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Aurum Tolosanum - La vendetta di Apollo
Aurum Tolosanum - La vendetta di Apollo
Aurum Tolosanum - La vendetta di Apollo
E-book300 pagine3 ore

Aurum Tolosanum - La vendetta di Apollo

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Info su questo ebook

Terribile è la vendetta di Apollo nei confronti degli empi che dimenticano che è sacro ciò che viene offerto agli dei. Sciagure colpiscono chiunque per avidità metta le mani sul sul tesoro del dio e la maledizione non si ferma nemmeno davanti alla potenza di Roma.
di Gianpiero Pisso
Oltre a essere il dio del sole, della scienza, della musica e della poesia, Apollo era anche il dio delle pestilenze ed era noto per la sua vendicatività.
E terribile è la sua vendetta nei confronti degli empi che dimenticano che è sacro ciò che viene offerto agli dei. Sciagure colpiscono chi per avidità si è impadronito del suo tesoro, custodito presso l’oracolo di Delfi, a partire dai celti, che materialmente distrussero il santuario nel 279 a.C., fino ad arrivare alla potente Roma repubblicana, che la maledizione di Apollo scuote fino alle fondamenta.
Dopo il successo di “Quando la luce squarciò le tenebre” (Le Mezzelane Casa Editrice, 2018), Gianpiero Pisso torna a impugnare la penna per narrare questa nuova versione della leggenda dell’oro di Tolosa, accurata e dettagliatissima per quanto riguarda la parte storica e impreziosita dalla vivacità della narrazione, capace di portare il lettore dentro le vicende, a tu per tu con ogni singolo personaggio.
 
LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2021
ISBN9788833285573
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    Aurum Tolosanum - La vendetta di Apollo - Gianpiero Pisso

     Gianpiero Pisso

    Aurum Tolosanum

    La vendetta di Apollo

    LE MEZZELANE CASA EDITRICE

    Aurum Tolosanum – La vendetta di Apollo, di Gianpiero Pisso

    Editing: Maria Grazia Beltrami

    Prima edizione 2021 - Le Mezzelane Casa Editrice

    ISBN 9788833285573

    Illustrazione di copertina e progetto grafico: Alessio Gherardini

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali.

    Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.

    immagini2

    Le Mezzelane Casa Editrice di Capomasi Camilla

    Via Papa Giovanni XXIII, 32 - Santa Maria Nuova - An

    www.lemezzelane.eu

    email: informazioni@lemezzelane.eu

    A mia moglie Patrizia

    Ad Arianna e Mauro

    Al piccolo Leonardo, il mio grande amore

    Capitolo primo

    Verso i Balcani, anno 279 aC.

    La migrazione verso sud-est era iniziata anni prima e non si sarebbe arrestata facilmente. I germani da nord e i romani da sud avevano stretto in una morsa le popolazioni celtiche, le cui terre si estendevano dalle isole dei britanni alle Alpi, dalla penisola Iberica alla valle dell’Istros. Ciò aveva originato enormi tensioni tra le diverse tribù confinanti, perché i loro spazi si erano ristretti e perché era nell’indole di questi fieri guerrieri, temerari e sprezzanti del pericolo, conquistare sempre nuove terre, raggiungere sempre nuovi orizzonti .

    Nel tempo, i celti si erano suddivisi in diversi ceppi tribali – i Britanni, i Celtiberi, gli Scordisci, i Taurisci, i Volci, gli Edui, i Galli e molti altri ancora – che, però, avevano caratteristiche molto simili. Alcuni di essi si erano ulteriormente ramificati, come i Galli, che avevano dato origine agli Elvezi, ai Belgi, agli Aquitani.

    Presto la situazione divenne insostenibile, mettendo in moto la migrazione.

    Ogni capo tribale, infatti, per mantenersi tale aveva la necessità di rafforzare il proprio prestigio e la propria supremazia, cosa che poteva essere ottenuta solo mostrandosi il più temerario e audace in battaglia, il più avido e spregiudicato nelle scorrerie e nelle razzie. Occorreva, dunque, darsi da fare per individuare nuovi nemici da soggiogare e nuovi territori da conquistare.

    Il grande fascino che da sempre esercitavano sulle tribù le ricchezze dei popoli che si affacciavano sul Mediterraneo, unito alla situazione di anarchia originatasi dalle discordie scoppiate fra i successori di Alessandro Magno, avevano fatto credere loro che quelle terre fossero pronte ad accoglierli.

    Così si misero in marcia verso i Balcani

    Furono gli elleni che al loro apparire li chiamarono keltoi –celti – che significa coloro che sono diversi, perché tutto in loro era fuori dal comune: il loro aspetto, il loro abbigliamento, il loro modo di combattere, la loro religione.

    Alti, muscolosi, con lunghi capelli biondo-rossicci e dotati di mascelle pronunciate, in genere scendevano in battaglia seminudi, anche se taluni esibivano panoplie sottratte ai nemici, bottini di guerra che ostentavano più come trofei che come attrezzatura bellica.

    La loro tattica guerresca era, infatti, molto lacunosa, per non dire mancante del tutto, essendo costituita essenzialmente dal lanciarsi, spada in mano e gridando come indemoniati, contro l’avversario. Tanta era però la loro foga e ferocia che nessun generale ellenico avrebbe voluto subire una loro carica; si diceva inoltre che, sebbene colpiti a morte, potessero percorrere decine di metri, cercando vendetta, prima di afflosciarsi a terra privi di vita.

    I loro sacerdoti, i druidi, li seguivano ovunque andassero e i più importanti tra loro avevano lo stesso potere dei re.

    ***

    Era novembre e gli ottantacinquemila guerrieri Galati e Bastarni che formavano l’orda di Brenno e di Akichorios, spossati dalle recenti battaglie in Dardania e in Peonia, erano accampati non lontano dal villaggio di Beroea, nel centro della Macedonia. Assieme ai guerrieri, marciavano mogli, sorelle e madri, bambini, ragazzi, sacerdoti, carri e bestiame: un mondo che, come un fiume in piena, si spostava verso l’ignoto.

    La regione era molto montuosa, con profonde valli, specchi lacustri e ampie foreste e, sfruttando queste caratteristiche della loro terra, i macedoni avevano provato più volte a sorprendere gli invasori in marcia, ma erano sempre stati respinti.

    Oltre a quella di Brenno, altre due orde celtiche avevano da nord invaso i Balcani in una selvaggia calata verso il mar Egeo.

    La prima, guidata da Keretrios, dopo aver attraversato la Macedonia settentrionale si era diretta a est e ora si apprestava a entrare in Tracia. La seconda, capeggiata da Bolgios, era risalita lungo la Morava, affluente di sinistra del Danubio; aveva invaso il regno di Macedonia da nord, catturato e decapitato il giovane re Tolomeo Cerauno per poi puntare dritta verso sud, sbarazzandosi facilmente di tutti gli avversari che aveva incontrato sul proprio cammino.

    ***

    Intorno al fuoco dell’accampamento, intenti a consumare un pasto a base di carne frutto della battuta di caccia del giorno precedente, sedevano, Brenno, il condottiero, e suo figlio Adair, un ventenne possente e muscoloso, alla sua prima, vera campagna di guerra. Era il figlio primogenito e forse, un giorno, avrebbe condotto lui stesso l’orda in battaglia.

    Del gruppetto facevano parte anche Igerna, moglie di Brenno e amazzone di grande valore, e il loro figlio minore, Tighe.

    La donna, abbigliata con una corta tunica di pelle, aveva i capelli raccolti in una treccia, fissata alla sommità della testa con un fermaglio d’oro dal quale numerose strisce di stoffa colorata scendevano sino alla nuca. Nonostante fosse ancora bellissima e il suo corpo fosse snello come quello di una giovinetta, alcune ciocche argentate brillavano tra i capelli corvini, lasciandone intuire la vera età.

    A qualche metro di distanza, sedevano i due capitribù più influenti. Akichorios e Komontorios erano tra i pochi guerrieri cui era concesso pranzare con il loro capo.

    Akichorios era uno dei rari celti di una certa importanza a non avere moglie né figli. Uno stuolo di donne servizievoli e pronte al suo comando lo seguiva e allietava le sue notti. Nessuna di loro era ammessa alla presenza di Brenno, perché il grande condottiero era assai conservatore e teneva in grande considerazione la famiglia.

    Komontorios era il braccio destro di Brenno. Più volte, in battaglia, i due uomini si erano protetti l’un l’altro dai nemici. Con grande piacere il guerriero stava spolpando una succulenta coscia di porco selvatico, accompagnando gli enormi bocconi con sostanziose sorsate del vino rosso contenuto in una brocca. Di tanto in tanto emetteva sonori e soddisfatti rutti. Come tutti i celti, era goloso di carne di maiale, un animale tanto apprezzato da diventare il simbolo della casta dei druidi e da essere rappresentato sugli elmi di molti guerrieri.

    La carne, però, era un cibo nobile, riservato ai capi. Gli altri si dovevano arrangiare con radici, bacche, fette essiccate di lardo rancido e qualche animaletto dei boschi, il tutto cucinato sulle centinaia di falò che si potevano scorgere per molte miglia all’intorno.

    «Che decisione prenderanno Leonorio e Lutario?» domandò Akichorios a Brenno.

    «Ho cercato di spiegare loro che un’opportunità di questo genere non capiterà mai più, ma temo che alla fine non ci seguiranno. Nutrono molti dubbi sull’esito della scorreria e i druidi sono dalla loro parte.»

    Brenno non sembrava preoccupato, nonostante quanto aveva appena detto facesse pensare a una possibile sedizione.

    «Temono gli dei ellenici che hanno sede su quella montagna?» chiese Akichorios guardando verso sud, dove, in lontananza, si stagliava il monte Olimpo.

    «Leonorio e Lutario si lasciano influenzare dalle paure dei druidi, che sconsigliano l’incursione e turbano le loro menti con profezie orribili», gli fece eco Komontorios, accompagnando le sue parole con una risata sguaiata.

    «Non dobbiamo preoccuparci più di tanto della loro viltà», li tranquillizzò Brenno. «Se decideranno di lasciarci, li seguiranno i Tectosagi, i Trocmi e i Tolistobogii: in tutto, circa ventimila guerrieri. Rimarranno con noi più o meno sessantacinquemila combattenti, più che sufficienti per portare a termine la nostra impresa.»

    Igerna scosse la testa.

    «Se ci abbandoneranno, porteranno con loro molti carri e cavalli, senza contare che il loro esempio influirà negativamente sugli altri guerrieri. Non sappiamo ancora quanto forti siano gli elleni, per questo non dovremmo privarci di alcun uomo in grado di combattere, né di alcun animale.»

    Le opinioni della donna venivano tenute in grande considerazione, perché Igerna era un’abile stratega e una feroce combattente, ed era per queste sue virtù che Brenno l’aveva presa in sposa.

    Komontorios annuì energicamente.

    «Igerna ha ragione, ma, purtroppo, la cosa non dipende da noi. Oltretutto Lutario mi ha confidato che non è solo una questione di religione. Teme infatti che alle Termopili gli elleni possano farci la festa!»

    Una gelida brezza da nord-ovest, che i locali chiamavano axiós, come il fiume che scorreva da quelle parti, da giorni spirava alle loro spalle, obbligandoli ad avvolgersi nelle folte pelli di orso che fungevano da vestiario invernale, da coperte per la notte e, all’occorrenza, anche da copertura per i loro improvvisati ricoveri.

    Prima di replicare, Brenno inspirò una boccata di aria fredda per schiarirsi le idee.

    «In questo potrebbe anche essere nel giusto», commentò infine, «ma è un rischio che dobbiamo correre. Non esistono altri passaggi tra la Tessaglia e la Focide. Dovremo transitare da quella strettoia.»

    «Ho sentito dire che, duecento anni fa, i trecento guerrieri del re spartano Leonida, appostati in quell’imbuto, riuscirono a bloccare il passo alla grande armata persiana di Serse. Solo il tradimento li obbligò a ritirarsi», disse Adair con un ghigno.

    «L’ho sentito dire anch’io, figliolo. Dovremo prendere le nostre precauzioni, ma per nessuna ragione al mondo rinuncerei alla ricchezza che ci attende», rispose Brenno, poi afferrò una brocca di vino e la svuotò in tre poderose sorsate.

    «Oltre all’oro e all’argento, padre, mi sembra aver capito che ci sia qualcosa d’altro che vi interessi, al di là di quella gola!»

    L’espressione di Adair era maliziosa, ma Brenno finse di non accorgersene.

    «Che cosa ci sarà mai, a Delphi, di più importante delle sue ricchezze?» chiese Akichorios, incuriosito, guardando padre e figlio.

    Anche Komontorios scrutò prima il viso del ragazzo, che però sembrava non voler parlare, poi quello del condottiero.

    «Mi piacerebbe sedermi sul trono del mitico Mida, re dei Frigi», disse quest’ultimo.

    «Mida? Non è vissuto più di quattrocento anni fa?» chiese Akichorios.

    Adair sorrise, ma continuò a tacere.

    «Sembra che prima di morire abbia donato il suo trono al santuario di Delphi», sospirò infine Brenno.

    Akichorios e Komontorios alzarono ciascuno una brocca di vino.

    «Allora brindiamo alla nostra incursione e al trono di re Mida», urlarono. «Neppure noi intendiamo fermarci, ora che la strada verso Delphi è spianata. Non temiamo gli dei ellenici: ci penserà Lug, il nostro dio, a spazzarli via.»

    «Lug lo farà, compagni, lo farà», fece eco Igerna.

    «Ci attendono ricchezze infinite, oro, argento, gemme preziose, un tesoro colossale. La fama di quel luogo è giunta sino alle nostre terre e ora la meta non è più tanto lontana. Dovremo aggirare il monte Olimpo, attraversare la Tessaglia e insinuarci tra il mare e le montagne transitando dalle Termopili, poi la via sarà libera sino a Delphi. La metteremo a ferro e a fuoco, la spoglieremo di tutto ciò che contiene e prenderemo tutte le fanciulle della città, anche le sacerdotesse vergini del loro dio. Mi hanno detto che sono bellissime», ruggì Brenno.

    Igerna ascoltò quella tirata con una certa noncuranza. Era costume dei guerrieri celti appropriarsi del bottino dopo una battaglia vittoriosa, e né lei né le sue amazzoni lo avrebbero impedito.

    Al colmo dell’eccitazione, Brenno, Akichorios e Komontorios presero un pezzo di carne di maiale ciascuno e lo lanciarono in alto, per poi infilzarlo col pugnale mentre ricadeva.

    Cento anni prima un altro Brenno, re dei galli senoni, aveva osato scendere sino a Roma e l’aveva messa al sacco. Lui avrebbe fatto di meglio. Avrebbe raggiunto il cuore del mondo ellenico, si sarebbe impossessato delle sue ricchezze e avrebbe sbeffeggiato i suoi dei. E, naturalmente, si sarebbe seduto sul trono di un re che era entrato nella leggenda.

    ***

    Ai delegati dei popoli facenti parte della lega ellenica chiamata Anfizonia era demandato il compito di sorvegliare i responsi dell’oracolo di Delphi, affinché mantenessero i requisiti di neutralità e indipendenza necessari a far sì che la parola del dio Apollo non venisse strumentalizzata a vantaggio di questa o di quella città dell’Hellas. Era così a causa della natura piuttosto enigmatica di questi responsi, cosa che, se fossero stati pilotati a favore di uno schieramento o di un altro, avrebbe potuto provocare una guerra.

    Quel giorno, tuttavia, si erano spartiti la tassa della consultazione e, tutti insieme, avevano percorso la via sacra per raggiungere il santuario, posto a seicento metri di altitudine. Questo perché in gioco non c’era la supremazia dell’una o dell’altra polis, bensì la libertà della loro terra: orde di barbari erano penetrate nei Balcani e una di queste era in cammino verso il sud del paese, verso il luogo dove ora si trovavano.

    Riuniti nella sala delle consultazioni adiacente all’ádython – il locale sotterraneo dove il dio sussurrava alla profetessa i suoi responsi – attendevano in assoluto silenzio che la Pythia terminasse le sue abluzioni con l’acqua della fonte Castalia e si sottoponesse alle fumigazioni con farina d’orzo e foglie d’alloro prima di salire sul tripode concavo.

    Lì avrebbe respirato i vapori che uscivano dalla fenditura nella roccia che si apriva sotto il tripode e, raggiunta l’estasi, avrebbe rivelato le intenzioni di Apollo. O meglio, il Sommo Sacerdote avrebbe interpretato i suoi mugolii e i suoi sussurri, mettendo in prosa o in esametri ciò che usciva dalla sua bocca.

    Delphi era il luogo dove la potenza generatrice si diffondeva attraverso l’afflato profetico della Pythia, capace di dispensare ammaestramenti, di svelare misteri e investigare il futuro, ma occorreva far presto, perché i barbari erano alle porte e nel giro di qualche settimana il dio Apollo sarebbe partito, come ogni anno, per la terra degli iperborei su un carro trainato da cigni. Per tre mesi avrebbe lasciato il santuario al dio Dioniso, poi sarebbe tornato nella Focide.

    Permetterà, il dio, che la sua casa venga profanata? si chiedevano molti dei delegati, osservando con aria devota il masso bianco a forma di cono arrotondato che segnava il punto esatto in cui era collocato l’ombelico del mondo, l’omphalós.

    Proprio in quel punto il dio aveva trafitto con le sue frecce l’originario custode dell’oracolo, il drago-serpente Python, nato dal fango dopo il diluvio universale, e aveva preso possesso del luogo. Per questo gli era stato dato l’appellativo di Pitio e la sua profetessa aveva assunto il nome di Pythia, Pitonessa.

    Le polis avevano bisogno del suo aiuto per arrestare il cammino dei barbari e i delegati speravano in una certa chiarezza nelle risposte della Pythia, perché avrebbero preferito non ripetere l’esperienza di re Creso, il quale, trecento anni prima, aveva preso un madornale abbaglio dopo aver consultato l’oracolo.

    Il sovrano della Lidia intendeva attaccare i persiani e, per essere certo della buona riuscita della sua impresa, decise di consultare un oracolo. Per capire quale fosse il più veritiero, si mise in contatto con i più noti di quel tempo e a tutti indirizzò la stessa domanda: Che cosa farò il centesimo giorno da oggi?

    La Pythia di Apollo rispose: Conosco il numero dei granelli di sabbia e la quantità di acqua del mare, comprendo un muto e ascolto chi non parla ma oggi un buon odore solletica i miei sensi: carne di tartaruga, assieme a carne d’agnello, bollita nel bronzo.

    L’oracolo di Delphi aveva indovinato le sue intenzioni e re Creso esultò: ora sapeva a chi chiedere consiglio per la sua campagna contro i persiani.

    Il responso dell’oracolo allo specifico quesito mandò in visibilio il re: Se varcherai il fiume Halis, un grande impero si avvierà alla sua distruzione, aveva sentenziato la Pythia.

    Senza indugio Creso guadò il fiume dell’Asia Minore, ma fu sconfitto da Ciro e messo in catene. L’oracolo, però, ancora una volta aveva predetto il giusto: il grande impero avviato alla distruzione era infatti la Lidia, non l’impero persiano.

    Questa volta la domanda che era stata posta all’oracolo recitava: Che cosa dobbiamo fare per rigettare indietro l’orda dei barbari?

    Quando il Sommo Sacerdote entrò nella stanza seguito dai cinque hosioi, i ministri scelti tra l’aristocrazia della città, la Pythia era già accovacciata sul tripode, tra le mani un ramoscello di alloro, in bocca alcune sue foglie. I vapori che uscivano dal sottosuolo l’avvolgevano come in un bozzolo prima di salire verso il soffitto e uscire da un foro circolare.

    Con gli occhi rovesciati all’indietro e scossa da tremori incontrollabili, la Phytia iniziò a emettere suoni simili agli ululati dei lupi che abbondavano sulle montagne dell’entroterra. Lupi che erano tra gli animali sacri ad Apollo.

    Poco dopo il Sommo Sacerdote presentò ai delegati la sua interpretazione.

    «Popolo dell’Hellas, giorni tristi vi attendono. Immensi lutti vi colpiranno, la ragione sarà capovolta e il male prevaricherà la virtù. Uomini scellerati arriveranno a sfidare la potenza degli dei, ma una cosa vi prometto: alla fine del buio la luce ritornerà e la mia maledizione rimarrà attaccata alla pelle di chi avrà profanato questi luoghi sacri e a quella dei loro discendenti. Soffriranno, tra lutti e sventure espieranno la loro colpa e la colpa dei loro antenati. Nessuno morirà nel proprio letto.»

    Era un responso terribile.

    Gli uomini cominciarono a bisbigliare, sui visi smorfie di paura per ciò che li aspettava, eppure nessuno di loro, neppure per un istante, pensò di cedere allo scoramento

    Gli elleni avrebbero difeso fino all’ultima stilla di sangue il loro paese e il santuario di Delphi e i barbari avrebbero pagato di generazione in generazione il prezzo della loro scelleratezza.

    Capitolo secondo

    Tessaglia, anno 279 a.C.

    Alla fine, Leonorio e Lutario decisero che non avrebbero stuzzicato gli dei ellenici. Avrebbero percorso la Tracia e raggiunto Bisanzio, per poi attraversare l’Hellespontus ed entrare in Asia Minore.

    In una fredda mattinata di metà dicembre Brenno assistette, contrariato, alla divisione dell’orda.

    Marciando verso est, i guerrieri dei due capi secessionisti cantavano al ritmo delle spade con cui percuotevano violentemente gli scudi mentre battevano con forza i piedi sul terreno. I Galati e i Bastarni, stretti attorno ai loro comandanti, risposero alla stessa maniera per augurare buona fortuna ai loro ex compagni.

    Il grosso dell’orda, rimasto con Brenno, Akichorios e Komontorios, proseguì nel suo cammino originario incontrando solo sporadiche resistenze da parte del nemico, fino a che giunsero alle grandi pianure della Tessaglia.

    La regione era circondata da imponenti rilievi montuosi, e in quella specie di capiente calderone gli elleni decisero di sferrare un massiccio attacco.

    Il terreno pianeggiante era infatti libero da vegetazione di alto fusto, adatto quindi alle compatte formazioni di opliti che costituivano il fiore all’occhiello dell’esercito ellenico. L’unità di base di ciascuna falange era la speira: duecentocinquantasei soldati serrati su sedici file. Più unità a contatto costituivano un muro di uomini difficile da respingere, capace di avanzare a passo cadenzato, spalla contro spalla, proteggendo con lo scudo ciascuno se stesso e il proprio compagno sulla sinistra.

    Quando si trovavano a qualche stadio di distanza dal nemico, protetti ai fianchi dalla cavalleria, davano inizio alla carica con le sarisse di legno di corniolo puntate in avanti.

    Da parte sua, Brenno aveva disposto i suoi uomini in modo tale che la minaccia potesse essere avvistata da qualunque parte provenisse.

    L’attacco iniziò da oriente.

    Dalle pendici dei monti Ossa e Pelio scesero torme di cavalieri al galoppo che precedevano i peltasti, la fanteria leggera dei Magnesi, abitanti delle città di Kastania, Methoni e Meliboea, riconoscibili dallo scudo a mezzaluna.

    Nello stesso istante, in una perfetta manovra studiata a tavolino per serrare in una tenaglia gli invasori, da ovest avanzarono minacciosi gli Estioti e da sud gli Ftioti e il folto contingente di Pelasgioti inviati dalla città di Argo.

    Quando Brenno udì il suono dei carnices, le trombe a forma di serpente dei guerrieri di Akichorios, che sovrastavano in sonorità le buccine greche, comprese che a est il contatto coi nemici era avvenuto. Toccava a lui arginare la minaccia proveniente da occidente e da sud.

    Con un cenno richiamò i due figli, ciascuno sul proprio carro e circondato da guerrieri; la loro madre, in groppa a

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