volta l’affascinante danza delle fiamme che accompagnavano Sraedian, ne fu intimamente ammaliata e il temperamento passionale del Dio la conquistò senza riserve.

    Ma il sentimento del Signore del Fuoco era capriccioso e incostante e con il primo plenilunio d’argento, egli volse il proprio sguardo su Naeviel, allora unico Astro notturno.

    Per lungo tempo Nija rimase ignara del tradimento fino al giorno in cui, ingannata dal giungere prematuro dell’oscurità durante un’eclissi, si affacciò sul mondo dei mortali per assolvere il proprio compito. Ansiosa di incontrare il focoso amante, levò gli occhi alla volta celeste e quando lo vide fra le braccia di Naeviel, la delusione, l’amarezza e l’ira germogliarono vivide dentro di lei e la consumarono. Nell’impeto della rabbia pronunciò un voto di feroce vendetta: Sraedian non avrebbe visto nascere i figli che ella recava segretamente in grembo da qualche tempo. Prima che i gemelli vedessero la luce, Nija li condusse nel Regno dell’Aldilà, creature viventi nella terra dei morti, violando il sacro compito di cui era guardiana e commettendo così un atto di atroce blasfemia.

    Il Concilio degli Dei fu implacabile e la condannò, privandola del suo Manto e relegandola alla più crudele delle prigioni, nelle radici profonde della terra. Ma ormai il cuore di Nija era perduto, livido e corrotto da amarezza e rancore.

    Nell’Abisso in cui era stata gettata, stringendo innominabili alleanze, con fatica ricostruì il proprio regno, fondandolo sulla nera crudeltà e sul veleno della vendetta di cui volle divenire maestra incontrastata. Il fuoco e la luce furono banditi dai confini del suo dominio immondo. Con il tempo, dal rapporto incestuoso dei suoi discendenti ebbe vita la genia degli ssywar.

    Alla figlia Yviath, tanto simile a lei, Nija devolse ogni attenzione, istruendola ai propri dettami e forgiandola nel giogo di leggi spietate che non ammettevano alcuna debolezza, perché quando il giorno fosse giunto, potesse ereditare ogni cosa insieme alla guida della progenie ssywar. Ma per il gemello, Eblyss, non ebbe alcuna pietà.

    Troppo somigliante al padre nell’aspetto e temperamento per sopportarne ancora la vista, lo esiliò. Ripudiato e diviso dalla sorella, egli vagò senza meta, Fiamma Notturna incapace di sopportare la vista della luce, furioso cacciatore di colei che gli aveva sottratto il padre prima, e la madre ora. Naeviel, l’Astro Cinereo, divenne sua nemesi, un’ossessione tanto febbrile da scatenare in lui le più cupe tempeste.

    Fu proprio durante un furente scoppio d’ira dell’ignaro figlio, che Nija poté finalmente estorcere la sua prima vendetta. Consegnò gli ssywar nelle mani di Yviath e, celata nel turbinoso alternarsi di lampi che ingannavano l’oscurità, solcò i cieli. Qui sorprese Helamos, colpevole Signore della Notte la cui inettitudine aveva permesso l’incontro tra Naeviel e Sraedian, e lo annientò, reclamandone il dominio. Da allora, ella ne veste il Manto, Tenebra che mai desidera vedere l’odiato, antico amante.

    Secondo le genti dell’isola di Imoon, quando le tempeste annunciavano l’arrivo prematuro dell’oscurità, era segno che i due immortali si erano incontrati e si stavano dando battaglia. Valanjr e Adriel avevano viaggiato e visto altre terre. Sapevano che coloro conosciuti come ssywar nella lingua dell’isola, altri non erano che drow, elfi scuri. Diverso nome, diverse leggende, ma stessa terribile fama.

    Per quanto i colori della bufera imminente potessero affascinarlo, Adriel non ebbe più alcun desiderio di guardarli, schiacciato dal mistico timore di malvagi immortali infuriati con lui. Yviath e Nija. Le aveva offese entrambe.

    Alle sue spalle, le voci che provenivano dal campo ormai non erano che un sussurro ovattato, interrotto dal costante ululato del vento, e il ruggito delle onde che si infrangevano con violenza sugli scogli, al di sotto della vallata, gli giungeva così nitido da sembrare vicinissimo. Stringendo con una mano i lembi del mantello perché le falde non schioccassero selvagge sul volto dell’amico, si alzò e inspirò a fondo. L’aria era divenuta molto più fredda e sapeva di salsedine.

    «Non sento profumo di carne arrostita».

    «Spiritoso», commentò con un pizzico di delusione Valanjr, alzandosi a sua volta e portandosi una mano sopra gli occhi per ripararli dal vento, così da avere una migliore visione del campo, «se è per questo, si stanno precipitando di gran carriera verso Belios. Tornano tutti a casa… quelli vivi, s’intende. Hanno mogli lì che li aspettano sai? Non come te».

    «O come te».

    «Sì, certo. Ma i bordelli sono aperti e se ci sbrighiamo, magari, non dovrò accontentarmi degli scarti».

    Adriel scosse lievemente la testa e sorrise, distogliendo un po’ a malincuore lo sguardo dall’orizzonte e accennando finalmente a voler accontentare il compagno, ma appena compiuto il primo passo barcollò vistosamente. Perplesso, Valanjr lo guardò corrucciato.

    «Tutto bene Adrì? Sei ferito per caso?».

    «Non sono io Valanjr», gli occhi del guerriero erano sbarrati e fissavano il suolo, «non senti niente?».

    Prima che il mercenario potesse rispondere, un lamento raccapricciante si propagò lungo la parete rocciosa a pochi metri da loro e un ruscello di pietre spezzate prese a scorrere sul fronte che solo qualche attimo prima era stato un magnanimo riparo dal vento.

    «È la terra…», sussurrò a corto di fiato Adriel, guardandosi la punta degli stivali, «… trema…»

    «Non trema Adrì», esalò Valanjr con occhi sgranati sul panorama alle sue spalle, «Crolla!», gridò sopra il ruggito della frana.

    Senza troppe cerimonie, afferrò il compagno per la spalla e si gettò in fuga verso lo strapiombo che declinava a nord, consapevole di quanto il tentativo fosse inutile e disperato. Entrambi sapevano che lì non avrebbero trovato riparo. Ma esisteva davvero un’oasi di salvezza da qualche parte nei dintorni?

    Dopo la recente battaglia, l’esercito si era riversato su una lingua di terra poco fertile, dura e ingenerosa in fatto di vegetazione. Il suolo era un mosaico di lastroni di roccia sedimentaria e, tra le sue fenditure, qualche ciuffo di erbaccia selvatica aveva tentato di affiorare, prima di soccombere bruciato da sole e salsedine. A sud si ergeva un muro di pietra dalle tonalità fredde, una barriera quasi del tutto verticale su cui si apriva un numero impressionante di insenature, grotte e caverne dalle dimensioni e forme più diverse. Alcune erano a fondo cieco, ripari occasionali per animali selvatici o alcove per i loro accoppiamenti primaverili. Altre però erano l’ingresso a misteriosi canali che si contorcevano e diramavano fin nel cuore della montagna; generoso materiale per le canzoni dei bardi che spesso, a loro dire, erano gli unici superstiti di qualche gruppo di avventurieri disperso nell’impossibile rete di cunicoli.

    Un certo fondamento di verità tuttavia c’era ed era molto più inquietante di quanto la fantasia degli stessi cantori avrebbe potuto concepire. Nelle profondità della terra più di un avventuriero aveva incontrato gli ssywar e non era tornato a raccontarlo. Le radici della catena montuosa che raggiungeva il cuore di Imoon correvano così, tagliate in un muro verticale che serpeggiava lungo la costa per molte miglia verso ponente. Qualche volta la parete rientrava abbastanza da concedere ampi spiazzi, perfetti per ammassare un piccolo esercito come quello che si era riunito qui. Più avanti però i sentieri percorribili divenivano sempre più stretti, fino a ridursi a semplici bordi frastagliati e interrotti, merletti di roccia che il tempo aveva consumato e strappato in più punti. Oltre quei sentieri piccoli o grandi, c’era sempre lo strapiombo sul mare.

    Alle loro spalle, i due guerrieri sentirono chiaramente le fondamenta della montagna scricchiolare prima, ringhiare dopo e infine gemere e collassare con un rombo talmente profondo da riecheggiare, vibrando fin nello stomaco. Come animato improvvisamente da un malevolo sortilegio, il gigante roccioso sembrò tendere le dita verso di loro, schiacciando il suolo un attimo dopo che i due lo avevano abbandonato, e inseguendoli nella loro disperata fuga con frane e massi di dimensioni sempre più ragguardevoli.

    Valanjr sentì bene il tonfo di una roccia che si schiantò al suo fianco, rimbalzò e si fermò addirittura un passo avanti a lui, sorprendendolo con un’esplosione di schegge che lo investì in pieno volto. Il cuore prese a battergli troppo veloce, le vene si gonfiarono sul collo quasi soffocandolo e le gambe non gli parvero forti e rapide quanto avrebbe voluto. Febbrile, si guardò intorno. L’aria era già satura. Una nuvola di terra grigia e nera, si contorceva davanti e intorno a lui e per quanto ne sapesse, Adriel poteva essere già morto, schiacciato da uno dei massi che continuavano a piovere ininterrottamente da tutte le direzioni.

    Ogni istante sembrò eterno, ogni fragore destinato a lui.

    Il prossimo masso… il prossimo è mio!, si ritrovò a pensare, ubriaco di adrenalina. Un’ombra indistinta emerse poco più avanti e per un attimo il mercenario sperò fosse quella dell’amico; il lampo che gli esplose sugli occhi quando vi andò a sbattere contro e lo stordimento che ne seguì lo disillusero in fretta. Barcollante e in preda alle vertigini, cercò di sostenersi, appoggiando entrambi i palmi alla roccia che gli aveva sbarrato la strada, ma sentì bene il suolo sotto i piedi fremere impaziente e le ginocchia cedere. La disperazione si impadronì di lui.

    Ovunque fosse andato, non ci sarebbe stato un posto in cui mettersi in salvo. Le grotte alle sue spalle erano crollate e più avanti, chissà dove, c’era uno strapiombo che si gettava nel mare da almeno un centinaio di metri di altezza. Un brutto modo per morire. Quando una crepa si aprì però sotto le suole degli stivali, riconobbe di non essere ancora pronto a rassegnarsi. Chiamando all’appello l’ormai magra scorta di determinazione che poteva trovare dentro di sé, aggirò il masso e riprese a correre, questa volta con le mani tese in avanguardia a tastare l’aria sporca, e con un po’ meno foga di prima. Pochi passi più avanti, un’altra ombra stava emergendo dal fumo e Valanjr decise di scrutarla con prudenza, cercando di ignorare l’urlo della vallata che crollava alle sue spalle. Più sottile, umanoide…

    Un’onda di speranza si riversò in lui come acqua fresca e sorrise quando riconobbe il mantello di Adriel, i lunghi capelli corvini che frustavano selvaggiamente l’aria intorno, la mano sottile e livida, posata sulla bocca per ripararsi dalla densa nuvola di terriccio.

    Idiota… è tornato indietro a cercarmi, pensò, sentendo fiorire una gratitudine che non avrebbe mai ammesso. Poi vide l’acciaio snudato, stretto nel pugno del guerriero e il suo sguardo sinistro, corrucciato, sottile come il filo della lama che impugnava.

    Un solo lampo.

    Qualcosa lo colpì brutalmente alla testa e sugli occhi scese un velo di nebbia. Prima che il buio potesse afferrarlo del tutto, vide Adriel spostare la mano dalle labbra e sorridere.

    * * *

    Le dita indugiarono incerte sul legno verniciato della cassettiera. Era un pezzo d’arredamento davvero pregiato, scolpito da mani capaci e intarsiato con un gusto estetico impareggiabile. Adesso era vuoto, destinato a essere lasciato alle spalle. Mylian sentì una fitta sottile attraversarle lo stomaco al solo pensiero. Tutto, in quella stanza, era intriso di ricordi piacevoli e persino i momenti più difficili, trascorsi sulle prime, impossibili rune all’epoca del suo apprendistato, adesso le sembravano dolcissimi. Sospirando, si risolse a voltarsi per ispezionare un’ultima volta il piccolo ma accogliente alloggio che le apparteneva.

    Come appariva diverso e gelido adesso!

    Lo scrittoio, un tempo affollato di libri, boccette di inchiostro, penne e pergamene, era così nudo ora, pudicamente celato nell’ombra di una giornata che si era rabbuiata troppo in fretta, tingendosi dei colori della tempesta che stava incalzando.

    Ricordava bene il tempo che aveva speso chinata su quel tavolo; interminabili notti in cui si era sentita spesso sconfitta davanti ai propri fallimenti, quando la stanchezza le aveva annebbiato la vista e le iscrizioni arcane erano sbiadite sotto la luce tremula di una candela. Poteva quasi sentirne ancora il profumo soporifero, infido tentatore che ogni volta l’aveva invitata ad arrendersi e abbandonare lo studio. Adesso invece un vento frizzante e freddo, odoroso di pioggia, si insinuava dalla finestra aperta, prendendo il posto di tutti gli aromi speziati che avevano impregnato ogni angolo di quel piccolo mondo e cancellando ogni traccia di familiarità. Mylian stentava ad abbandonare i suoi alloggi, ma essi le avevano già dato l’addio ed erano divenuti distanti, estranei nell’aspetto e nell’odore. L’intera Torre in realtà, era racchiusa in un’atmosfera cupa e irreale, vestita di un silenzio molto più fitto di quello conosciuto nei dodici anni spesi tra le sue mura; i bisbigli vellutati e i fruscii delle lunghe vesti sembravano appartenere a un’epoca lontanissima. Doveva convincersi che questo fosse un bene, anche quando la sua eccezionale sensibilità le diceva tutt’altro. Non avrebbe incontrato allievi o maestri cui rendere conto dei propri passi, non si sarebbe trovata nella scomoda posizione di dover giustificare un pesante zaino sulle spalle, il mantello da viaggio e una partenza all’alba di una tempesta.

    I giorni precedenti erano stati concitati e sgradevoli, costellati di piccoli contrasti, sfociati poi in un vero e proprio scontro quando aveva tentato invano di opporsi alla guerra cui la gran parte dell’Ordine era ansiosa di partecipare.

    Siamo i detentori della Conoscenza, non mercenari a caccia di tesori!, aveva argomentato con ardore e in cambio era stata velatamente accusata di codardia. Le avrebbero detto ben di peggio vedendola partire ora, sospinta da qualcosa che non aveva confidato ad alcuno.

    Nonostante tutto, Mylian scoprì di non provare alcun risentimento per le dure parole che le erano state rivolte, o per quelle che non erano state dette, ma solo un’infinita tristezza: nessuno di coloro che erano partiti sarebbe tornato. Nemmeno lei.

    Le tende si agitarono e una pergamena sgualcita rotolò sul pavimento, sospinta da una folata più decisa. La maga ne seguì il pigro volteggiare per qualche istante e infine raccolse lo zaino per gettarselo sulle spalle. Si volse, accompagnata da uno dei tanti lampi che ormai affollavano il cielo e intraprese malvolentieri l’interminabile discesa lungo la scalinata che avrebbe percorso per l’ultima volta.

    Fu come camminare in un sogno. Impressa negli occhi verdi e annebbiati dalle lacrime che si ostinava a trattenere, c’era ancora l’immagine della stanza vuota. Quando si affacciò al portone dovette subito calcare meglio il cappuccio sul volto, per ripararsi dal vento che scorazzava prepotente presso i giardini smeraldi. Già al primo sguardo capì che non sarebbe rimasto molto dei teneri germogli che gli allievi avevano accudito con tanta devozione. Gli alberi, avvolti in una foschia fatta di terriccio e foglie vorticanti, erano piegati tanto da sembrare pronti a spezzarsi da un momento all’altro e il legno dei recinti che delimitavano le coltivazioni di piante medicali scricchiolava e gemeva ad alta voce. La porta della stregaria -come da tempo era stata nominata la serra che custodiva le piante più rare- dondolava sui cardini, sbattendo di quando in quando con tonfi sempre più preoccupanti e Mylian corrucciò lo sguardo infastidita. Quante volte aveva ammonito i giovani studiosi, raccomandando loro di assicurarsi che fosse ben serrata! Come potevano essere così indisciplinati e pretendere di progredire nell’austero cammino degli studi arcani che li attendeva?

    Per un attimo la maga si ritrovò a pensare che avrebbe scovato il distratto colpevole e l’avrebbe punito con insolita severità, affinché non avesse a dimenticarsene per il resto dei suoi giorni, ma il momento successivo si sentì lavare dall’amarezza più nera: stava per abbandonare quel luogo ed era tempo che anche i suoi pensieri si intonassero all’idea.

    Stringendo a sé il mantello che la schiaffeggiava senza sosta, e rimpiangendo di non aver intrecciato i lunghi capelli vermigli, cercò di valutare il ritmo delle raffiche, decisa a scegliere il momento migliore per avvicinarsi alla stregaria e chiuderne la porta. In quell’istante una mano le si posò sulla spalla e la maga sentì il cuore balzarle in gola.

    «Acarya… ouch!».

    Mylian fissò con un misto di rabbia e sdegno il giovane allievo che si era rivolto a lei, appellandola rispettosamente con il titolo di Maestra, e non le dispiacque vedere che teneva quella stessa mano impudente sul labbro colpito dal suo gomito.

    «Keremil! Solo tu potevi fare una cosa tanto stupida!», ringhiò, sforzandosi di placare il respiro, «Non ti avevo detto di aspettarmi giù?».

    «Sì, Acarya… ma il tempo passava e…».

    «… e la pazienza è la virtù di un mago!», completò lei, porgendogli un fazzoletto con una mano e lo zaino con l’altra, «Pensi di volerlo diventare un giorno?».

    «Ero preoccupato», confessò in tono dimesso il giovane, ma sulle labbra che stava ripulendo dal sottile rivolo di sangue, si delineò un leggero sorriso, «e temevo che il bagaglio fosse troppo pesante», aggiunse, sistemandosi la sacca sulla spalla e sperando di placare un po’ l’ira dell’incantatrice. Per un attimo Mylian desiderò averlo colpito più forte, ma non poté negare a sé stessa che quella voce in fondo, dopo tanto silenzio, stava aprendo un varco nel suo animo malinconico, facendola sentire meno sola davanti al viaggio che l’attendeva. E poi dubitava di essere in grado di buttarlo giù. Il ragazzo era robusto e la superava in altezza di almeno una spanna e mezza. Il ventre leggermente arrotondato tradiva un certo amore per il cibo abbondante e le generose libagioni, ma era anche il frutto delle troppe ore spese in attività decisamente sedentarie. Se fosse rimasto con il padre contadino, forse adesso avrebbe sviluppato muscoli più solidi e riflessi più rapidi. Il destino aveva deciso per lui una strada molto diversa però e il passato, che talvolta gli incupiva quello sguardo bruno e sbarazzino, non doveva essere stato molto clemente. In qualche modo Mylian era comunque contenta di riconoscere nei lineamenti così giovani il volto e l’innocenza di un bambino che non era cresciuto abbastanza per i diciassette anni che lo decretavano uomo.

    «Vado a serrare la porta della stregaria e possiamo partire», gli disse, questa volta in tono più morbido, ma l’allievo tese di nuovo la mano verso di lei, anche se la recente esperienza gli suggerì saggiamente di fermarsi prima di toccarla.

    «Acarya… non c’è tempo… ti prego… lascia stare». Mylian lo guardò per un momento e si volse poi a scrutare il sentiero, esitando ancora.

    «Non credo che torneranno… non così presto…», sussurrò comprensivo Keremil, e si spostò di lato per incoraggiarla a rientrare e proseguire la discesa che li avrebbe condotti nei sotterranei della Torre. Infastidita dall’insistenza dell’allievo, Mylian accolse lo stesso il suo invito e gli passò accanto senza guardarlo. Sapeva che il ragazzo aveva ragione e che, in fondo, la frustrazione che la attanagliava non dipendeva da lui.

    La discesa questa volta fu molto più reale e la mente della maga più presente. Stretta nella mano di Keremil la torcia gettava fumo e fastidiosi riflessi negli occhi, mentre un freddo pungente, trasudato dalla pietra umida e grezza, si fece sentire quasi subito, crescendo di intensità man mano che si spingevano più in basso. Presto i gradini divennero tortuosi e meno definiti, qualche volta persino spezzati per oltre la metà della loro lunghezza e il muschio che li soggiogava, diramandosi dalle pareti, appesantiva l’aria con un odore denso e graffiante.

    Furono accompagnati da un silenzio concentrato per tutto il tempo; Keremil troppo impegnato a non scivolare sul terreno sconnesso e Mylian troppo amareggiata per aver voglia anche solo di pensare a ciò che stava facendo. Erano passati lunghi anni dall’ultima volta in cui aveva visitato i sotterranei della Torre e mai si era spinta così in basso. L’esperienza era sublime e inquietante al tempo stesso.

    Nei primi giorni di apprendistato, anche lei, come tutti gli allievi, non aveva mancato di porre numerose domande sulle misteriose origini della Torre di Selianth: quanto erano profonde le sue radici? Chi le aveva scavate? Perché? E quanto erano antiche? Le risposte non l’avevano mai saziata abbastanza. I maestri erano riluttanti e concedevano piccoli frammenti di storia solo durante le ore della notte, dopo una giornata straordinariamente estenuante, o quando erano stati troppo indulgenti con le libagioni. Solo allora, con rauchi sussurri, si immergevano in racconti che avevano il sapore della polvere del passato, la stessa dei vecchi tomi proibiti custoditi nella biblioteca, inviolati per anni per non risvegliare antichi demoni sopiti. Facevano paura quelle storie, o forse il modo in cui le raccontavano, ma Mylian le aveva divorate con avidità.

    Adesso, sotto il tocco delicato della mano che carezzava la roccia grezza e nera, le leggende fiorivano a nuova vita e la voce calda dei maestri tornava a mormorare nella mente.

    Dovete sapere che in tempi remoti, prima che i Sapienti e i Custodi della Conoscenza prendessero dimora sull’isola, in questo lembo di terra vi era un antico scavo minerario. Esso era ardito e talmente profondo, che ben presto furono invero pochi gli uomini in grado di spingersi fino alle sue radici. Lavorare nelle cavernose profondità della terra divenne col tempo una condanna senza scampo e i pochi che riuscivano a tornare perdevano il senno, o morivano precocemente, consumati come papiri esposti alla fiamma di una fucina. Pur tuttavia, la ricchezza celata nel cuore della valle era tale che nessuna promessa di morte certa poteva scoraggiare avventurieri e miserabili dal compiere l’impresa.

    Fu il mare misericordioso a decidere per l’uomo, e quando la sua coltre salata allagò i cunicoli più profondi, lo scavo fu infine abbandonato.

    Trascorse quasi un secolo e gli uomini, come spesso accade, persero memoria di quella

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