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L'imperatore dannato
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E-book566 pagine8 ore

L'imperatore dannato

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Info su questo ebook

«Avvincente e originale, crudo ma estremamente poetico.» Anthony Riches

Autore del bestseller L’ultimo pretoriano

37 d.C. l’imperatore sta morendo. Nessuno sa quanto tempo gli resti da vivere, ma la lotta per il potere è già cominciata. Quando Tiberio, sempre più debole, investe Caligola del titolo imperiale, sperando di ristabilire l’ordine, non sa che sta decretando l’ascesa di uno dei tiranni più malvagi della storia. Il ragazzo spensierato di un tempo si trasformerà presto in un uomo astuto e calcolatore. Costretto a difendersi dai complotti dei suoi alleati politici, a guardarsi dai tradimenti di amici e familiari più stretti, Caligola diventerà a poco a poco un imperatore cinico, astioso e vendicativo: ogni traccia del ragazzo timido e gentile di un tempo è scomparsa. E lentamente – mentre la sua violenza aumenta – il contatto con la realtà si fa sempre più debole. C’è un’unica decisione da prendere, se non si vuole che la grandezza di Roma venga irrevocabilmente compromessa…

Un autore da oltre 1 milione di copie

Un fratello amorevole.
Un imperatore vendicativo.
Un’anima tormentata.

«Avvincente e originale, crudo ma estremamente poetico. L’autore ci offre una visione del tutto nuova del mito di Caligola, che porterà il lettore a mettere in discussione tutto ciò che sa su quel periodo storico.» 
Anthony Riches

«Caligola come non lo avete mai visto. Un racconto potente dalla penna di uno dei più grandi autori di romanzi storici in circolazione.»
Kate Quinn

«Un nuovo avvincente punto di vista su una storia che credevamo di conoscere.»
The Times
S.J.A. Turney
Vive con la moglie, i figli e un serraglio di animali nella campagna nel nord dello Yorkshire, cercando di districarsi tra giocattoli, ululati e caffè per scrivere le sue storie. Ama la campagna, la storia e l’architettura e passa la maggior parte del suo tempo libero viaggiando alla scoperta di siti archeologici. Dopo esperienze lavorative da informatico e da addetto vendita di macchine, adesso si dedica alla scrittura a tempo pieno e ha all’attivo oltre venti romanzi. Dopo L’ultimo pretoriano, torna a pubblicare con la Newton Compton con L’imperatore dannato. 
LinguaItaliano
Data di uscita13 dic 2018
ISBN9788822728937
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    Anteprima del libro

    L'imperatore dannato - S.J.A. Turney

    parte prima

    I FIGLI DI GERMANICO

    Colui che nacque sul campo e crebbe tra le braccia del suo Paese,

    diede sin dall’inizio il segno che era destinato a governare.

    Plinio, citato in Svetonio, Vita di Caligola

    i

    CENERI E UN CUORE VUOTO

    Mi chiamo Giulia Livilla, figlia di Germanico e sorella dell’imperatore Gaio, che chiamavano Caligola. E se volessi dare a questa storia un inizio sensato, allora dovrei cominciare con il mio primo ricordo di lui.

    Mio padre, il grande generale conquistatore prediletto di Roma – se non del suo imperatore – aveva trascorso un anno in Siria come governatore prima che lasciasse alquanto all’improvviso questo mondo per via di una malattia. O del veleno dell’imperatore come alcuni, tra cui mia madre, vorrebbero farvi credere. Non ho ricordi di quella terra polverosa, naturalmente. Ero ancora una bambina piagnucolosa quando mio padre morì e mia madre prese i suoi figli e tornò a Roma, con le ceneri del marito e il cuore vuoto.

    Così venni a Roma con gli altri, tra le braccia di mia madre, nell’anno dei consoli Silano e Balbo – un corteo funebre che tornava da terre lontane in una città afflitta da un imperatore malvagio. Sbarcammo a Ostia e proseguimmo per Roma, dove attraversammo la città a passo solenne, una famiglia a lutto in mezzo alla folla gemente che si era riversata in strada per vedere l’amato Germanico tornare a casa per l’ultima volta. Eravamo taciturni e cupi, Drusilla e Agrippina, Gaio e io, nostra madre e i numerosi schiavi e assistenti. Ero ancora piccola, naturalmente, per formare ricordi reali e una sola immagine è tutto ciò che ho di quel giorno: mio fratello che prendeva tra le braccia nostra sorella Drusilla, per risparmiarle gli stanchi giovani piedi, e la portava attraverso il Foro sotto un magnifico arcobaleno, quasi assurdo nel cielo blu.

    Un piccolo scorcio di una vita fa: un arcobaleno, folla chiassosa, una sepoltura e mio fratello nel suo momento migliore.

    Passarono quattro anni, durante i quali vivemmo a Roma come una grande, placida – anche se non sempre armoniosa – famiglia. Oltre alla ricca dimora che avevamo sul Palatino, dove mio padre era cresciuto, mia madre possedeva anche una villa ben arredata con ampi giardini sulla sponda opposta del Tevere, con vista sul mausoleo che ospitava le ceneri della nostra famiglia, ed era questo luogo semi-rurale che mia madre prediligeva. Mi piaceva pensare – probabilmente nel mondo infantile e ingenuo di una bambina di cinque anni – che fosse perché desiderava trascorrere il resto della vita vicino al luogo in cui riposava suo marito. Agrippina e Caligola, entrambi più perspicaci e intuitivi di me, sostenevano che il vero motivo era la sua convinzione che Tiberio avesse ordinato la morte del marito e il rifiuto anche solo dell’idea di vivere sul Palatino vicino a lui.

    A cinque anni, ero contenta dei grandi giardini e dell’aria relativamente pura su quel lato del fiume, lontano dal fetore estivo delle affollate strade di Roma. Man mano che mi trasformavo in una bambina felice, che giocava con i cuccioli di cani da caccia della tenuta, presa da una serie infinita di giochi che risultavano in abiti strappati e inzaccherati, anche i miei fratelli e sorelle crescevano. Nerone e Druso avevano entrambi preso la toga virilis mentre eravamo a Roma, diventando uomini agli occhi della città, e ciascuno vagava pensieroso per i corridoi della villa, aspettando con impazienza un incarico di tribuno presso le legioni. Agrippina, che aveva ormai otto anni, già mostrava di essere abile nel gioco del potere. Non faceva che mettere contro schiavi, servitori o ex clienti di nostro padre, per il proprio divertimento e sempre per trarne un vantaggio. Drusilla, un anno più giovane, si accontentava di giocare con una piccola cerchia di amici, tenendo banco come se fosse un’imperatrice. Il figlio dell’ex console, Marco Emilio Lepido, che era spesso alla villa, aveva cominciato a gironzolare attorno a Drusilla, come se dalla terra che lei calpestava potessero nascere rose. Perfino a quella tenera età, ricordo le prime fitte di gelosia per la mia placida sorella. Non doveva fare niente per attirare l’attenzione di tutti, mentre io venivo spesso ignorata. Magari fossi stata più vicina a Drusilla allora e molto più diffidente nei confronti di Agrippina.

    Ci fu un periodo di tensione quando Caligola, ormai uno slanciato undicenne, cominciò ad aggirarsi attorno a Lepido, contendendo all’avvenente ospite le attenzioni della sorella. Agrippina e io restavamo col fiato sospeso ogni volta, aspettando che nostro fratello sferrasse un attacco a Lepido, a difesa del proprio rapporto con Drusilla. Caligola era più irascibile che mai, sapete, anche se ciò faceva parte della sua indole. Era impetuoso e diretto con ogni emozione: facile alla collera ma enormemente affettuoso, trasudava compassione eppure possedeva un umorismo pungente. Alla fine, i nostri timori si rivelarono infondati. Una mattina, entrando in casa, Lepido portò a Caligola un regalo – un coltello prezioso. Era un piccolo oggetto, costoso e decorativo, fatto per essere usato come coltellino milleusi nonostante l’elsa argentata, ma fu dato come dono di amicizia, suggellando tale legame con mio fratello, che di rado se ne separò da allora. Da quel giorno, divise Drusilla con il nostro amico e la questione fu sistemata, anche se contribuì ben poco a calmare la mia occasionale gelosia per le attenzioni che la mia graziosa e delicata sorella riceveva di continuo.

    Erano giorni felici ma le cose cominciarono a cambiare nell’anno dei consoli Pollio e Veto. Mentre i ragazzi più grandi e nostra madre si tenevano impegnati nella villa, i più piccoli e alcuni dei nostri amici erano occupati a giocare nel Cortile delle Fontane, dove il pesante batacchio di bronzo batté sonoramente due volte, annunciando visite. Il portinaio dalle gambe storte uscì dalla sua casupola, tamburellando le dita della mano sinistra sulla robusta mazza di frassino che portava al fianco, e andò alla porta, aprendola appena. Poi, dopo un breve e brusco scambio, spalancò la porta per far entrare i soldati.

    Era la prima volta che incontravo uomini della guardia pretoriana – da quando ero abbastanza grande per capire, a ogni modo. Ed erano inconfondibilmente soldati, nonostante gli abiti civili. Ciascuno indossava la toga come una corazza, impenetrabile e marmorea, la mano sulla protuberanza che tradiva l’elsa di una spada. Ciascuno aveva il volto truce e la mascella squadrata di un uomo duro e i loro piedi scricchiolavano sulla ghiaia con il suono delle chiodate caligae dei soldati. Conoscevo bene quel suono. I soldati non facevano visita a una villa senza motivo e lo stesso valeva per i soldati della guardia pretoriana.

    A quella vista, sentii il panico saettare dentro di me. Tutto quello che nostra madre aveva detto della morte di nostro padre d’un tratto parve più plausibile con le truppe personali dell’imperatore dentro al nostro giardino. Forse lanciai uno strillo, poiché Caligola mi afferrò e mi tenne stretta a sé in un abbraccio protettivo, mormorando parole confortanti senza alcun significato oltre il suono della sua voce. Aveva sempre una voce leggermente ipnotica – a meno che non fosse arrabbiato.

    Dimenticati i giochi, osservammo i soldati entrare in casa, pestando rumorosamente il marmo con i rozzi stivali. Rimasero dentro solo per poco tempo. Istanti. Il messaggio che consegnarono doveva essere stato esplicito e breve quanto i loro modi e, non appena uscirono per aspettare impazienti all’esterno, mia madre si precipitò dalla porta con l’archimagirus alle calcagna, seguiti da un gruppetto di schiavi. In fondo, venivano Nerone e Druso, entrambi con la toga e sotto di essa le spade, in un’inquietante imitazione dei pretoriani.

    «Lepido, Callavia e Tullio, purtroppo dovete andarvene. Ipsicle vi riaccompagnerà dalle vostre famiglie». Mia madre si rivolse a noi, la sua espressione era severa. «Bambini, andate in casa a cambiarvi e indossate i vostri abiti migliori più veloce che potete. Siamo convocati dall’imperatore». I suoi occhi vagarono su di noi e si posarono su di me, riducendosi a due fessure. «Livilla, com’è possibile ridursi in questo stato in così poco tempo. Lavati la faccia e pettinati. E fa’ in fretta. Questo vale per tutti. Gli imperatori non aspettano».

    Mentre entravamo in casa di corsa per renderci presentabili il più in fretta possibile e Ipsicle, il nostro archimagirus, radunava i nostri amici per riportarli alle rispettive famiglie, mia madre parve notare i nostri fratelli maggiori per la prima volta.

    «In nome della sacra Venere, cosa state facendo voi due?».

    Le espressioni interdette tradirono la loro confusione.

    «Le spade?».

    Nerone aggrottò la fronte. «Ma i pretoriani sono armati».

    «Nessun cittadino», spiegò mia madre in un sibilo irritato, «porta un’arma da guerra nella città. È una legge antica, inviolabile. I pretoriani sono esentati per ordine imperiale, poiché è necessaria una lama per svolgere il loro dovere. Ma voi siete solo dei privati cittadini. Ora mettete via quelle spade prima che finiate per farvi arrestare».

    Mentre i nostri fratelli si sfilavano le toghe, staccavano le spade dalle cinture e indossavano di nuovo gli indumenti drappeggiati con l’aiuto degli schiavi, noi ci precipitammo a prepararci per l’imperatore.

    Con sorprendente alacrità, ci radunammo fuori ancora una volta, ben vestiti, puliti e ordinati. Mia madre marciò avanti e indietro come un generale che passa in rivista le truppe. Mio padre era stato così? mi chiesi. Le sue sopracciglia si inarcarono alla vista di quel coltello d’argento nel fodero alla cintura di Caligola ma lasciò passare senza fare commenti – non era un’arma di guerra, dopo tutto.

    Fummo scortati alla grande carrozza preparata in tutta fretta e, poco dopo, varcammo le porte a un’andatura regolare, scortati dai pretoriani dell’imperatore e diretti in città. Giunti al ponte di Agrippa, il fitto traffico costrinse i soldati a marciare davanti a noi o a restare indietro e, nell’istante in cui non poterono udirla, mia madre ci bersagliò di raccomandazioni.

    «Attenti a tutto a palazzo, bambini. L’imperatore è un vecchio pericoloso e, con la morte del figlio il mese scorso, è peggiorato più che mai. La sua corte è un covo di serpi, una più cattiva dell’altra, presieduta tanto dai pericolosi ufficiali pretoriani quanto dall’imperatore stesso. Non dite niente se non interrogati e a quel punto siate cauti con le vostre risposte. Siate educati ma non ossequiosi. Siate sinceri ma non troppo. Soprattutto, siate prudenti. Ricordate che questo è l’uomo che ha fatto avvelenare vostro padre».

    Si capiva che aveva altro da dire ma avevamo superato il ponte e i soldati erano di nuovo intorno a noi, così piombò nel silenzio e fissò lo sguardo sul lontano rilievo del Palatino. Proseguimmo in teso silenzio e, quando la carrozza si fermò fuori dal grandioso palazzo di Tiberio, eravamo tutti alquanto nervosi. La magnifica facciata, con le false colonne e gli architravi di marmo, era interrotta al centro da un alto portico con un grande frontone, raffigurante l’imperatore stesso come un giovane generale nell’atto di massacrare germani.

    Devo ammettere che tremavo per l’ansia quando salimmo i gradini ed entrammo nell’ombra di quel portico. La presenza di soldati armati e corazzati, che avrebbero potuto uccidermi prima ancora che riuscissi a gridare, era inquietante per una bambina di cinque anni.

    Caligola era accanto a me, una mano confortante sulla spalla, cercando di allontanare la mia paura. E funzionò. Cominciai a calmarmi e, una volta cessati i tremori, lui andò a prendere Drusilla per mano. Provai di nuovo un moto di gelosia. L’intimità di quei due andava oltre ciò che avevamo noi e invidiai mia sorella per questo, poiché lui era in assoluto il ragazzo d’oro della nostra famiglia.

    Entrammo in un cortile dove sentieri di travertino bianco attraversavano aiuole di frammenti di dorato marmo africano, con curati pioppi a ciascuna estremità, disposti in file ordinate e regolari. Poi fummo all’interno e lasciammo che la vista si abituasse alla penombra. L’edificio principale del complesso del palazzo, una domus rettangolare al centro, era raffinato, alto e spazioso, sontuoso senza scadere nella pacchianeria dei sovranuncoli orientali. Era più maestoso di qualsiasi cosa avessi mai visto e i miei occhi presero a vagare come animati da una vita propria.

    A un certo punto, senza che me ne accorgessi, passammo dal controllo dei pretoriani alla guardia germanica dell’imperatore. Nonostante avessimo ancora una scorta di quattro pretoriani, i loro compagni non si vedevano più in giro per l’edificio. Al loro posto, ispidi nordici dai capelli biondo-rosso e occhi sospettosi occupavano le varie nicchie e soglie, osservandoci come se fossimo noi i forestieri e non loro. Mi parve tragicomico che quei barbari proteggessero lo stesso uomo raffigurato sul frontone dell’edificio, quello che faceva a pezzi i loro connazionali. L’espressione di Caligola si fece diffidente mentre passavamo davanti a così tanti uomini armati, suggerendo che stavamo entrando di nostra spontanea volontà nelle fauci di una bestia.

    Io stavo ancora riflettendo sul perché di una guardia di barbari tanto bruti, mentre la nostra migliore unità romana era lì a disposizione, quando fummo fatti entrare in una grande sala decorata da stendardi porpora, bianco e oro. Bracieri ardevano negli angoli, dando al luogo un’atmosfera accogliente, anche se un po’ fumosa in prossimità del soffitto. Al centro, una fontana, un gruppo marmoreo di tre prosperose donne greche – le Furie, probabilmente – versava vino in un bacino sottostante, dal quale gli schiavi riempivano un’abbondante tazza per l’imperatore o uno dei suoi ospiti, tagliandolo con l’acqua prima di offrirlo. Lo sfarzo era strabiliante, anche se data la tenera età, trovai incomprensibile un simile dispendio.

    Impiegai un momento a individuare l’imperatore. Non conoscevo nessuna delle persone che erano con lui, anche se immagino fossero tutte altolocate, vista la libertà con la quale si esprimeva davanti a loro.

    Tiberio mi parve un cadavere. Se fosse marcito e si fosse sgretolato davanti ai miei occhi, non ne sarei rimasta sorpresa. E non era semplicemente la sua età, anche se aveva ormai superato da tempo la giovinezza – conoscevo uomini più vecchi di lui. Si trattava di una combinazione di età, amarezza, carattere pungente e, penso, una serie di malanni cronici che avevano cominciato ad affliggerlo. Era tirato e grigio, con quella pelle sottile simile a cuoio che avevo sempre trovato disgustosa. Ma, malgrado l’aspetto cadaverico del suo corpo, quando intercettai i suoi occhi, vi scorsi un’accesa intelligenza. E anche un’acuta crudeltà. Ancora una volta ricominciai a tremare e feci in modo di perdermi dietro ai miei fratelli più alti.

    «La signora Agrippina», disse l’imperatore in tono piatto, riferito a mia madre e non a mia sorella, che ne condivideva il nome.

    «Maestà», lo salutò mia madre con una rigida cortesia, a un passo dall’essere brusca, e un cenno del capo che non riuscì a essere rispettoso. L’imperatore lo vide e notai il suo sguardo farsi duro.

    «Sei in ritardo».

    «Perdonami, Maestà. Le tue guardie hanno omesso di accennare a una scadenza. Siamo venuti più in fretta che potevamo».

    Quella fu la prima volta che notai Seiano. L’imperatore, sconfitto nella schermaglia verbale, scoccò un’occhiata irritata al prefetto pretoriano che, corazzato, era lì vicino, appostato nell’ombra. Tremai alla vista di quell’uomo nell’oscurità.

    «Sei perdonata», disse l’imperatore con un magnanimo gesto della mano e un sorriso che a stento gli curvò la bocca, figurarsi altre parti del viso. «Fa’ mettere comoda la tua nidiata. Ci sono divani e cuscini in abbondanza. E tu, cara Agrippina, siedi, ti prego».

    Cara Agrippina? Per qualche ragione, cercai con lo sguardo mio fratello Caligola e mi accorsi che le sue dita stavano giocherellando con il fodero del coltello alla cintura. Pregai che nessuno della guardia germanica lo notasse, poiché sarebbe stato molto facile vederlo come una minaccia.

    Fummo fatti sedere, mia sorella Agrippina alla mia sinistra, Caligola alla mia destra, Drusilla più in là, tutti su un unico divano. Mia madre sedeva rigida su un altro, non reclinandosi come da consuetudine, e i miei due fratelli maggiori erano accanto a lei.

    «Non c’eri alla mia cerimonia di cordoglio?», chiese l’imperatore con fare disinvolto, anche se il veleno dietro le sue parole era inconfondibile. Gli occhi di Caligola, notai, osservavano senza sosta l’ambiente circostante, prendendo nota di ciascuna espressione. Mentre i nostri fratelli maggiori rivolgevano rispettosamente l’attenzione sull’imperatore, Caligola era più interessato alle reazioni di quelli attorno a lui, usandole, adesso lo so, per giudicare i reali umori e motivi dell’imperatore, senza dover scavare sotto la maschera che il vecchio rancoroso portava per abitudine.

    «Ancora una volta ti porgo le mie scuse, Maestà», rispose mia madre. «Non stavo bene e non ero in grado di mettermi in viaggio».

    «Viaggio? Fino al foro? Quanto male stavi, cara signora?».

    Seguì un imbarazzato silenzio. Mia madre non sarebbe crollata sotto la pressione delle parole del vecchio. Il motivo della sua assenza era palese a tutti ma nessuno osò dire niente a riguardo. L’imperatore sospirò.

    «Piango la perdita di mio figlio, Agrippina. Sono afflitto e mi macero nel dolore. Non dormo. Piango spesso».

    Fu un cambiamento così repentino che ci colse tutti di sorpresa, perfino mia madre, la cui corazza di silenzio si incrinò.

    «Nessun genitore dovrebbe seppellire un figlio, Maestà».

    Ci fu un altro silenzio, interrotto solo dal gorgoglio della fontana di vino.

    «Sono d’accordo», disse lui alla fine. «Purtroppo, non mi è concesso il lusso del cordoglio. Roma esige. Esige sempre. È famelica più che mai e non riesco a darle la pace che vorrei avere da lei. I miei consiglieri e le voci più insistenti del senato mi ricordano di continuo della successione. Credo che temano che io sia in punto di morte, solo perché non sono più un uomo giovane. Abbiamo avuto mezzo secolo di pace interna da quando i miei illustri antenati hanno sottratto il controllo dell’impero a quel cane di Marco Antonio e fondato una dinastia».

    Colsi il serrarsi della mascella di mio fratello mentre le sue dita si posavano sul manico del coltello. Il grande amico di Cesare, Antonio, era, dopo tutto, un altro dei nostri trisavoli e quel commento era quasi un insulto esplicito.

    «E la mia progressione dinastica è morta con mio figlio», continuò l’imperatore con voce piatta e fredda. «Perciò la successione è in bilico e i vecchi senatori temono una nuova guerra civile se le cose non si sistemano».

    «I senatori sono avveduti, Maestà», disse piano mia madre. «La successione è di primaria importanza».

    «Io non sono in punto di morte!», sbottò Tiberio con una rabbia che parve tramutarsi in fumo e propagarsi nella stanza. Sospirò di nuovo e si afflosciò. «Ho preso una decisione, Agrippina. Malgrado le divergenze tra me e te, tuo marito era mio nipote e io amavo mio fratello – suo padre – più di tutti gli uomini. E, vista la tragica fine di Germanico, non vorrei veder svanire la tua dinastia. Sei del casato del divino Cesare, dopo tutto. Ho già depositato le mie intenzioni presso il senato. I tuoi ragazzi più grandi, Nerone e Druso, saranno nominati miei eredi al posto di mio figlio e, prima che tu me ne domandi il motivo, ti spiegherò una cosa, Agrippina. So che non ti piaccio e che non ti fidi di me. E io ricambio la tua antipatia fino a un certo punto. Ma non hai mai fatto mistero delle tue opinioni e, malgrado la nostra inimicizia, continui a trattarmi come tuo imperatore e lontano membro della famiglia. Nei quattro anni che sei in città non hai mai tramato contro di me né ti sei legata ai miei nemici, né lo hanno fatto i tuoi figli. Nella mia corte», con un ampio gesto del braccio indicò gli anonimi lacchè nella stanza, «c’è gente che professa la più grande amicizia e insuperato sostegno nei miei confronti, eppure ha intrapreso azioni contro di me pensando che io ne sia all’oscuro».

    Trasalii all’udire un improvviso gorgoglio e il mio sguardo, insieme a quello di tutti gli altri, si voltò di scatto nella direzione del suono. Un giovane dalla sfarzosa toga stava d’un tratto sussultando e contorcendosi mentre una macchia cremisi cominciava a inzuppargli le pieghe bianche dell’indumento. Sopra di lui, Seiano, il comandante pretoriano, estrasse la lama dal collo dell’uomo, la pulì con cura su uno straccio e la rinfoderò mentre il corpo dello sfortunato cortigiano crollava, versando sangue, sul pavimento.

    La scena mi lasciò sgomenta e nauseata. Il sentore opprimente del sangue saturò l’aria, sovrastando perfino il puzzo delle viscere allentate. Ma non fu l’odore né la vista a sconvolgermi quanto comprendere che una vita era stata soffocata davanti ai miei occhi. Stroncata in modo violento e freddo. Penso di aver vomitato un po’.

    Era la prima volta che vedevo qualcuno morire. E non sarebbe stata l’ultima.

    Accanto a me, l’attenzione di Caligola era, stranamente, non sul corpo zuppo di sangue bensì sul cupo assassino alle spalle. Ebbi la certezza che mio fratello avesse memorizzato ogni minuscola sfaccettatura del prefetto.

    Poi l’imperatore riprese a parlare come se niente fosse e mia madre riportò all’istante la sua attenzione su Tiberio.

    «Perciò vedi», disse l’imperatore con aria diffidente, «preferirei riporre la mia fiducia su un nemico affidabile che non su un amico inaffidabile. Nerone sarà il mio erede in linea diretta, con Druso come suo vice».

    «Nel caso uno dei due muoia», disse mia madre in tono piatto. Gli eredi morivano per diverse ragioni e penso che mia madre non gioisse all’idea dell’accresciuto pericolo in cui un incarico simile metteva i suoi figli.

    «Sono stato colto impreparato una volta, Agrippina. Non fare obiezioni. Pensa solo all’onore che faccio ai tuoi figli. L’atto è compiuto, a ogni modo. Non ti sto chiedendo né il tuo permesso né la tua approvazione. Ti sto informando di quanto è stato deciso».

    Nerone e Druso fissavano l’imperatore con gli occhi sgranati. Riuscite a immaginare come dev’essere sentirsi dire che siete stati scelti tra tanti con uguali o maggiori diritti per diventare eredi del governo del mondo? L’unica cosa a cui riuscii a pensare, tuttavia, è come dovette sentirsi il mio fratello più giovane.

    Mentre l’imperatore continuava a discorrere con mia madre, mi girai verso Caligola, scorgendo con disgusto Seiano che schioccava le dita e gli schiavi che trascinavano via il corpo, lasciando una lucente scia di sangue sul marmo.

    «Perché loro e non tu?», bisbigliai.

    Mio fratello, le cui dita non erano più sul coltello, mi rivolse un’occhiata interrogativa. «Come, scusa?»

    «Perché Nerone e Druso e non tu? Se per l’imperatore è più sicuro avere due eredi invece di uno, non sarebbe ancora più sicuro con tre?».

    Caligola aggrottò la fronte per un momento e poi mi sorrise. «Druso e Nerone sono uomini, Livilla. Sedici e diciassette anni. Stanno per diventare tribuni militari. Sono successori già pronti. Io non ho che undici anni, ricorda, e non sono ancora un uomo agli occhi dello stato».

    Non capivo come riuscisse ad accettare la cosa con tanta calma, tuttavia, e insistei. «Non ti dà fastidio?»

    «Tutt’altro, sorellina», replicò, abbassando la voce mentre ci allontanavamo da orecchie indiscrete. «Non preoccuparti, non invidio né Nerone né Druso per questa inattesa fortuna. Anzi, odierei trovarmi nella loro posizione. La corte è un posto pericoloso, come ormai avrai notato. Nerone e Druso dovranno essere vigili. Ogni loro parola e gesto saranno sotto esame e dovranno affrontare le maree e le correnti della corte imperiale con estrema attenzione».

    I miei occhi vagarono prima su Nerone e Druso, che avevano preso parte con entusiasmo alla conversazione con l’imperatore – erano capaci della cautela consigliata da Caligola? – e poi sulla striscia insanguinata sul pavimento, tutto ciò che restava di un nobile romano. Nella profonda ombra al di là, il prefetto Seiano stava con le braccia conserte, scrutando la stanza.

    «E attenta a quello», bisbigliò Caligola accanto a me. «Non smetterà di fare carriera fino a che non avrà superato Giove stesso». Mi soffermai a guardare Seiano e poi lanciai una rapida occhiata a mio fratello, che però era tutto preso da Drusilla. Mi rivolsi così ad Agrippina, dall’altro lato, che però era impegnata ad ascoltare la conversazione di stato, come se potesse fornirle informazioni utili, quanto quelle che raccoglieva alla villa. Ero praticamente sola e tutto ciò che potevo fare era guardare l’imperatore, l’anziano sovrano che aveva appena nominato i miei fratelli suoi eredi, e Seiano, così a suo agio nell’oscurità che sembrava fatto d’ombra.

    E ricominciai a tremare.

    Le stagioni seguenti passarono con sorprendente velocità, malgrado l’onnipresente paura di un eventuale intervento dell’imperatore o del prefetto pretoriano. Dopo che l’imperatore ebbe nominato eredi i miei fratelli, mia madre riscosse dei favori per garantire a Nerone e Druso incarichi di tribuno il più in fretta possibile. Il suo tentativo di tenere i figli lontani dai pericoli della corte sarebbe stato evidente perfino a chi non era conoscenza degli usi della nostra famiglia. Non era sfuggito alla mia attenzione, tuttavia, che se nostro padre era stato avvelenato per ordine dell’imperatore, all’epoca prestava servizio in Siria e pertanto la distanza non costituiva una protezione concreta. Tiberio era rimasto indifferente al fatto che, nel giro di un mese dal suo annuncio, i due nuovi eredi avessero lasciato la città per incarichi militari; di certo non poteva obiettare che un giovane romano affrontasse le tradizionali tappe del cursus honorum.

    E così Nerone aveva assunto il suo incarico di tribuno presso la Terza Augusta a Teveste, mentre Druso aveva accettato un posto presso la Terza Cirenaica in Egitto. Tutta l’Africa era in fermento all’epoca, per via della ribellione del re barbaro Tacfarinas, e Nerone avrebbe senz’altro preso parte alla guerra, se non anche Druso. Tuttavia, mia madre non era preoccupata come mi aspettavo. Non solo non era quasi mai previsto che i tribuni combattessero in battaglia ma, secondo lei, un deserto pieno di berberi rappresentava per la famiglia una minaccia minore rispetto a un pretoriano armato di coltello.

    Avevo visto nei miei fratelli un susseguirsi di reazioni all’annuncio dell’imperatore. L’incredulità si era presto tramutata in un certo autocompiacimento, involontariamente diretto a Caligola e Lepido. Poi, quando la novità aveva perso la sua brillantezza e il reale significato di quella successione, e i pericoli annessi, aveva attecchito nelle loro menti, erano passati a una nervosa, irritabile accettazione. Quando, essendo ormai gli incarichi di tribuno cosa fatta, lasciarono Roma, penso che fossero entrambi contenti di partire. Drusilla e io li guardammo andare via con tristezza, Caligola con studiata comprensione e Agrippina con delusione. Penso si aspettasse che dalla loro posizione accresciuta sarebbero derivati risvolti positivi per lei. Così non era stato e, con la loro partenza, sembrava probabile che non ne avrebbe ricavato un bel nulla.

    Nonostante noi quattro fossimo rimasti alla villa con mia madre, l’assenza dei due fratelli maggiori lasciò un grosso vuoto nelle nostre vite, dando un’innaturale parvenza di calma alle cose. Continuammo come sempre a giocare con gli amici e a imparare ciò che ci sarebbe stato richiesto sapere da grandi, anche se con meno entusiasmo.

    Ho idea che mia madre non nutrisse speranze per me in tal senso. Agrippina era brava nello studio, apprendendo il più possibile, immagazzinando le conoscenze per tirarle fuori al bisogno, da bambina calcolatrice che era. Tutti sapevamo che avrebbe fatto un ottimo matrimonio, proprio come eccelleva in tutto, essendo così determinata e manipolatrice. Per certi versi, compativo il suo futuro marito visto che non me la immaginavo assumere un ruolo dimesso in un eventuale matrimonio. L’uomo che avesse preso Agrippina in moglie avrebbe avuto parecchio da fare. Drusilla, al contrario, sarebbe stata la perfetta moglie romana, dannazione a lei. Era studiosa tanto quanto nostra sorella maggiore, ma lo faceva per essere brava in quel ruolo e non per capire in che modo volgerlo a proprio vantaggio, come faceva chiaramente Agrippina.

    Io? Non ero sicura che mi sarei mai sposata. Ero riuscita a convincermi che mia madre sarebbe stata ormai stufa dell’intera faccenda quando, sistemate Agrippina e Drusilla, fosse arrivato il mio turno. Ero cocciuta e mi piaceva la libertà. Non sarei stata affatto una moglie perfetta e lo sapevo. La mia famiglia era più importante e lo sarebbe sempre stata. Ascoltavo svogliata quando mi dicevano cosa ci si sarebbe aspettato da me e mi insegnavano le miriadi di cose che una moglie doveva saper fare per tenere in ordine la casa del marito. Sinceramente, mi interessavano di più le cose che studiava Caligola: oratoria, storia, matematica, perfino un po’ di pratica con la spada, quando mia madre era in vena di generosità.

    Per rallegrare l’atmosfera dopo la giornata di studio, i nostri amici venivano a trovarci. I giochi erano diversi a quei tempi, naturalmente. Caligola aveva ormai tredici anni e aspettava di prendere presto la toga virilis. Noi ragazze avevamo tra i sette e i dieci anni, con me che arrancavo sempre essendo la più piccola. I nostri giochi divennero più elaborati e meno infantili. I nostri amici Callavia e Tullio cominciavano a perdere interesse per le cose che mi divertivano, l’una con un occhio per i ragazzi e l’altro con l’unico desiderio di prendere una spada da allenamento e mettere alla prova la propria forza, mentre Lepido sembrava non avere tempo per altro che starsene impalato a fare gli occhi dolci a Drusilla. Da parte sua, mia sorella non faceva niente per scoraggiarlo, e penso che perfino allora l’attenzione che dedicava ai suoi studi avesse lo scopo di mettere nella rete il nostro bello e giovane compagno. Lepido e Caligola rimasero grandi amici, uscendo spesso il pomeriggio a cavalcare o a fare gare con alcuni dei membri più fidati del personale della villa.

    Due anni così, dal giorno in cui avevamo lasciato la sala dell’imperatore sbigottiti, con i fratelli diventati suoi eredi. Non fu un brutto periodo ma mancava un po’ della giovanile esuberanza degli anni precedenti e l’assenza dei nostri fratelli influì su di noi in tanti piccoli aspetti.

    Il mondo cambiò lentamente mentre vegetavo nella mia vita familiare, per lo più ignara delle più ampie implicazioni di quanto accadeva oltre le nostre mura. L’inverno di quell’anno si tramutò lentamente nella primavera del successivo e, dopo una lunga estate rovente senza notizie dei nostri fratelli a sud, finalmente la guerra in Africa cessò. Mia madre svenne quasi per il sollievo quando seppe che i suoi figli non avrebbero più rincorso i ribelli in giro per la Mauretania, ma poi trascorse mesi aspettando con impazienza giorno dopo giorno i cavalieri del cursus publicus, che avrebbero potuto portare la notizia che uno o l’altro dei figli era caduto negli ultimi giorni della guerra. Ancora una volta, quando le lettere, sia di Druso che di Nerone, giunsero nelle settimane seguenti, venne quasi meno per il sollievo.

    Più vicino a casa, quella serpe di Seiano cominciò ad agire più alla luce. Il prefetto intratteneva da tempo una relazione con la nipote dell’imperatore, Claudia Livia Giulia, anche se all’epoca avevo dedicato poca attenzione alle voci a riguardo, non ritenendo la cosa importante. Ora, trascorso il decoroso periodo di un anno dalla morte del marito di lei, Seiano presentò istanza all’imperatore per sposarla. L’importanza di questa mossa continuò a sfuggirmi fino a che non trovai mia madre e Caligola che ne parlavano preoccupati e chiesi a lui perché la cosa ci riguardasse. Caligola mi disse, in tono molto serio, che un matrimonio del genere avrebbe reso Seiano un membro del casato dei Giulii, inserendolo nella linea dinastica, probabilmente al di sopra dei miei fratelli. Personalmente la considerai una buona cosa, visto che poteva renderli meno vulnerabili, ma, a quanto pare, mi sbagliavo. A quel punto, Seiano, mi spiegò mio fratello, avrebbe tentato di eliminare tutti gli altri contendenti fino a che non fosse rimasto l’unico erede.

    Il panico cessò quando l’imperatore negò a Seiano il matrimonio. Posso solo immaginare il modo in cui il prefetto aveva accolto la notizia. Pacatamente rispettoso, immagino, inchinandosi all’imperatore e mostrandosi deferente fino a che non era tornato a casa sua, dove avrà strappato i drappeggi e fracassato gli arredi per la rabbia nel vedersi negato un posto nella successione.

    Ora, conscia dell’importanza del tentato matrimonio del prefetto, prestai più attenzione nelle stagioni successive e cominciai a comprendere un po’ della visione che mio fratello aveva del mondo. Ogni notizia, anche la più minuscola, faceva parte di una rete e, quando capivi le posizioni che in quella rete occupavate tu e i tuoi nemici, potevi cominciare a prepararti a ogni evenienza. Nel corso dell’inverno seguente, assistemmo al lento e costante indebolimento dell’autorità imperiale da parte del prefetto, il quale si garantì alleati in posizioni utili, accrebbe il proprio elenco di clienti e assegnò ai propri tirapiedi incarichi di potere. Al contempo, cominciò a manipolare Tiberio, assecondando la luttuosa infelicità del vecchio e la sua crescente ossessione, persuadendolo sempre più a ritirarsi dalla gestione diretta dell’impero.

    Ogni mese vedevamo sempre più potere nelle mani di Seiano e Tiberio un po’ più distante dal suo impero. Ero sconvolta. Malgrado non provassi alcun affetto per il vecchio imperatore, il pensiero di Seiano sul trono mi faceva rabbrividire; in più di un’occasione chiesi a Caligola perché nessuno faceva niente.

    «Cosa possono fare?», rispose cupo una volta. «Chiunque parli contro il prefetto scompare o viene arrestato con accuse inventate. E l’imperatore continua a fidarsi di Seiano, abbastanza da lasciargli, più o meno, gestire l’impero al posto suo. Il massimo che chiunque può fare è sperare e pregare».

    E così sperai. E pregai. E tutto ciò che ricevetti fu silenzio.

    ii

    SOLO GRAFFI

    L’estate che seguì – l’anno dei consoli Lentulo e Agrippa – vide l’evento più sociale a cui prendemmo parte dopo tanto tempo, nonché uno dei più rivelatori e profetici. I nostri fratelli tornarono a casa e, per un mese, quell’estate esplose di vita e luce. Nerone e Druso sembravano incommensurabilmente cresciuti, essendo diventati davvero uomini durante la loro permanenza a sud.

    Nerone aveva visto l’azione con la sua legione più o meno di continuo da quando si era insediato al suo posto. La Terza Augusta aveva attraversato l’Africa da Teveste nel tentativo di stroncare il re berbero Tacfarinas, e poi aveva trascorso un mese a rastrellare sacche di resistenza e a spegnere i roghi appiccati dai ribelli sconfitti. Era pieno di racconti e aneddoti eccitanti e recava due piccole cicatrici a dimostrazione del fatto che non si era limitato a sbrigare commissioni per il comandante della legione, come si era aspettata mia madre. La sua pelle era diventata bronzo brunito sotto l’accecante sole africano e i capelli si erano schiariti al punto di essere quasi biondi. Aveva anche più di una decorazione al valore militare. Mia madre emanava un’interessante combinazione di orgoglio e terrore nel guardare suo figlio, l’eroe di guerra, glorioso ma sfregiato.

    Druso, al contrario, era illeso, anche se il suo colorito era cambiato allo stesso modo. Il suo incarico a Nicopoli, sulla costa egiziana, era stato pacifico. Era stato coinvolto in qualche piccola schermaglia con i turbolenti gruppi di Alessandria – ebrei, berberi, fenici e simili – e aveva diretto occasionali missioni lungo il fiume nel cuore di quella strana terra; ma aveva eluso del tutto la guerra, e con essa eventuali situazioni di pericolo o speranze di gloria. Non invidiò mai a Nerone il suo successo, naturalmente, ma la sua tacita delusione era palpabile.

    Le loro storie erano vivide ed esotiche per me, non avendo alcun ricordo del mondo prima del nostro arrivo a Roma.

    «Il vecchio legato, Bleso, è stato richiamato a Roma senza aver concluso il lavoro», disse Nerone tra un boccone e l’altro di pollo parto al cumino. «Perfino con i rinforzi della Nona Hispania. Ma il nuovo proconsole, quando è arrivato, era tutt’altro paio di maniche. Dolabella è un uomo duro. A pochi mesi dal suo subentro, Tacfarinas si è ritrovato a combattere per la propria vita. I ribelli avevano preso Tubursicum e sopraffatto la guarnigione, e il proconsole è stato svelto a reagire. Eravamo a un centinaio di miglia a sudovest, ma parti della Nona che erano state mandate a infoltire i nostri numeri erano vicine, a sole trenta miglia dalla città. La Nona ha attaccato il nemico a Tubursicum e lo ha trattenuto fino al nostro arrivo. È stato magnifico, Druso».

    Scorsi l’espressione di invidia di Druso prima che si incollasse un sorriso solidale sulla faccia.

    «A ogni modo, mi sono procurato questa cicatrice sull’occhio a Tubursicum. La cavalleria numida li ha fiaccati ma la fanteria ha comunque affrontato un pesante combattimento, costringendoli ad arretrare dalle loro posizioni. Abbiamo ripreso la guarnigione senza troppe difficoltà ma scacciarli dalla città e rimandarli sulla collina è stato parecchio impegnativo. Ricordo che cavalcavo accanto a un centurione – un vecchio soldato senza orecchio di nome Pansa – lungo una strada ripida, all’inseguimento di un gruppo di lancieri nativi, con quasi una centuria dietro di noi. Poi, senza alcun preavviso, un secondo gruppo ha fatto irruzione da una strada laterale e ha cercato di separarci dai nostri uomini. Ne abbiamo persi quasi dieci quando quelli che stavamo inseguendo hanno fatto dietrofront e sono venuti verso di noi, ma gli uomini della Terza sono tosti e veloci. Ho fatto fuori due ribelli da solo, uno alla gola e l’altro all’ascella, prima di essere di nuovo attorniato dai miei uomini. Ero coperto di sangue e ho dovuto controllare bene per assicurarmi che fosse tutto loro e non mio. Ma la cicatrice sulla fronte me l’ha fatta una delle loro lance in quello scontro».

    Noi bambini ascoltavamo rapiti. Tutti tranne Caligola, penso, che armeggiava distratto con il coltello d’argento e tamburellava con le dita sulle ginocchia. Lui, naturalmente, aveva viaggiato con nostro padre nelle sue campagne belliche in Germania, indossando i suoi piccoli stivali, e aveva visto la guerra, sebbene da lontano. Non penso che gli sia mai piaciuto fare il soldato. Mia madre era inorridita.

    «Preziosa Giunone, figlio mio, ma devi per forza metterti così a rischio? Ai tribuni non viene richiesto di combattere. I centurioni guidano dalla prima linea, ma loro sono soldati professionisti. Non ti ho mandato così lontano dalla corte solo perché ti mettessi in un pericolo ancora maggiore. Sei destinato a grandi cose, Nerone!».

    Il mio fratello maggiore si limitò a sorriderle. «E un uomo che intende governare il mondo dovrebbe sudare e sanguinare per la sua nazione, madre. Non dimenticare che Cesare stesso ha combattuto al fianco dei suoi uomini contro i Belgi. E Augusto era a bordo di una nave ad Azio. E perfino il vecchio Tiberio ha condotto campagne vittoriose in Germania quando era un giovane generale. Tutti i nostri illustri predecessori si sono guadagnati la gloria sul campo prima di sedere sul trono. Non puoi aspettarti di meno da me».

    «Sta’ molto attento, giovane Nerone».

    Tutti ci voltammo sorpresi a quella voce, il cui asciutto crepitio ci disse a chi apparteneva prima ancora di vederla. La nostra bisnonna, Livia, la prima imperatrice di Roma nonché moglie del grande Augusto, era ferma sulla soglia. Livia era una delle donne più importanti nella lunga storia di Roma, donna che in parte ho preso a modello, o per lo meno ci ho provato. Aveva più di ottanta anni al tempo di quella visita, eppure quando uno schiavo si precipitò ad aiutarla ad entrare nella stanza, inveì contro di lui dicendo di non essere un’incapace e lo scacciò con il suo bastone; poi entrò adagio nella stanza e si mise a sedere con un mugugno e uno scricchiolio di giunture.

    «Nonna», sorrise Nerone, «sono solo graffi. Niente di cui preoccuparsi».

    «Non mi riferivo alle spade, ragazzo!», sbuffò la grande signora di Roma. «Intendevo attento al successo!».

    Mia madre annuì concorde ma Nerone si limitò a tirare su col naso. «Non posso essere uno di quegli uomini che restano su un’altura mentre infuria la battaglia, andando a prendere poggiapiedi e bevande ai miei superiori. C’è troppo sangue di mio padre dentro di me. Lo sai questo, nonna».

    Livia tossì per un momento, si asciugò le labbra e poi si rivolse al nipote con un’espressione scaltra. «Non ti sto dicendo di non combattere, ragazzo. Ce l’hai nel sangue. La tua è sempre stata una famiglia di combattenti. Solo fallo senza clamore. Cerca di non guadagnarti riconoscimenti ed elogi. Ficca la spada nel ventre berbero se proprio devi ma non metterti a sventolare la tua bandiera sul loro parapetto. L’attenzione è il tuo nemico. Il successo può essere pericoloso in quantità sufficiente e Tiberio è una serpe irriconoscente nel migliore dei casi…».

    Mia madre interruppe bruscamente l’anziana donna.

    «Non puoi dire cose del genere, Livia».

    La vecchia sbuffò di nuovo. «Alla mia età posso dire quello che mi pare, dannazione. E Tiberio è mio figlio. Se qualcuno ha il diritto di definirlo una serpe velenosa, quella sono io».

    Mia madre era comunque sconvolta e i suoi occhi scrutavano la stanza come se spie imperiali potessero nascondersi dietro alle tende, cercando di carpire segnali di sovversione. Forse, a posteriori, era più astuta di quanto spesso gliene dia merito. Ma quel giorno, per lo meno, eravamo inosservati e Livia continuò imperterrita.

    «Tiberio è un animale pericoloso, bambini. Non pensate mai a lui come un fragile vecchio. Per quanto fragile, potrebbe farvi scuoiare e gettare nel Tevere. Ne è capace. Vostra madre resta convinta della sua complicità nella morte di vostro padre e potrebbe non sbagliarsi. Ricordo di aver visto Tiberio sprofondare nell’odio geloso del successo di vostro padre e anche adesso mostra ancora quegli stessi segni. Il senato canta le lodi dei figli di Germanico e ogni acclamazione dei senatori spinge Tiberio un pochino di più nelle tenebre. Ogni saluto è un altro ciocco sulla pira che erige per la nostra famiglia. Vostra madre

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