Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I giorni dell'Elba: 25 luglio - 18 settembre 1943
I giorni dell'Elba: 25 luglio - 18 settembre 1943
I giorni dell'Elba: 25 luglio - 18 settembre 1943
E-book497 pagine7 ore

I giorni dell'Elba: 25 luglio - 18 settembre 1943

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Carmine Perrino, 20 anni, fante mitragliere nel Regio Esercito, precipita come tanti nel vortice terribile dei “quarantacinque giorni” cruciali della storia italiana contemporanea, dal 25 luglio all’Armistizio dell’8 settembre 1943, in cui tutto crolla: il Regime fascista, lo Stato, la monarchia, le Forze Armate e la vecchia idea di Patria inculcata nel Ventennio. Mandato in servizio sull’Isola d’Elba, considerata da Mussolini «la Sentinella dell'Impero» per le sue poderose fortificazioni, dopo l'8 settembre parteciperà al tentativo di resistenza all’occupazione tedesca, destinato a fallire dopo un bombardamento aereo terroristico germanico su Portoferraio il 16. Abbandonata l’isola, come tutto l’esercito sul continente, dal Re e dai vertici militari italiani fuggiti nottetempo a Brindisi il 9 settembre, Carmine Perrino, insieme agli altri 8000 militari del presidio elbano, sarà fatto prigioniero e deportato, il 18 settembre, nei lager del Terzo Reich, come tutti i 750.000 Internati Militari Italiani che dissero il primo «No!» all’offerta di passare dalla parte dei nazisti.
Questa vicenda romanzata, basata sulla biografia reale del protagonista e su una copiosa documentazione storica degli eventi reali narrati, scava con crudezza nell’animo di una generazione tradita e su un periodo cruciale della nostra storia, attorno al primo atto corale di Resistenza al nazi-fascismo, misconosciuto ai più e a lungo trascurato dalla storiografia ufficiale.
LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2018
ISBN9788828315025
I giorni dell'Elba: 25 luglio - 18 settembre 1943

Leggi altro di Roberto Perrone

Correlato a I giorni dell'Elba

Ebook correlati

Fumetti e graphic novel per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su I giorni dell'Elba

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I giorni dell'Elba - Roberto Perrone

    Roberto Perrone

    I giorni dell'Elba

    25 luglio - 18 settembre 1943

    I giorni dell'Elba

    Tutti i diritti riservati

    2018 © Roberto Perrone

    La calligrafia del titolo

    e la copertina sono dell'autore.

    Contatti:

    igiornidellelba@libero.it

    UUID: e229bcee-4807-11e8-830d-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Roberto Perrone

    I GIORNI DELL'ELBA

    25 LUGLIO - 18 SETTEMBRE 1943

    Storia di un Internato Militare Italiano

    Romanzo

    A Leonardo, mio padre

    e a tutti i soldati italiani traditi e venduti da capi vigliacchi e criminali; che dall’8 settembre 1943 seppero dire il primo «NO!» a Hitler e al fantoccio di Salò, consapevoli del prezzo della deportazione, di due anni di lager e di lavoro coatto; per tanti, della vita stessa. A tutti loro che scrissero, così, il primo atto corale della Resistenza.

    PROLOGO

    – Porcodi’mmondo!

    Carmine sputa la sua bestemmia mentre il portellone del carro si chiude sbattendo furioso col suo tonfo sordo, ferro su ferro. E poi un altro colpo, due, dieci, cento, uno sull’altro rintronano come martellate nel cervello, colpi di maglio, pugni nello stomaco, per ogni carro di questo convoglio infinito stipato di sconfitti. Carmine sputa con gli altri la sua bestemmia come un veleno bilioso che sale e sbuca dal profondo ancor più oscuro del buio assoluto che si forma in un solo istante. Anche i quattro squarci di finestrelle negli angoli in alto, sbarrati con grossi tondini di ferro saldati da poco, non cacciano più dentro nemmeno l’ultimo residuo di luce della sera ormai spenta. Abortita. Quaranta paia di occhi perdono all’istante il loro potere, sotto l’odiosa sequela sibilante delle grida tedesche. Restano solo le voci, le parole scagliate come pugni impotenti su una porta chiusa, sigillata, che rimbalzano su se stessi.

    – Viaggiano di notte per paura delle bombe, questi bastardi!

    – Paura per chi? Per loro o per noi?

    – Per tutti, no? Pensa un po’ come siamo preziosi per loro! Un carico di questa merce da portare fino in Germania! Non li senti come si danno da fare, questi animali?

    – Adesso siamo noi le bestie da predare. E noi siamo solo il primo treno...

    Colpi su colpi demoliscono lo stomaco e non puoi nemmeno piegarti sulle ginocchia, pressati come sardine in piedi. Le viscere strappate come dalle grinfie di fiere affamate, le senti là fuori sbraitare, in quella lingua dura, dal suono ostile, inselvatichite fuori dalle leggi di guerra, voraci sulle prede ma con metodo, senza fretta, senza errori e distrazioni. Ogni gancio serra il suo portellone e sigilla il suo carro.

    Colpo su colpo, con metodo infallibile, un morso dietro l’altro, straziano le fibre del tuo corpo, lasciandoti però intatta la testa e tutte le tue capacità di pensiero, tutta l’insostenibile lucidità per concederti di osservarti, come fuori da te stesso, vittima del tuo stesso annientamento. Piombati vivi nelle scatole di legno di carri-bestiame, nello scenario rugginoso della disfatta di questa ferriera vuota e immensa, sotto coltri di polvere rossa rigurgitate dalle bocche dell’inferno di ferro e di fuoco, che già ti ardono in gola. In quaranta senza fiato o con un fiato avvelenato come questo coro di bestemmie, come la bestemmia di Carmine. Porcodi’mmondo! Anche questa risuona adesso nel vuoto improvviso della mutilazione, dell’oltraggio, quasi come un’involontaria preghiera. Una bestemmia, o forse è solo un’imprecazione, Carmine non sa, questa corta frase di parole fuse come il minerale duro di questa ferriera, più parole che sembrano una, dove si insinua e si cela, forse, il suono del nome di un dio, oppure no. Suoni e parole trasmesse e imparate come tante, così come s’impara, coi primi passi, a dare un nome alle cose del mondo. Un fiato, fosse anche l’ultimo, la libertà di poter dire, gridare o sussurrare, che questo è un porco di mondo, almeno.

    E ora, in questo bozzolo oscuro dove la vita si sospende, incredula e senza fiato, le senti in quaranta lingue diverse, queste preghiere di sconfitti. Incazzati. Invocazioni di una, due, tre parole, non di più. Ma ognuno riconosce i suoni delle altre, in tutte le possibili combinazioni di quegli ingredienti comuni: puta, merda, cazzo, troia, bastardi, puttana, maledetti, mondocane, porcatroia, maremmamaiala di scrofa immonda, porcodi’mmondo, rottinculo di Savoia e di Badoglio, porco di un miserabile fottuto di Mascellone, cu’ ganciu ’ncanna ti cavinu l’occhi, ’ngule acci v’è stramuert, ve possino fònne ner fòco!...

    Affiora e lievita, in una sola scheggia di tempo rappreso, di brivido e di vergogna, l’esperanto dei suoni comuni, la lingua delle viscere, delle orazioni ultime nella vita infame o nel ghigno imprevisto della morte, inutile o perfetta. E Dio, Cristo, la Madonna, le madri e le sorelle, i vivi e i defunti, i generali e gli ammiragli, i re e tutti i santi del calendario non le possono sfuggire.

    Fra gli interstizi di suoni, di puzze e di preghiere, prende forma come cosa solida, in questo limbo senz’aria che si fa torrido, un silenzio concimato da una paura livida e fredda, ma che sembra d’improvviso, a tutti questi quaranta uomini in divise lacere, la sola, l’unica cosa veramente universale che ci sia ora, in mezzo a loro, in questo errare sbandati, in tanti possibili destini precipitati, nel volgere di ore, nell’unico imbuto disperato del vuoto.

    Questo silenzio svuotato, senz’aria, è la cosa più vera, solida e reale di tutte. Anche se non lo puoi toccare, è l’unica cosa in cui puoi muoverti, condannato in piedi. L’unica così capiente in cui puoi, devi fare, perfettamente da solo in mezzo a quaranta, i conti con le cose che erano e con quelle che restano. Da soli e al buio, con la grazia di non dover riconoscere gli occhi e le facce di chi hai intorno proprio negli istanti, che si dilatano oscenamente, in cui ti ritrovi nudo, vestito solo della tua coscienza. In cerca di una qualche forza remota per reagire, per resistere. Mentre monta inesorabile la marea torbida, limacciosa dei sensi di colpa, il doppio inganno degli sconfitti. Sconfitti per mano di mendaci traditori. Quelle cose, quella vergogna di cui si può anche morire, qualcuno di loro le ha sentite dire e se le racconteranno per ore e per giorni. Ma non a vent’anni, cazzo.

    Per ora, ciascuno deve affrontare il respiro malato di paura e le puzze degli altri, puzze di sudore e di polvere e di giorni di cattività, di un sopravvivere cieco, puzze che fermentano nel fetore della paglia cosparsa sull’assito del carro, marcita da tempo nel piscio di altre bestie che vi furono. Ciascuno col tanfo delle cose andate a male della sua vita, mentre lo stomaco si erode, alla fine di tutta questa storia.

    Mogli e madri, figli e amanti, le case, i campi e le officine lasciano il posto, nel vacuo silenzio smarrito, agli ultimi giorni, alle ultime ore, a quest’isola, dove i più non avrebbero mai pensato di finire e dove invece, per loro, è finito tutto. Era finito il fascismo, almeno così ci si era illusi, perché intanto Mussolini lo hanno liberato. Sembrava finita anche questa fetecchia di monarchia e invece stai a vedere che inglesi e americani la terranno in piedi coi puntelli perché magari gli serve. E quei vigliacchi la faranno pure franca. Qui, tutti lo pensano adesso, al buio e in silenzio, qui forse finiscono le speranze, i sogni, la fiducia. Tutte cose impossibili da perdere a vent’anni. Impossibili come il pensiero della morte.

    Perché Carmine, in questo carro piombato per bestie di un treno che nemmeno sembra tale, Carmine pensa a un altro treno, quello dove cominciò tutto, quasi due mesi fa. Pensa a un’altra adunata di ragazzi in grigioverde che nemmeno sapevano dove sarebbero finiti in servizio e dove forse sarebbero andati a combattere, prima o poi, ma che ci andavano perfino allegri. Perché, al peggio che fosse andata, sarebbero morti in guerra per un buon motivo, per la patria, per il loro futuro, per una qualsiasi cazzo di idea che ciascuno di loro avrebbe potuto avere o non avere, in cui credere o non credere. Da che parte sarebbe stato giusto combattere e forse morire sembrava loro chiaro, e invece lo avrebbero capito davvero col passare delle ore, dei giorni, delle settimane. E forse, in fondo, lo sapevano già. Ma quello che ancora non sapevano era che stavano vivendo la vita degli altri, per conto degli altri. Dei traditori di sempre. I signori per nascita e quelli della guerra. E che per loro rischiavano di lasciarci anche la pelle.

    Invece eccoli qua, sono ancora vivi, nonostante tutto, sì. Ma ora sanno di essere stati venduti. Non solo l’8 settembre ma anche il 25 luglio. E, prima ancora, dalla marcia su Roma nel ’22, quando uno sciamano inetto su un trono abusivo li consegnò allo stregone più abile e in voga, perché lo temeva. E ancora indietro nel tempo, fin dall’altra guerra del ’15-’18. Già da prima che loro, i ventenni, nascessero. Adesso eccoli qua, merce viva e fresca da deportare. L’ultima delle generazioni vendute. A poco prezzo. La generazione chiusa ora in questi carri, senza viscere e senz’aria, senza futuro, senza luce. La generazione delle bestemmie, dei porcodi’mmondo.

    Ma su un altro treno, in quei giorni di due mesi fa, erano allegri e spavaldi nonostante tutto, nonostante gli angloamericani fossero già sbarcati in Sicilia da quindici giorni. Ignari e allegri ma non incoscienti, non irresponsabili, solo perché rifiutavano istintivamente, allora come ora, l’idea della morte. Ignoranti del solo pensiero della morte. Era obbligatorio, naturale, essere ottimisti e fiduciosi. Fiduciosi nei loro vent’anni.

    I GIORNI DELL'ELBA

    PARTE PRIMA

    Da un mare all'altro

    24 luglio 1943

    Sabato

    Ancona, Caserma Villarey, 93° Reggimento Fanteria Messina.

    Almeno è finita con queste guardie pesanti fra la polveriera e il porto!

    Carmine rimugina sui mesi passati qui ad Ancona. E sì che non dovrebbe lamentarsi più di tanto. Ma da quindici giorni gli angloamericani sono sbarcati in Sicilia. E i nervi si sono scoperti per tutti. E pure tutte le piccolezze, le meschinità e le prevaricazioni che dentro una caserma sono già legge non scritta. Da sempre. Ma che dal 10 luglio hanno libero corso senza remora alcuna, con sfacciataggine, con brutale indifferenza. Anche il colonnello in questi giorni passa di fretta, col viso scuro e tanto di muso. E buona parte degli ufficiali del comando sembrano leoni in gabbia che schiumano astio rancoroso, girandogli intorno. Poi si sfogano con gli ufficiali più bassi in grado, che qui sono rimasti in pochi, tanto quelli in Servizio Permanente Effettivo che quelli di complemento. Così tutto si scarica su sottufficiali e graduati. E questi naturalmente si rifanno sulla truppa.

    Il fatto è che gli ufficiali più vicini al regime si sentono smottare il terreno sotto i piedi, e quelli più furbi si attrezzano per apparire più monarchici di quanto non siano stati fino al giorno prima, non fosse che per il giuramento che hanno prestato al re e alla bandiera dei Savoia. Si potrebbe pensare che lo sbarco in Sicilia li abbia un po’ rabboniti. Manco per idea! Anzi, già un mese fa, quando attaccarono Pantelleria, i brividi correvano sulle loro schiene e le facce cominciavano a scurirsi. E pure i cazziatoni, le punizioni e le vendette dei graduati. A cascata. Poi, i peggiori sono passati dal noto repertorio di parole, gesti e pose tipico della protervia fascista all’incarognimento da militari travestito da efficienza, rigore e disciplina. Tu vai a lamentarti dal capitano? Giù gavettoni e a pulire i cessi!

    E pensare, si dice Carmine scuotendo la testa, che proprio da questa caserma nel ’20 i bersaglieri si ammutinarono per non finire ingoiati in un’altra delle tante guerre coloniali! In quei giorni di giugno la Villarey diventò un fortino, covo di anarchici, socialisti e sindacalisti rivoluzionari, che riuscirono a paralizzare mezza Italia mentre da Roma cercavano di far arrivare truppe fedeli per stroncare la rivolta. Che fu stroncata, certo, ma a colpi di cannone sulla città, seminando terrore e morti, dalla cittadella e dalle navi da guerra arrivate e appostate al largo del porto.

    Perché insomma, pensa Carmine, da quando Morozzi se n’è andato, i fascisti hanno rialzato un po’ la testa, alla Villarey, ma è durata poco. Fino allo sbarco del 10.

    Anche a lui ora corre un brivido sulla pelle, un moto di rammarico profondo, emozionato, mentre ripensa a Morozzi, il maresciallo fra i decani del reggimento, che ha fatto l’altra guerra e che nel ’20 c’era, durante la sommossa. E che li teneva, loro giovani reclute, tutti incollati alle sedie ogni volta che raccontava quella storia, nell’osteria giù in piazza le sere di libera uscita, quando ci si metteva d’accordo per vedersi, perché lui ha famiglia qui ad Ancona e ora se la gode, dopo la sospirata pensione arrivata due mesi fa.

    Ripeteva quella storia ed era anche bravo a raccontarla sempre con l’aggiunta di nuovi particolari, stimolato dal fatto che ogni volta c’era qualche nuova recluta che si univa al solito gruppo, per lo più fatto di meridionali ma anche di anconetani e altri marchigiani, quelli più interessati alla politica. Una comitiva senza filofascisti, insomma. E ora tutti sono convinti che quelli che stanno facendo partire per la nuova destinazione li stiano pescando soprattutto in mezzo a loro, a quelli che fanno politica , come si sente dire in caserma; anche se Carmine non si è mai considerato tale, lui contadino, che è sempre stato lontano da queste storie, finché ha potuto, sempre gettato fuori [ ¹] a lavorare per campare, alla masseria giù alla marina oppure alla quota, [ 2] beccandosi pure la perniciosa , [ 3] a differenza di quei fanatici in camicia nera che se ne vanno spadroneggiando in mezzo al paese. Però, dovendo scegliere, in caserma ci ha messo poco a star lontano da quella genìa. Chi se ne frega se lo prendono per un politico pure lui... meglio quello che con i fascisti! E poi gli altri sono tutti bravi ragazzi. Anche se tutti si lasciavano suggestionare dalle storie di Morozzi, non hanno grilli per la testa.

    Per non parlare di quando Morozzi ricordava la settimana rossa nel ’14! Carmine se lo ricorda, sedendosi al fresco del porticato sul lato sud, dove il sole gira prima, con l’odore di salato del mare che risale le scarpate del gomito a strapiombo, portato dal grecale che arriva dall’Adriatico.

    E anche di quella settimana del ’14, a giugno, – e sempre di giugno è successo, guarda poi! – il vecchio diceva che in quei giorni non era di servizio in città ma aveva sentito tutti i racconti di chi c’era stato in mezzo; e comunque in tutte le Marche e nella Romagna e poi in Umbria e in Toscana e via via per cento città, dal nord a Meridione, la fiammata rivoluzionaria incendiò per sette giorni tutta l’Italia.

    – Ma il ’20, ragazzi... Ah, il ’20 fu una cosa memorabile! – si lasciava prendere dall’emozione Morozzi ogni volta.

    Perché insomma tutto questo qui ad Ancona si respira per le strade, nei racconti della gente, nelle foto d’epoca incorniciate e appese in tutti i bar e le osterie, per non parlare delle sezioni sindacali, soprattutto quelle dei portuali e dei ferrovieri, le categorie di operai da sempre più attive in città e che hanno difeso sempre quelle foto e quelle memorie a costo delle solite sprangate nelle spedizioni punitive degli squadristi che ogni volta sfasciano tutto. Ma adesso hanno abbassato parecchio le penne, quei vigliacchi.

    Anche per questo qui ad Ancona Carmine ci si è trovato bene, e anche alla Villarey, almeno finché c’è stato Morozzi. Perché era proprio lui il perno che teneva in equilibrio il passato col presente. In città è ormai un’istituzione. Con pochi altri, ne esprime ancora l’anima libertaria , come diceva lui, nonostante questa apparente contraddizione che si portava dietro, quando era in servizio, e tutti glielo chiedevano prima o poi, durante o alla fine di quelle lunghe rievocazioni davanti a una birra in osteria:

    – Ma Morozzi, ci fai capire come ha fatto un anarchico come te a rimanere nell’esercito?

    E lui partiva con le sue risposte interminabili, che sono rimaste vere lezioni di politica per tutti loro.

    – Ma fummo grandi, ragazzi, fummo grandi nel ’20 – concludeva i suoi racconti il vecchio maestro – anche se quell’altra carogna di Salandra non esitò di certo, aizzato dalla paura del Savoia, a mandare le navi a bombardare la città, porco giuda! Perché ragazzi, non dimenticatelo mai: con tutte le buone intenzioni, a cui non si può certo credere, lo Stato è sempre violento . È proprio nella sua natura, capite? Ah, ma fummo grandi, sì!...

    Questo, sì, era Morozzi. Carmine si accende un’altra sigaretta mentre torna a guardare in alto il cielo stellato nel quadrilatero della caserma.

    Resta la soddisfazione, sì, e anche l’orgoglio, di essere passato da una caserma con una storia così.

    Ora c’è questa 215^ divisione costiera, Elba-Piombino, di cui hanno parlato in questi giorni, ma senza dire più di tanto. Si sa solo che è una divisione nuova in cui riorganizzano le forze in quel tratto sul Tirreno, per il rischio di altri sbarchi degli agloamericani in quell’area strategica, fra la Corsica e il continente e fra sud e nord.

    Ieri mattina il colonnello li ha riuniti tutti qui nel piazzale per informarli e salutarli, garantendo che devono sentirsi onorati di andare in servizio in una zona considerata territorio di guerra, così importante per la difesa della Patria, e tante altre cazzate. Per questo, dalle regioni vicine stanno rastrellando il maggior numero di uomini non strettamente necessari alla difesa territoriale, pescando anche fra i servizi vari, la sussistenza, gli autoservizi eccetera. E ci sono i richiamati dell’ultima ora, gli scaglioni di mezzo del ’23 o quelli, come Carmine, trattenuti per vari motivi nelle caserme o in convalescenza.

    Perciò, cosa pensare? Che a loro che partono domani va anche bene, visto che il grosso del reggimento è al fronte proprio qui davanti, in Jugoslavia. Da quello che si sente dire qui in caserma, là non se la passano certo allegramente, a stanare i partigiani titini per conto dei tedeschi! Da lì arrivano solo brutte notizie e feriti. I morti non te li fanno nemmeno sapere, questi cazzoni...

    Carmine fa l’ultimo tiro alla sua sigaretta e spegne la cicca sotto lo scarpone.

    Alcuni dicono: – Cacchio, ragazzi, se andate all’Elba, sai che pacchia! Pare che su quell’isola non succede mai niente!

    Ma lo dicono i più anziani che restano qua, per incoraggiarli. E di solito è Pavone, l’amico di Carmine, il compaesano Minguccio Pavone che risponde, col suo solito, amaro disincanto: – Sì, non è successo niente, fin’ammò [4] ...

    [1] In campagna.

    [2] Piccola porzione di terreno coltivabile assegnata ai contadini nullatenenti a seguito delle suddivisioni dei demani, comunali e feudali, di fine ’800.

    [3] Modo comune, nel Meridione, di indicare la malaria.

    [4] Finora.

    25 luglio 1943

    Domenica

    All’alba, la Villarey comincia a scuotersi dal sonno quando Carmine scende nel grande cortile che fa da piazza d’armi. Attraversandolo sente l’eco sorda dei suoi passi come il ticchettio di una sveglia, come se sentisse suonare l’avviso per qualcosa che sta per cambiare, che è l’ora di lasciare questo posto e questa città. Guarda l’orologio, pochi minuti alle cinque.

    All’ingresso c’è già movimento intorno all’ufficiale di picchetto, il sottotenente Salvagni, uno di quelli fissati con l’ordine e la disciplina ma che ha un po’ abbassato la cresta. Fuori, davanti all’ingresso, un camion telato riscalda i motori mentre vi caricano di peso, da un carrello campale, una mitragliatrice Fiat Modello 35 e due fanti salgono con il loro fucile mitragliatore Breda Modello 30.

    – Ti sei alzato col pensiero, Perrino! Ci vuoi proprio lasciare, eh?

    – Eh, signor tenente, fosse per me...

    – Sì, sì, lo so, voi ve ne tornereste tutti a casa, vero? Tanto vedrai, tempo tre-quattro mesi e sta guerra la facciamo finire noi! Lascia che scendano dalla Germania un’altra dozzina di divisioni tedesche a darci una mano e gli angloamericani li ributtiamo a mare, li ributtiamo!

    – Tenente, ma quelli dove vanno armati?

    – Come dove vanno? Vengono con voi! Cavolo, avete pure la guardia armata! Non lo sapevi? Sì, forse non ve lo hanno detto. Portano subito il pezzo alla stazione per piazzarlo su un carro in tempo per la partenza. Hai portato i tuoi documenti?

    – Sì, la fureria era ancora chiusa...

    – Infatti, Randazzo è sempre il solito! Ancora non arriva con tutte le carte, porca puttana!

    Fuori, il camion con la scorta e la Fiat sul cassone si avvia giù per il porto. Ne arriva subito un altro sul portone, forse quello destinato a loro.

    In pochi minuti, alla spicciolata, arrivano tutti gli altri che sono in partenza. Ecco l’amico di Carmine, Domenico Pavone, di un paese pugliese vicino al suo, Ginosa, nella provincia tarantina. Un bonaccione sempre con la battuta pronta, che lui chiama Minguccio, come si usa da quelle parti. Con lui è Mario Sigillino, marchigiano di Jesi. Dietro di loro arrivano il caporalmaggiore Augusto Fistetti, di Foligno, e il sergente Filippo Mele, un altro pugliese di Brindisi. Pavone è sempre di buon umore.

    – Buongiorno ragazzi! Beh, allora si parte! Andiamo a farci un giro!

    Il sottotenente Salvagni si innervosisce per il ritardo del furiere della maggiorità, deve portargli tutti i documenti.

    – Porca miseria, qualcuno vuole andare a tirare giù Randazzo dalla branda, per favore! Chiamatemi Randazzo, perdiana!

    Fistetti si offre volontario, ma vedono il furiere arrivare di corsa con l’affanno.

    – Ecco Randazzo , signor tenente, sta arrivando! – avvisa Fistetti. Dietro di lui si vedono, trafelati, anche Barberi, toscano, e il siciliano Terenzi, seguiti dal caporalmaggiore Fini e da Rosoni, della maggiorità, entrambi romagnoli. Per ultimo, il sergente maggiore Argentieri, abruzzese.

    – Randazzo, Randazzo, come stavi sognando stamattina, dì la verità! – dice sornione Pavone accogliendo il sergente maggiore che si infila nel gabbiotto della portineria e si becca il cazziatone da Salvagni.

    – Randazzo! Ma te la vuoi regolare quella cazzo di sveglia la mattina o no? Ma dove cazzo credete di essere tutti quanti, nell’hotel cinque stelle Villarì? – sbotta l’ufficiale di picchetto storpiando come sua abitudine il nome della caserma. – E per favore voi altri, tenete in ordine quegli zaini!

    Fra i ritardatari, ecco Fantoni, che per tutti gli altri è l’unico vero fuori-posto nel gruppo, per le sue simpatie col regime; poi Bastelli, molisano, un altro simpaticone, e Parisi, anche lui pugliese di Lecce.

    – Ehi, manca ancora Panizza! – segnala Pavone. Ma eccolo che arriva pochi istanti prima che si vedano spuntare i tre ufficiali a capo del gruppo: il tenente Marchetti, l’accompagnatore responsabile del convoglio, che rientrerà a missione conclusa, e i sottotenenti Donatoni e Nava, entrambi provenienti dalla vicina Umbria, destinati al trasferimento. Li seguono a pochi passi, arrivati dall’armeria, anche quattro dei sei incaricati della scorta armata, con il mitragliatore Breda sulle spalle. Gli altri due sono quelli già scesi al porto col primo camion. Il sergente Mele mette tutti in riga e sull’ attenti.

    Ormai è giorno, il cortile si anima in preparazione dell’alzabandiera.

    – Buongiorno ragazzi. Salvagni, tutto pronto?

    – Sì tenente, Randazzo sta completando la registrazione, aspettavamo voi.

    – Il pezzo è già stato portato in stazione?

    – Signorsì tenente, venti minuti fa col sottotenente Alvisi e le altre due guardie.

    – Bene. Tenente – dice rivolto a Donatoni – ecco l’elenco, faccia l’appello.

    Marchetti, pur conoscendoli, osserva uno a uno gli uomini in partenza controllando i loro dati: grado, compagnia, incarico. A parte i fucilieri Fantoni e Panizza, gli altri otto soldati semplici e i quattro graduati sono tutti mitraglieri e con un buon numero di sessioni di tiro al poligono di reggimento, sui fianchi del Monte Conero. Poi Donatoni fa i nomi dei sei di scorta armata, sui quali il tenente li informa.

    – Bene ragazzi, ora dobbiamo correre in stazione ma volevo solo dirvi di loro che fanno da scorta armata. In teoria non sarebbe necessario ma siamo in guerra e l’unico pericolo per ora sono i bombardamenti aerei degli angloamericani. Per quelli né i Breda né la Fiat possono fare granché, tuttavia, per un viaggio così lungo che ci porterà fino a Piombino, dall’altra parte dell’Italia, è meglio essere pronti per qualunque evenienza. In stazione e sul treno vi saranno dati altri dettagli operativi. Adesso, tutti al pennone e poi veloci sul camion sennò rischiamo di fare tardi. Rompete le righe!

    Dopo l’alzabandiera e il congedo formale, quando il camion si muove, carico di tutto il gruppo, Randazzo e Salvagni si affacciano ancora sul portone agitando la mano.

    – Ciao Randazzo! Porca puttana, ciao, stammi bene! – grida Barberi con voce un po’ rotta, passandosi la mano sugli occhi.

    – Oh Barberi, che fai, ti emozioni? – gli dice Sigillino.

    – Ciao novantatreesimo! – dice Pavone, l’armiere della quarta compagnia, la stessa di Carmine.

    – Ciao Villarey! Ciao Ancona! – gridano Terenzi e Panizza.

    – Sì, però, vaffanculo Salvagni! – aggiunge deciso Bastelli, che guarda subito il tenente Nava. – Tenente, mi dovete scusare, ma quando ci vuole ci vuole!... – L’ufficiale stringe le labbra in una smorfia se non di approvazione, di comprensione.

    – E addio Morozzi, che sta da qualche parte in città! – dice Panizza rivolto al vuoto indistinto.

    – Ma smettila con quel comunista del cazzo! – risponde serio Fantoni, il fascista del gruppo, che non rinuncia alle sue pizzicate. Tutti lo guardano di traverso, rinunciando all’ennesima polemica, almeno adesso che si parte. Ma tutti pensano che sarà dura sopportarlo fino a Piombino.

    Il camion imbocca la discesa verso il centro, inseguito da una brezza ancora fresca da Levante che viene giù dal Monte Cardito. Le strade sono ancora quasi deserte, anche perché è domenica. Sul lungo corso Garibaldi che scende al porto, lo stradone si allunga alla vista dei ragazzi seduti sulle panche del cassone, nella strana prospettiva che si alza e sfugge di fronte a loro nel verso opposto. È come se sgusciasse via quel pezzo di città, come se fosse tutta la città, isolato dopo isolato, quartiere dopo quartiere, a lasciare loro, allontanandosi.

    Carmine, fra le chiacchiere scanzonate degli altri, si chiede quando il fronte, dalla Sicilia, arriverà anche dalle parti di casa sua. Chissà come se la passano i vecchi. E Nicola e Vincenzo, i due fratelli più grandi al fronte in Grecia.

    Al porto il camion svolta a destra verso la stazione e il mare si apre alla loro vista, calmo. La solita animazione sulle banchine. Operai, soldati e familiari dei soldati. Perché qui riportano a casa quelli feriti nei Balcani e in Grecia, insieme ai morti. Ma di quelli i giornali non parlano. Molti feriti vengono portati a curarsi al Lazzaretto , che fa da ospedale militare e dove in tanti, rientrando in patria, fanno la quarantena. La vecchia, possente ed elegante fortezza pentagonale, disegnata da Vanvitelli nel ’700, è immersa nell’acqua, in un lato del porto, proprio per isolare già da allora gli appestati che giungevano dalle rotte d’Oriente.

    Non è cambiato niente, si dice Carmine, tanto ci sono e ci saranno sempre appestati da sistemare... se non ci pensa il colera o il tifo o la malaria ci sono sempre le guerre a fare nuovi appestati...

    Carmine guarda quella fortezza nell’acqua e ripensa alle lunghe settimane che anche lui ha passato là dentro, appena arrivato dall’altro ospedale militare, quello di Bari, per i sintomi persistenti dovuti alla malaria. Anche se in forme benigne e non debilitanti. Il rovescio della medaglia, la malaria, per chi lavora la terra, come lui giù alla marina del paese. Anche se hanno ormai completato le bonifiche. Ma ci vuole tempo.

    Nel piazzale della stazione c’è qualche corriera e un discreto movimento di civili, anche di domenica. Molti cercano un riparo in campagna, dai parenti e in piccoli paesi. I bombardamenti aerei degli angloamericani non risparmiano i civili, nelle città più grandi, soprattutto dove è maggiore la concentrazione di truppe. « Terrore! Puro Terrore! » diceva Morozzi, « anche se è per aizzare la gente contro il regime». Ma a che prezzo, si dice Carmine, quegli altri imbecilli!

    Su un lato della piazza c’è anche una camionetta con quattro tedeschi armati e un sottufficiale. E qualcuno sarà sicuramente anche dentro. Sono pochi ma anche loro ci sono, a controllare sempre tutto.

    All’interno, su un binario morto, i soldati raggiungono il treno pronto e riservato a loro. Sul marciapiede li attendono già, coi loro zaini, una quarantina di commilitoni di fanteria arrivati da altri distretti e reparti, sempre in treno.

    Quando Marchetti torna fra loro, li passa in rassegna e si fa il solito appello con nomi, reparti e luoghi di provenienza. Donatoni chiama.

    – ...5° reggimento Aosta e 230° reggimento Piceno da Ascoli ... 84° Venezia di Falconara, deposito del 91° di Fermo... – Scorrono i nomi di Foggia, Ascoli, Fermo, Macerata, Pescara, da Sud; Fano, Pesaro, Cesena, Rimini e persino Bologna da nord.

    – Però, hanno fatto una bella rastrellata! – mormora Pavone a Carmine.

    Marchetti li istruisce.

    – Allora ragazzi, ci siamo tutti per ora, sentitemi bene, stiamo per partire. Ora vi sarà assegnata la vostra carrozza e delle cinque disponibili occuperete comunque le prime, perché ancora altri commilitoni si uniranno a noi lungo il percorso. Adesso siamo cinquantasei uomini più sei di scorta, all’arrivo dovremmo essere un centinaio. Immagino sappiate tutti che siete destinati ad entrare in forza nella 215^ divisione costiera e il nostro punto di arrivo è Piombino, dove è previsto che giungeremo domani pomeriggio. Da lì poi ciascuno di voi sarà assegnato al proprio reparto. Io ho avuto l’ordine di accompagnarvi e sono quindi responsabile di tutto il convoglio. I sottotenenti Donatoni e Nava – il tenente li indica al suo fianco – mi coadiuveranno e i graduati sono pregati di fare riferimento a loro per ogni necessità. Vi prego di mantenere un contegno adeguato. Nel treno ovviamente c’è libertà di movimento ma ciascuno prenda nota del posto assegnatogli perché sia pronto a raggiungerlo al minimo richiamo da parte dei superiori e a restarvi soprattutto nelle ore notturne. Durante le quali, già dal tramonto, è vietato accendere le luci tranne quelle azzurrate, e tutti gli altri accorgimenti necessari durante l’oscuramento che voi conoscete bene. A cominciare dalle sigarette. Sarò molto severo con chi verrà trovato a fumare senza aver schermato a dovere i finestrini! Il viaggio sarà lungo e ricordatevi che siamo in guerra e i nemici ogni tanto sganciano confetti, soprattutto sulle linee ferroviarie, quindi per cautela il treno può fermarsi in qualunque momento e in tal caso, fuori dalle stazioni, mantenere la calma assoluta e attendere ordini, senza affacciarsi dai finestrini e creare confusione. Come avete visto, i tedeschi li possiamo trovare dappertutto, specialmente nelle stazioni più grandi. E siccome tocca a me avere a che fare con loro, siete pregati di non rompere le scatole e di evitare commenti di qualsiasi tipo quando li vedete. Non fate l’errore di credere che tanto non capiscono l’italiano! Chiaro? In testa e in coda al convoglio ci sono ragazzi armati di scorta che avranno da fare i turni sulla mitragliatrice e quindi cercate di favorire il loro riposo. Riguardo al cibo, avete delle gallette con voi, ma nelle stazioni più importanti vi sarà dato da mangiare, mentre l’acqua immagino l’avete con voi in borraccia. E poi, sentite, l’ultima cosa ma è la più importante: qualcuno di voi può avere la tentazione di saltare giù da qualche parte e svignarsela. Ve lo dico subito e senza incertezze: per il vostro bene, lasciate perdere! Non mettetemi nella condizione di fare cose che non vorrei fare. Siamo in stato di guerra e anche se non siamo al fronte in casi estremi sono autorizzato ad usare le armi. Per bene che vi vada vi aspetta il tribunale militare di guerra, il carcere militare e il marchio di infamia a vita. Non vi conosco tutti ma do per scontato, anzi, sono sicuro che siete tutti bravi ragazzi e non avete in testa simili pensieri. Ma dovevo dirvelo. Infine, mi raccomando, non intasate i cessi ed evitate di usarli quando entriamo nelle stazioni. Bene, sono stato chiaro?

    Segue un mormorio confuso di risposte affermative.

    – Non ho capito bene! Sono stato chiaro?! – ripete quasi gridando il tenente.

    – Signorsì, signor tenente! – è la risposta corale e forte che Marchetti cercava.

    – Bene, appena sistemati tutti i graduati vengano nel mio scompartimento, nell’ultima carrozza, per altre comunicazioni. Potete salire, rispettando l’ordine che vi viene indicato.

    Secondo le posizioni assegnate, in pochi minuti tutti sono sul treno che finalmente muove, allo sbattere dell’ultimo sportello e dopo il fischio del capostazione, mentre negli scompartimenti c’è subito confusione sui posti e l’ingombro degli zaini.

    – Addio Ancona! – si sente nella prima carrozza. È Terenzi.

    – Caspita, oh, teneteli aperti sti finestrini che già non si respira dal caldo! – irrompe Barberi.

    – Terenzi, però non rompere con queste sigarette, di primo mattino, cavolo! – si lamenta Sigillino.

    – Uffa, mi metto qua sul finestrino, va bene?

    – Sì va bene – interviene Rosoni – però ragazzi, davvero non mettetevi a fumare tutti insieme per favore!

    – Oh, lasciatemi lo spazio per i piedi eh? Fatemi dormire, tanto ci sono dieci posti liberi! – esclama Pavone.

    – Pavone stai calmo perché tanto si fa a turno per stendersi, è chiaro no? – lo riprende Terenzi, affacciato al finestrino a fumare.

    – E perché, Mingù – interviene Carmine alle sue spalle – ti metti già a dormire?

    – Dai Pavone vieni qua che ci facciamo un tressette! – dice Sigillino, al fianco di Carmine. – Comunque siamo partiti con sette minuti di ritardo, con il nostro Marchetti. O no? Tu Perrino che ore fai?

    – Io? – Carmine guarda il suo orologio, a cui è molto affezionato, regalo del suo compare di cresima, Ciccillo Margiotta, il gualano della masseria dove lavorava. – Ora sono le 6,45 – dice.

    Le 6,45 di domenica 25 luglio 1943.

    Si chiacchiera fra sigarette, carte e canzoni. Superata poco fuori Ancona l’ultima stazione sul mare, il treno riparte staccandosi subito dalla costa e, lasciando il mare alle spalle, con una lunga curvatura a ovest si infila nell’entroterra verdeggiante, sul lato di una vallata fluviale. Nelle ampie spianate si insinua la pista animata dell’aeroporto militare di Falconara, da cui si stanno alzando alcuni aerei.

    – Ricognitori tedeschi! – dice a colpo sicuro Terenzi, che avrebbe voluto entrare in aviazione. – Sicuramente vanno a fare un giro in Croazia. – È uno Stuka, mi pare... Junker 58... Insieme agli Arago e agli Heinken sono i migliori aerei in circolazione, ragazzi, c’è poco da fare!

    – Sì, lo sappiamo – interviene Sigillino. – Anche i Messerschmitt. La meccanica che hanno loro non ce l’ha nessuno... Hanno le armi migliori i crucchi!

    In un’altra mezz’ora si raggiunge Jesi, la città di Sigillino, dove altri due ragazzi in divisa, raggiunti da Marchetti sul marciapiede, si aggregano al convoglio. Poi si riparte.

    Col passare delle ore molti vagano fra gli scompartimenti in cerca di un angolo più tranquillo per sfuggire alle chiacchiere rumorose e al fumo delle sigarette. Carmine va a sistemarsi nello scompartimento riservato ai graduati, che è mezzo vuoto, chiedendo e ottenendo il permesso dal sergente Mele. Chiude bene le tende ai finestrini e cerca di appisolarsi, guardando il suo orologio. Sono le 9.00. Ripensa a Giacchino il gualano, che glielo regalò per la cresima. E ai suoi, a casa, a sua madre. Ai suoi fratelli al fronte: Nicola è sull’isola di Zante, in Grecia, in un presidio piuttosto tranquillo, ha fatto sapere, e che non è molto lontano dall’Italia. Vincenzo invece è più lontano, su un’altra isola di cui non ricorda il nome, ma vicino alla Turchia. In caserma l’aveva vista, la Turchia, su una carta geografica. – Minchia però, quant’è lontana! – si disse.

    E sua madre, Natàlia, lei cosa dovrebbe dire, con tre figli maschi sotto le armi? La vede sempre seduta al suo telaio, quando non è in cucina. La chioma candida di capelli lunghissimi scolpiti ogni giorno nella treccia annodata sulla nuca. E tesse, tesse, quella donna abituata fin da ragazza al silenzio e alla solitudine, accompagnando suo padre nei boschi e nelle selve a fare la carbonella. Faticoso e anche pericoloso, il mestiere del carbonaio, perché a quei tempi, a fine ’800, erano cose quasi quotidiane gli incendi appiccati dai contadini per usurpare i demani comunali. Suo padre la salvò due volte dalle fiamme. Oppure erano le fiamme appiccate dalla Guardia Nazionale per stanare le tane degli ultimi briganti che vagavano ancora fra le selve petrose e spinose delle Murge, dopo le mattanze dei piemontesi nella lunga guerra alla resistenza del Sud, prima che se ne impadronissero. Natàlia vide qualche volta aggirarsi quei fantasmi, ormai ombre di se stessi, gli eredi delle bande di Pizzichicchio, di Coppolone, di Ninco Nanco... Natàlia, il vero uomo di casa, col marito sempre fuori , disinteressato della famiglia. Lei si è sempre fatta obbedire dai figli e dal marito con poche parole e soprattutto col suo sguardo all’occorrenza tagliente, senza appello.

    Il suo sguardo, ah!, il suo sguardo... quello è lo stesso sguardo tagliente e con gli occhi chiari che mamma ha passato a me, si dice Carmine.

    Tra un sobbalzo e l’altro del treno, senza riuscire a prendere un sonno vero, con l’aria afosa e il puzzo del carbone bruciato dalla locomotiva, Carmine ripensa a Ciccillo il gualano, il suo compare di cresima, che sta vicino alle vacche per scampare a qualche zanzara in più e con la malaria ci convive benissimo! Come la maggior parte dei cafoni come noi... Ma lui è quasi vecchio, ormai. E noi, invece? Cazzo, passare dalla malaria alla guerra!... È proprio una scalogna, la scalogna dei poveri cristi! Tutto perché sti generali italiani non hanno le palle per metterlo da parte, quell’imbroglione di Mussolini, di farlo fuori! Aveva ragione Morozzi, c’è poco da fare. « Alla fine sono sempre i militari a fare la differenza – diceva. – Il Parlamento, il Governo, contano fino a un certo punto. È il potere dei cannoni e del denaro che conta, ragazzi. Generali e finanzieri che speculano, sono quelli che si tengono a braccetto. Il resto sono chiacchiere. Non basta quello che ci ha insegnato la guerra? Ma non vede chi non vuol vedere, chi ha le mani in pasta, chi ha il suo tornaconto... E poi non dimenticate che dietro di loro ci sono i veri parassiti che sopravvivono grazie a questo: le monarchie, gli aristocratici. Cioè i tiranni a sbafo, come li chiamo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1