Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Una luce sul futuro
Una luce sul futuro
Una luce sul futuro
E-book296 pagine4 ore

Una luce sul futuro

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Quando il passato è ottenebrato dai rimorsi, solo una luce può rischiarare il futuro.
Cosa possono avere in comune un cantante rock e una ragazza vissuta nel 1800? Potrebbe sembrare nulla, ma la storia di Richard e Lidya vi dimostrerà che un collegamento può esserci. Dopo una breve gavetta, Richard Harvey riesce ad affermarsi nel panorama musicale londinese ed europeo. Ha rincorso la celebrità, sacrificando le amicizie, gli affetti familiari e i propri valori. Alla soglia della vecchiaia, si accorge che quanto ha ottenuto non lo ripaga di ciò che ha perduto. Un forte senso d’inutilità, il rimorso e la solitudine lo stanno conducendo verso un grave stato depressivo. Decide di affittare un piccolo castello a Filey, nel North Yorkshire e di rimanervi rinchiuso finché avrà scritto la sua biografia. Svelerà tutti i suoi segreti come atto di riscatto per una intera vita di bugie. In quello stesso castello, più di duecento anni prima, aveva vissuto Lidya, la figlia dei custodi. Una ragazza semplice, dolce e intelligente che, fin da piccola, coltivava il suo profondo amore per il figlio dei castellani. Un sentimento maturato con il trascorrere degli anni, ma destinato a incontrare molti ostacoli. Due storie totalmente diverse e separate dal tempo, ma che conosceranno un punto di connessione. Sarà quella fugace interconnessione che costituirà la salvezza per entrambi.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita29 lug 2019
ISBN9788833663173
Una luce sul futuro

Correlato a Una luce sul futuro

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Una luce sul futuro

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Una luce sul futuro - Ornella Nalon

    Ornella Nalon

    Una luce sul futuro

    Una luce sul futuro

    di Ornella Nalon

    Copyright © 2017 Ornella Nalon

    Collana Gli scrittori della porta accanto

    Pubblicato in accordo con Gli scrittori della porta accanto e PubMe

    Progetto grafico e impaginazione: Stefania Bergo

    Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono frutto dell’immaginazione dell’autore, ogni riferimento a persone o fatti è puramente casuale.

    Prima edizione 2017

    Seconda edizione 2018

    Terza edizione 2019

    UUID: 07e4eac6-b0b2-11e9-8404-bb9721ed696d

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Una luce sul futuro

    E… ricorda! Se una cosa fa male vuol dire che dentro di te qualcosa è rimasta repressa. Quindi, invece di evitare il dolore, entraci dentro. Lascia che faccia terribilmente male… Lascia che faccia male completamente, così la ferita è totalmente esposta. Quando è del tutto esposta, la ferita comincia a guarire. Se eviti questi spazi in cui senti dolore, rimarranno dentro di te e ti ci imbatterai di continuo.

    Osho

    Capitolo I

    Per un attimo, aveva temuto di rimanere a piedi: appena dopo l’ultima curva, la sua vecchia Corvette ebbe qualche sussulto e il motore sembrò perdere colpi.

    Per prima cosa, pensò di essere rimasto senza benzina, ma la lancetta del segnalatore gli indicava che era a poco meno di metà serbatoio.

    Stronza! Non puoi lasciarmi a piedi, maledetta!, aveva imprecato, mentre batteva un pugno sul volante e scivolava, inavvertitamente, con la mano sul clacson, provocando uno strombettio che echeggiò a lungo, in quel posto desolato. Diede una piccola accelerata e l’auto cominciò a riprendere la sua normale andatura; il rombo del motore tornò a essere musica che, in alcuni momenti, sovrastava quella melodica di Ray Lynch, trasmessa alla radio.

    Finalmente, in lontananza, vide configurarsi la sagoma del piccolo castello che lo avrebbe accolto e ospitato per un po’ di tempo, ossia fino a quando avrebbe portato a compimento il suo ultimo progetto, sempre ammesso che, almeno una volta nella sua vita, fosse riuscito a terminare qualcosa.

    Non aveva bisogno che il navigatore gli indicasse di lasciare la strada principale per svoltare alla prima a destra, poiché era evidente che soltanto quella gli avrebbe consentito di raggiungere la sua meta. La strada si era fatta decisamente stretta, tanto che, molto probabilmente, non avrebbe consentito il passaggio di due auto provenienti da entrambi i sensi. Questo, comunque, non avrebbe dovuto costituire alcun problema, dal momento che quello era il percorso che conduceva esclusivamente alla sua prossima dimora e soltanto lui avrebbe potuto percorrerlo.

    Quelli dell’agenzia lo avevano avvisato che il cancello in ferro, che consentiva l’accesso al viale d’ingresso, aveva la serratura rotta e, dunque, sarebbe stato solamente accostato. Quando vi arrivò dinnanzi, mise l’auto in folle, tirò il freno a mano, scese, lasciando la portiera aperta, e scostò i battenti, uno alla volta. Erano massicci, pesanti e facevano attrito sui cardini arrugginiti, per cui dovette spingerli con forza. Diede un’occhiata d’insieme a ciò che gli si presentava alla vista e ne rimase affascinato. Il lungo viale era cosparso di ghiaino bianco, che rifletteva sotto i raggi solari di quella bella giornata di metà autunno. Lo delimitavano due radi filari di cipressi dai tronchi imponenti, palese indizio della loro età secolare. Sullo sfondo, si stagliava una grande costruzione dalla forma articolata, in mattoni faccia vista, leggermente consunti e anneriti dal tempo, costellata da una miriade di finestre e finestrelle e con un tetto alto dai numerosi spioventi di un insolito colore grigiastro. Tra gli spazi lasciati liberi dai cipressi, si poteva scorgere una grande distesa d’erba, che doveva essere stata rasata di fresco, sulla quale si era depositato, a chiazze, un leggero strato di foglie dalle varie gradazioni di rosso e di giallo, cadute dagli alberi di ippocastano e di betulla, che si ergevano, ormai semispogli, con i loro fusti imponenti. La pace e il silenzio erano totali, ad esclusione del lieve rombo del motore, lasciato acceso.

    Salì di nuovo nell’auto e percorse la strada alberata, sinché arrivò in un ampio spiazzo piastrellato, al centro del quale era situata una grande fontana in marmo, il cui fondo, con una spessa patina umida, verdastra, muschiosa e leggermente maleodorante, era un chiaro indizio della sua prolungata inattività.

    Il portone d’ingresso era enorme: in legno massiccio, decorato in rilievo, presentava due grandi teste di leone in ottone ossidato, in ciascuna delle quali, penzolava un grosso battente.

    Tra le chiavi del mazzo, che gli era stato consegnato, non fu difficile individuare quella che gli avrebbe consentito di entrare nell’abitazione: era, senz’altro, la chiave più grande e pesante che avesse mai avuto modo di vedere.

    L’ingresso era uno stanzone dai soffitti altissimi, da cui scendevano due lampadari disposti in fila, provvisti di innumerevoli gocce di cristallo e di un considerevole numero di lampadine. Alle pareti, erano appese varie applique dello stesso stile e, tra l’una e l’altra, ritratti di uomini e donne, in abbigliamento ottocentesco che, a rigor di logica, avrebbero dovuto essere gli antenati proprietari del maniero. I pavimenti di marmo, in mosaico colorato, erano tirati a lucido e in essi erano posati pochissimi mobili: solo qualche consolle, a mezza luna, accostata alle pareti laterali, e un comò di mogano cesellato. In fondo alla stanza, si ergeva una ampia scala, con balaustra in colonnine di marmo bianco, che si riproponevano per tutta la lunghezza della balconata, dalla quale si poteva accedere alle stanze del piano superiore.

    Nella sua vita aveva conosciuto picchi di smodata ricchezza che gli avevano consentito di frequentare ambienti lussuosi, eleganti e raffinati, ma nessuno di essi avrebbe potuto eguagliare la bellezza e la sobrietà di quello che gli si offriva alla vista, in quel momento.

    Costerà una fortuna, ma è più di quanto mi sarei aspettato, pensò soddisfatto, mentre riprendeva in mano le due valigie e la borsa della spesa che precedentemente aveva lasciato all’esterno, in prossimità dell’ingresso.

    Secondo le indicazioni che gli erano state fornite dall’agente immobiliare, se la memoria non gli faceva difetto, la cucina avrebbe dovuto trovarsi all’ultima porta sul lato destro. Percorse tutto il salone, mentre le suole gommate delle sue scarpe, a contatto con il marmo del pavimento, emettevano dei leggeri scricchiolii.

    La cucina era molto spaziosa, con un arredo antico essenziale, da cui, in stridente contrasto di stile, spiccava un capiente frigorifero in acciaio lucido, con dispenser di ghiaccio.

    Richard lo aprì e, per prima cosa, introdusse le confezioni di cibo surgelato nello scomparto apposito, benedicendo mentalmente colui che aveva provveduto all’acquisto di quello splendido e funzionale elettrodomestico. Se, da un punto di vista estetico, ammirava le antichità, da quello pratico, non avrebbe potuto fare a meno degli ultimi ritrovati tecnologici che rendevano facile e comoda la vita. Forse, come ci si poteva aspettare, se avesse trovato una vecchia ghiacciaia, al posto di quel moderno frigorifero, gli si sarebbe notevolmente ridimensionata la gioia di avere scelto quel posto per il suo soggiorno.

    Terminò di riporre il resto della spesa, nello scomparto alto della credenza. Nella borsa, era rimasta soltanto la bottiglia di scotch; la aprì, ne versò un’abbondante dose in un bicchiere e la bevve in una unica sorsata. Si accese una marlboro, la tenne al lato destro delle labbra, riprese in mano le due valigie e cominciò a salire le scale, in cerca della stanza che avrebbe scelto come camera da letto. Curiosò dietro un paio di porte, prima di trovare il locale che faceva al caso suo: un ampio stanzone con un letto matrimoniale a baldacchino, un capiente armadio in noce, un caminetto provvisto di parafiamma e alari in ferro battuto e una grande portafinestra con pesanti tende in velluto bordeaux. Si diresse verso questa, la aprì e uscì sul terrazzo, che dava sul retro del giardino. La vista era splendida. Non si intravedeva alcuna traccia di insediamento umano, ma soltanto prati, alberi e, più in basso, una piccola insenatura sabbiosa, su cui si infrangevano piccole onde di un mare leggermente increspato da un vento tenue e tiepido. Qualche piccolo stormo di gabbiani appariva quasi d’improvviso, volteggiava nel cielo terso e poi si allontanava, sino a diventare un insieme di piccoli punti in movimento che, subito dopo, sparivano all’orizzonte.

    Si sporse appena dalla balaustra, per cercare di individuare l’inizio della scaletta che conduceva alla spiaggia e gli sembrò di intravederla dietro un cespuglio di roseti. Gli venne una gran voglia di raggiungerla, pensando che avrebbe avuto tutto il tempo per riporre la sua roba dentro all’armadio.

    Entrò nel bagno attiguo alla camera da letto, rovistò dentro a un mobile a colonna, vi estrasse un accappatoio e un asciugamano di spugna e se li mise sotto al braccio. Prima di uscire, diede un’occhiata d’insieme alla stanza e constatò che rispecchiava esattamente lo stile di quelle che aveva visto sinora: ampi spazi, essenzialità nell’arredo, eleganza, sobrietà e funzionalità di ottimo livello. Per un secondo, aveva sperato che l’innovatore del frigo moderno, in cucina, avesse anche potuto dotare la vasca da bagno di idromassaggio, ma, dopo una rapida occhiata, si dovette disilludere.

    Passò dalla cucina e prese una bottiglia di birra che aveva messo in fresco, poco prima. Rovistò in qualche cassetto della credenza finché trovò quello delle posate. Tolse il tappo, facendo leva con la punta arrotondata di un coltello, e cominciò a incamminarsi verso il punto in cui aveva individuato la scala.

    Chi rompe le palle, adesso?, pensò, mentre si arrabattava per cercare di trattenere, con il solo braccio e la mano sinistra, tutto quello che si era portato appresso e, con quella destra, estraeva il cellulare dalla tasca.

    «Ricky, sei arrivato?».

    «Sì, da più di mezz’ora».

    «Com’è il posto? È come lo cercavi?».

    «Ti dirò che è ancora meglio! Il palazzo trasuda storia ed eleganza e non poteva essere posizionato in modo migliore. Sto scendendo verso la piccola spiaggia privata. La giornata è splendida e molto calda, per essere a fine settembre. Probabile che mi venga voglia di fare un bagno».

    «Quando pensi di iniziare a scrivere?».

    «Quando mi verrà l’estro! Non comincerai a farmi pressione, ora!».

    «Non per niente, ma ti ricordo che il vitto e l’alloggio, e che alloggio per inciso, sono a mio carico fintanto che non mi consegnerai l’opera. Mi sembra del tutto normale sentirmi libero di farti qualche esortazione!».

    «Sei il solito materialista! A proposito di vitto, nei prossimi giorni andrò in paese ad aprire un conto corrente, così ti potrò dare le coordinate per farmi un bonifico. Sono rimasto quasi del tutto al verde».

    «Sarei io il materialista, eh? Appena potrò, verrò a vedere per quale posto sperperi i miei soldi».

    «Vedremo se brontolerai così tanto, quando ti farò diventare ricco. Tutto bene là? Kate e Simon?».

    «Io sempre di corsa, come al solito. Kate e la piccola peste stanno bene. Simon ha chiesto dello zio Ricky ed è rimasto male, quando gli ho detto che non ti vedrà per un po’ di tempo!».

    «È l’unica cosa bella che sei riuscito a fare nella tua vita!».

    «Oltre che a credere nel tuo folle progetto e a finanziarlo pure, vorrai dire!».

    «Beh, sì! Tutto sommato, anche questa è una bella cosa!».

    «Ora ti lascio alla tua beata vita da castellano, mentre io, invece, ho un sacco di cose da fare. Ti chiamerò tra qualche giorno e mi piacerebbe tanto se, nel frattempo, avessi completato almeno il primo capitolo. Richard…..».

    «Sento che adesso mi stai per fare una raccomandazione. Sbaglio, Bryan?».

    «Volevo solo dirti di non bere troppo. Di mangiare regolarmente e cercare di volerti un po’ di bene, tutto qua».

    «D’accordo, non preoccuparti per me».

    A metà percorso, cominciò a suonare il cellulare.

    Quando la comunicazione si interruppe, guardò il telefono e le sue labbra si piegarono in un leggero sorriso. Gli sembrava di avere davanti agli occhi il volto del suo fidato e onnipresente amico. Una faccia pulita, da bravo ragazzo, di quelli studiosi a scuola, volenterosi e instancabili al lavoro, leali e premurosi in famiglia, devoti e solidali nelle amicizie. Praticamente, il suo esatto opposto. Si era sempre chiesto come avesse fatto a reggere quella strana amicizia, nonostante le loro diverse concezioni di vita e le loro esperienze in netto contrasto, che li avevano fatti allontanare, talvolta anche per diverso tempo, ma che poi venivano superate, come non fossero mai esistite, così da farli sempre ritrovare, affezionati e affiatati più di prima. Richard era convinto che, in un qualsiasi rapporto a due, ci fosse sempre uno che dà di più e l’altro che di più prende e non aveva dubbi su chi fosse il più generoso tra lui e il suo caro amico. Quasi sempre era stato Bryan ad accorrere alle sue richieste di aiuto, a raccogliere i cocci di ciò che lui aveva frantumato e a incoraggiarlo a non cedere mai e comunque.

    Ci sei sempre riuscito, vecchio mio, ma non questa volta, temo, pensò amaramente, perché stava tramando qualcosa che non aveva il coraggio di confessargli e sentiva la coscienza rimordergli.

    Bevve metà della birra, anche se non era fredda al punto giusto, collocò la bottiglia tra due piccoli massi, su cui posò anche la biancheria in spugna, si spogliò completamente e corse verso il mare. Il contatto dell’acqua fredda, sui piedi, lo fece rabbrividire, ma proseguì, finché gli arrivò a metà busto e allora si tuffò a pesce e si immerse del tutto. Si mise a nuotare con foga: se qualcuno lo avesse visto, avrebbe potuto pensare che fosse stato inseguito da uno squalo. In verità, al momento, non c’era nessuno da cui avrebbe voluto scappare, se non da se stesso. Nuotò verso il largo per una decina di minuti e cominciò a sentire il corpo che gli si stava piano piano intorpidendo dal freddo. Gli passò per la testa di continuare, ma durò soltanto un secondo. Con qualche bracciata, invertì la direzione e si proiettò verso la riva. Appena uscito dall’acqua, venne percorso da leggeri ma persistenti brividi che gli fecero ardentemente desiderare il caldo abbraccio del morbido accappatoio di cui si era fornito. Prima di indossarlo, si strofinò energicamente la pelle con l’asciugamano che poi girò intorno al capo, come fosse un turbante, e infine, per completare l’opera di riscaldamento, trangugiò tutto il contenuto della bottiglia. Si sedette sulla sabbia con le gambe incrociate, mentre il tremore diventava sempre più impercettibile. Quando se ne andò del tutto, si stese a pancia all’aria, con le mani dietro la testa a fargli da cuscino; cercò di imporsi di non ascoltare il tumulto dei pensieri che gli si affollavano nella testa, ma soltanto il sordo rumore del suo respiro e il ritmico sciabordio delle onde sulla riva. Sentiva il bisogno di entrare in armonia con quel paradisiaco ambiente, di sentirsi in pace e, per qualche minuto, ci riuscì, finché sopraggiunse il sonno e con esso, a frotte, arrivarono i soliti sogni frammentati: un turbinio di visioni ed emozioni che lo avrebbero agitato, fin nel profondo dell’animo.

    Capitolo II

    «Mamma, perché la signora sta sempre male?», chiese la piccola Lydia, sgranando i suoi occhioni azzurri.

    «Sei troppo piccola per capire», rispose la donna, mentre versava l’acqua calda nella teiera, posta sopra al vassoio da letto.

    «Non sono tanto piccola! Se mi spieghi, posso capire».

    «Allora ti dirò che certe donne non sono abbastanza forti per sopportare tante gravidanze. Sai cos’è una gravidanza, vero?».

    «Certo che lo so. È quando una donna aspetta un bambino».

    «Esatto. La nostra povera Lady Harrington ne ha portate a compimento tre. Forse, per lei, sono state troppe e la sua salute ne ha risentito».

    «Allora era meglio se non avesse avuto Steven?».

    «Oh, no! Questo non si deve dire! Il signorino è un dono del cielo!».

    «Meno male, perché sono felice che lui ci sia, è il mio migliore amico! Non vedo l’ora che arrivi l’estate, così lui torna al castello e possiamo giocare!».

    Beata innocenza! Giocherà con te ancora per un paio di anni e dopo sarà come se non ti avesse mai conosciuta, pensò Margaret, provando un moto di compassione per la sua bambina. Decise che era meglio cambiare discorso e si rivolse a lei, chiedendole: «Mentre riempio la zuccheriera, andresti a chiedere alla signora Emily se ti può dare qualche biscotto da portare a Lady Charlotte?».

    Lydia fece qualche passo, si avvicinò alla cuoca, che era indaffarata ai fornelli, e si fermò, in attesa che si accorgesse della sua presenza.

    Tra tutto il personale domestico, Emily era la persona che più le incuteva timore e la metteva in soggezione. Nonostante il suo aspetto corpulento, le guance grassocce sempre arrossate e i suoi occhiali rotondi, portati su un naso talmente piccolo che li reggeva a stento, potessero renderla simpatica e amabile a prima vista, il suo carattere irascibile e le sue continue lamentele la rendevano intrattabile. La bambina si rivolgeva a lei solamente quando ne era costretta, altrimenti preferiva starle alla larga.

    «Per caso, vuoi qualcosa da me, signorina?», le chiese, con la sua voce stridula, abbassando la testa sino al petto per guardarla da sopra gli occhiali. In verità, sapeva quale sarebbe stata la sua richiesta. Aveva sentito benissimo quanto aveva detto Margaret poco prima, ma il suo ego ne usciva rafforzato, quando le persone si rivolgevano a lei con trepidante rispetto, soprattutto se si trattava di bambini, per i quali non nutriva una profonda simpatia.

    «Sì, signora. Mia madre avrebbe bisogno di qualche biscotto da portare alla lady».

    «Non te li mangerai mica tu, vero?».

    «Oh, no di certo! Io ho già fatto colazione».

    «Allora, tieni. E stai attenta a non rompere il piatto!», disse la donna, bruscamente, mentre le porgeva un piattino di porcellana con un discreto assortimento di pasticcini.

    Emily lo prese con delicatezza, fece una piccola riverenza per ringraziamento e si sentì molto rasserenata, quando poté trasferirlo nelle mani di sua madre.

    «Posso entrare anch’io dalla signora?», chiese a sua madre, che aveva appena completato la preparazione del vassoio, ponendoci un piccolo vaso di cristallo con una unica rosa rossa, che suo marito aveva appena colto dal giardino.

    «Dipende da come si sente. Dovresti rimanere fuori dalla porta e, quando mi sarò informata sul suo stato di salute, ti farò sapere se puoi entrare o meno».

    La bambina la seguì, certa che Charlotte l’avrebbe fatta entrare. Sapeva di essere nelle sue grazie, lo capiva dal tono gentile con cui le si rivolgeva e dai complimenti che non si lesinava a farle. Anche a lei piaceva quella donna. La sua carnagione chiara, i grandi occhi azzurri, le macchioline delle efelidi, sparse sul suo piccolo naso, i lunghi capelli fulvi, che le ricadevano a boccoli sulle spalle, la facevano assomigliare a una di quelle bambole di maiolica che Ruth custodiva gelosamente nella sua camera. E come esse, anche lei aveva un aspetto così fragile, da farle temere che si sarebbe potuta frantumare con un piccolo tocco, se non fosse stato leggero come una carezza o lieve come un bacio appena accennato. Di lei ammirava anche il tono della voce che, se pur fievole come un sospiro di vento, le trasmetteva tranquillità e dolcezza. Avrebbe potuto trascorrere delle ore in sua compagnia, solo per sentirla parlare: non tanto per ascoltare le parole che le avrebbe detto, ma per udire la sinfonia lenta e melodiosa della sua parlata.

    Si era chiesta più volte, senza mai riuscire a spiegarselo, per quale motivo una donna così bella e gentile avesse potuto prendere per marito un uomo tanto vecchio, burbero e sgraziato, com’era il Signor Harrington. Il suo portamento goffo, i radi capelli, la barba e i basettoni bianchi potevano tranquillamente farlo sembrare suo padre, se non fosse stato per l’assoluta mancanza di qualsivoglia tratto che li potesse accomunare e far supporre una loro eventuale consanguineità.

    Per fortuna, i giorni in cui Sigmund Harrington soggiornava al castello, durante il periodo delle vacanze estive, si potevano contare sulle dita di due mani. Accompagnava la famiglia, pernottava e ripartiva il giorno seguente, di primo mattino, per poter raggiungere la città e i suoi affari al più presto. Di quali affari si occupasse, Lydia non lo sapeva, ma di certo dovevano essere molto impegnativi e ancora di più redditizi. Infatti, poteva permettersi di pagare lo stipendio a sua madre, che faceva la governante e assistente personale di Lady Charlotte; a suo padre, che curava il giardino; alla signora Emily, che era la cuoca; a Mary, che fungeva da tutrice per i ragazzi; alla sguattera Daisy e, infine, ad Alfred, che guidava la carrozza, quando necessitava, ma che, per lo più, aggiustava tutto quello che veniva danneggiato dal tempo e dall’uso. Era pur vero che, durante i mesi invernali, soltanto la sua famiglia rimaneva al castello, per vigilare e tenere in ordine la tenuta, mentre il resto del personale se ne tornava a casa propria o, nella migliore delle ipotesi, veniva occupato da qualche altra parte. Ciò le faceva supporre che, comunque, ci volesse un sacco di sterline, tante quante non ne avesse mai viste tutte insieme.

    Poi, Lord Harrington arrivava, a sorpresa, per qualche fine settimana e tutti sembravano presi da un attacco di panico, persino la figlia maggiore Caroline, Ruth, la seconda, e Steven, che aveva sette anni, uno in più di lei. Per non parlare del personale, che sembrava schizzare da una parte all’altra senza controllo, con l’intento di fargli trovare tutto perfettamente pronto, pulito e ordinato, ma con l’effetto, in verità, di far sembrare quel posto come un popolato formicaio in continuo movimento. Tale confusione non piaceva affatto al padrone, che raggiungeva il castello solo per assaporare un po’ di tranquillità, quella che i suoi affari e la convulsa città di Leeds non gli permettevano di ottenere. La sua presenza sembrava non giovare molto persino alla salute di Lady Charlotte, la quale, anzi, ogni volta sembrava più agitata e stanca del solito, nonostante egli si intrattenesse con lei per pochissimo. Infatti, trascorreva il resto del tempo facendo lunghe passeggiate in solitaria o rinchiudendosi nella sala rossa ad ascoltare brani di musica classica dal suo grammofono. Ciò non toglieva che trovasse sempre l’occasione per strigliare il personale di servizio, soprattutto Alfred, a cui venivano assegnati più compiti e che, per tale motivo, rischiava di non eseguirli tutti con la stessa precisione e competenza che il signore esigeva. Non di rado, si potevano udire dei rimbrotti, con la sua voce baritonale alterata, rivolti a qualcuno dei suoi tre figli, anche se quasi mai verso il piccolo Steven, per il quale era evidente che nutriva una certa predilezione.

    Lydia, a cui quell’uomo non piaceva affatto, cercava di evitarlo il più possibile, talora nascondendosi dietro alla gonna di sua madre, quelle rare volte in cui tutti e tre si trovavano nella stessa stanza.

    «Lady Charlotte ha detto che puoi entrare», le disse sua madre, facendo capolino dalla porta semiaperta della camera da letto.

    La bambina entrò e rivolse un aperto sorriso alla bella signora che stava seduta sul letto, con il vassoio della colazione appoggiato sulle ginocchia.

    «Ciao, piccola. Hai già visto Steven, questa mattina?».

    «No, signora, credo che sia ancora a letto. Io mi alzo presto con mia madre, perché

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1