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La casa delle madri
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La casa delle madri
E-book308 pagine5 ore

La casa delle madri

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Info su questo ebook

Ernesto e Elia sono gemelli e si inseguono in una specie di lontananza ravvicinata senza riuscire a toccarsi, come fossero rette parallele; Sarabanda e Speedy, i loro genitori, invece non la smettono di allontanarsi neanche quando credono di starsi vicino. E così Daniele Petruccioli ci conduce su e giù per le generazioni che si succedono in case dove le persone crescono, vivono, muoiono, traslocano e che sono forse le uniche vere custodi di una memoria che facciamo di tutto per rimuovere, ma permane ostinata. 'La casa delle madri' non è solo un’esplorazione dei delicati equilibri sui quali poggiano gli sbilanciati rapporti famigliari, ma è anche l’esordio di una voce narrativa capace di incantare il lettore, facendolo smarrire in una prosa ricca di affluenti ma al contempo sorvegliata e potente.
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2021
ISBN9788894845174
La casa delle madri

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    Anteprima del libro

    La casa delle madri - Daniele Petruccioli

    onde

    Parte prima

    La casa delle madri

    La casa è vuota. Le camere sono spoglie, le porte aperte, le finestre spalancate. I mobili non ci sono più, sono stati portati via da tempo. Due piccioni si posano sul davanzale della stanza che all’epoca era chiamata pomposamente biblioteca, ma l’odore forte di cemento fresco li scaccia quasi subito.

    Le ombre cominciano a risvegliarsi nei minuti di chiarore incerto che precedono l’alba prima dell’arrivo degli operai: si allungano, si rincorrono sui pavimenti grigi e polverosi che si susseguono identici di stanza in stanza, con i loro buchi sfondati, le spaccature grossolane delle tracce per gli impianti ancora da montare, le impronte lasciate sulla polvere dagli scarponi, il senso di sventramento generale.

    È una casa grande. Deve essere stata una casa sfarzosa, si capisce dalle voragini delle doppie porte in infilata, in un rincorrersi di promesse da boudoir, unioni e separazioni di altri tempi. Questi tramezzi stanno tutti per essere buttati giù. Lasceranno spazio a divisori asimmetrici, a un senso delle forme meno prospettico e più articolato, ambivalente, che si vuole più moderno. La nuova padrona di casa ne ha parlato a lungo con l’architetto, insieme si sono confrontati con l’arredatrice e tutti hanno convenuto che è molto più funzionale così. Perciò questa è l’ultima volta che l’infilata di stanze osserva se stessa, che si rispecchia nelle sue estremità gemelle, mentre il ricordo dei passi che l’hanno percorsa si raccoglie negli angoli sotto il massetto, per farsi murare tra una tubatura e un fascio di fili elettrici perfettamente a norma.

    Le porte scorrevoli del salone grande sono state portate via. Il legno era buono ma non eccelso, non valeva la pena cercare di recuperarlo come il parquet in noce di quella che era stata la sala da pranzo. Il dipinto bicolore – panna e verde spento, chiaro – che c’era sopra non incontrava il gusto della nuova proprietà, dell’architetto, dell’arredatrice. Il nome in piccolo che il pittore aveva mimetizzato tra i fili d’erba in basso a sinistra, nome di una bambina che sarebbe cresciuta, fiorita in questa casa, che da questa casa sarebbe uscita per diventare madre, che ci sarebbe ritornata dopo avere sepolto la sua e che alla fine qui sarebbe morta senza avere avuto il tempo di sfuggire un’ultima volta alla casa, quel nome è stato cancellato. Un alito di vento, sembra di sentire qualcuno che sospira. È stato tanto tempo fa.

    Era grande, la cucina, un tempo. I ripiani di marmo di Carrara si specchiavano nel lavello, di marmo anch’esso, almeno in parte, e nella lunga infilata di fornelli, sul rubinetto dell’acqua potabile che, fino agli anni dei gruppi operai e delle riviste del femminismo storico, ha lasciato scorrere il suo controcanto alla fontanella del cortile (la prima a soccombere). I ripiani di marmo di Carrara non c’erano più già da tanto tempo, cambiati a metà tra l’una e l’altra vita, tra l’una e l’altra morte, quando una delle madri aveva speso i primi soldi per un capriccio colorato. Anche questo capriccio è stato preso, spaccato e suddiviso. Giace smembrato in punti diversi di altre case, seguendo motivazioni di vendetta, di nostalgia. Ma, anche questo, è stato tanto tempo fa.

    Le mani già nodose, quasi vecchie, della portiera che veniva ogni tanto a fare da cuoca nella casa del notaio, afferrano sicure il pentolino inox, lo sollevano ancora rovente dai fornelli e lo spostano a circa un metro e mezzo di distanza, sopra il tavolo di marmo dove riposano sei stecchini di legno, sei stuzzicadenti. Oggi, tutti i nipoti piccoli sono qui e la portiera brava a cucinare vuole dar loro un poco della solita dolcezza, in mezzo ai pianti, e ai silenzi ancora più spaventosi, degli adulti.

    Il notaio è morto ieri, dopo un anno di spegnimento lento, o veloce, a seconda dei punti di vista. Quasi un anno fa è morta sua moglie e lui è andato morendo un po’ per volta fin dal mattino dopo. Nessuno se lo aspettava. Ma tutti si sono dovuti rassegnare. I grandi più dei bambini.

    Le mani già nodose e con qualche ruga, benché ancora senza le scavature profonde della vecchiaia che assumeranno nelle atrocità di altri anni, spostano con sicurezza il pentolino in cui sobbolle il centimetro e mezzo di zucchero squagliato dalle fiamme. Zucchero d’orzo viene chiamato, in virtù di chissà quale incrocio di nomi, di esperienze, di penuria che risale forse all’ultima guerra (ancora, felicemente, l’ultima). Ai bambini non è dato saperlo e come al solito nessuno gli racconta niente e loro lo accettano così, come una magia di c dure da rompere con i denti e che poi sciolgono in o di meraviglia, tra la dolcezza fluida delle z. È un nome di bontà e consolazione, non ha bisogno di essere spiegato. Il pentolino veleggia sopra il tavolo di marmo, sopra gli stecchini, e lascia colare il suo contenuto bollente in polle marroni che, indurite e staccate delicatamente dal ripiano, si trasformeranno in lecca-lecca capaci di scacciare anche la morte.

    Tra poco ci saranno i funerali.

    Ancora un giorno o due, il tempo di organizzare spostamenti, raccogliere telegrammi. Il corpo lascerà il letto nuziale, teatro già di quell’altra morte, per essere messo dentro la bara nella stanza che ancora oggi viene chiamata un po’ pomposamente biblioteca, un salottino buio nonostante due grandi finestre, foderato di scaffali pieni di volumi ordinatamente allineati: strenne, libri d’arte e geografia, guide turistiche, riproduzioni di codici e incunaboli, libri sulla città della famiglia del notaio, Guides Bleus, l’Enciclopedia Treccani, una cinquantina di volumi della letteratura italiana della Ricciardi. Le opere complete di Lenin arriveranno a breve. Ci sono alcune traduzioni della moglie del notaio. Non ci sono gialli, né le carte geografiche che pervadono col loro misterioso profumo la casa del mare.

    La bara verrà sistemata davanti a uno dei due divanetti in pelle. Sarà dello stesso colore chiaro. Lì, sulla sinistra, qualche giorno dopo, un’anziana signora scuoterà la testa davanti alle risate e alle grida dei bambini.

    La portiera brava a cucinare chiama i sei piccoli – quattro maschi e due femmine – in cucina. Lo zucchero d’orzo si è quasi raffreddato. Sa che ai bambini piace prendere delicatamente gli stuzzicadenti con due dita e staccare – «Piano, piano, sennò si rompe!» – ognuno il suo lecca-lecca. Tra poco, bisognerà cominciare a pensare alla cena.

    Le grida dei bambini che corrono risuonano per tutta casa. La festa dei gemelli è stata organizzata dalla madre, la figlia minore del notaio. È da sempre una donna molto decisa, molto amata e molto disapprovata. La casa adesso è sua, lo ha sentenziato (davanti a tutti i figli) sua madre sul letto di morte un anno fa. Nessuno ha osato aprire bocca.

    Lei, col piglio ingenuo che la contraddistingue, procede nel tentativo inconscio di scacciare gli spiriti, prima di venirci ad abitare: tentativo del resto iniziato già dal giorno prima, quando, come atto iniziale del trasloco, è scesa a sistemare, in uno degli scaffali più alti della biblioteca, i venti volumi circa delle opere complete di Lenin, chiesti al padre come regalo per i suoi diciotto anni (ormai quasi diciotto anni fa). Il notaio glieli aveva comprati senza batter ciglio – aveva sempre ammirato e forse al contempo un po’ compianto il carattere volitivo e solipsista della sua ultima, bellissima bambina, con quel naso greco e i capelli da rivoluzionaria afroamericana. Quando era piccola riusciva sempre a sfuggire alle ire di un padre di troppe femmine, abituato a far valere il suo impero casalingo a forza di voce grossa e calci in culo, e da grande aveva sempre rifiutato l’aiuto del suo potere, che avrebbe potuto avviarla verso una carriera moderna e brillante (per esempio, da giornalista), trovandosi un impiego di insegnante e dedicandosi anima e corpo agli studi e alla politica femminista.

    La festa per il compleanno dei gemelli, aveva sentenziato poi, dopo avere finito di sistemare i volumi con la copertina di cartoncino rosso degli Editori Riuniti, si sarebbe tenuta in questa casa, dove comunque tra poco lei e i bambini sarebbero venuti ad abitare.

    La madre dei gemelli ha questo modo di porsi da sola contro il mondo, con il sorriso e una sicurezza che in realtà non le appartiene affatto, che fa imbestialire il mondo e lo fa reagire in maniera anche violenta. Lei non se ne capacita. La ragion d’essere della sua ribellione è sempre stata quella di rendere il mondo fiero di lei, come suo padre, di aiutarlo a capire, ma il mondo tende ad accogliere gli atteggiamenti rivoluzionari in maniera ambivalente. Se hanno molto seguito e sono almeno in apparenza molto violenti, è un conto. Se sono tangenziali, pacifici e tendono a rifiutare il potere – e i suoi simboli – oltre una certa soglia, allora è un altro paio di maniche. La madre dei gemelli ne avrà una prova tra circa un mese, quando le sorelle si presenteranno e le diranno che sì, la madre la casa l’ha lasciata a lei, ma non quello che c’era dentro. La sfilata di oggetti che usciranno dalla porta – primo scampolo dell’emorragia che fa seguito a ciascuna morte – sarà una lezione importante. Lei – si chiederà la madre dei gemelli – sa ricordarsi di sua madre e di suo padre anche senza quegli oggetti e le sorelle no? Se sì, perché li hanno voluti? Davvero il loro atteggiamento evidenzia solo un’avidità insultante o hanno ragione loro, le sorelle, a voler conservare la memoria negli oggetti, a depositare la permanenza nella materia e, quando possibile, nella ricchezza? Perché quanto ci sembra ovvio, e giusto, e bello, viene sistematicamente messo in discussione? Cosa dobbiamo disimparare, vivendo? Da questo scaturiranno le sue lacrime una sera, tra circa un mese, da queste domande forse adolescenziali di trentacinquenne separata con due figli, sola nella grande casa dei suoi genitori appena morti che già comincia a svuotarsi, prima ancora di riempirsi delle nuove presenze. Di questo i gemelli, bambini ossuti e paffuti con quattro occhi nocciola che ancora non hanno visto niente, che già hanno visto tutto, la consoleranno – cercheranno di consolarla – con baci e sorrisi spaventati, in uno dei loro tanti goffi tentativi di bastare a due genitori troppo giovani e sempre in fuga. Ma questo non lo sanno i gemelli – o non lo sanno dire –, non lo sa ancora la madre – o non sa come volerlo sapere. Succederà tutto più in là.

    Adesso è il momento della volizione, della presenza, del tentativo inconscio di scacciare la morte via da casa. Adesso c’è appena stato il funerale del notaio e nella casa si svolge una grande festa di bambini.

    Sono tantissimi. Sono venuti tutti. I cugini piccoli, i figli degli amici di mamma, i figli degli amici di papà, tutti – ma proprio tutti – i compagni di scuola. Ci sono perfino i cugini di secondo grado e gli amici del nuoto. La morte è un grande catalizzatore, ma questo i gemelli non lo sanno. È la loro festa, e corrono.

    Corrono nell’infilata di stanze separate da doppie porte scorrevoli dipinte di panna e di verde chiaro spento, corrono nella grande sala da pranzo con il tavolo coperto di panini al salame e tramezzini al prosciutto e all’insalata di pollo, corrono con i bicchieri semivuoti ancora in mano, li rovesciano, sporcano i pavimenti lucidati dai passi lenti e compassati della morte, scompigliano il dolore. Corrono nel labirinto delle camere da letto, si perdono per i corridoi bui rispetto alla luminaria delle grandi finestre sulla piazza, ridono, urlano, fanno rumore. I gemelli, soprattutto, eroi di quel giorno, urlano più degli altri, specialmente quando si riavvicinano alla cucina, intorno alla quale gravitano fin dall’inizio, come sempre.

    La cucina è ancora bianca, non sa che un giorno sarà blu e poi più niente perché il perimetro della stanza verrà destinato ad altri usi – pezzi di azzurro dissolti in tante case, tante vite diverse, la loro integrità affidata ormai soltanto alla memoria. Ma al suo centro, sul tavolo di marmo bianco, torreggia la promessa mantenuta dalla madre dei gemelli: una gigantesca torta ricoperta di glassa azzurra. I gemelli l’hanno vista in vetrina dal pasticciere sotto casa e si sono fermati incantati a fissarla. Le loro bocche a cerchio, le guance paffute dell’uno, gli zigomi sporgenti e spigolosi dell’altro, i quattro occhi nocciola che sembrano abissi agli occhi uguali della madre, stupefatta di fronte a quella pozza di identità oscura, hanno convinto Sarabanda – la madre dei gemelli – a promettergliene una uguale per il giorno del loro compleanno. Poi la morte del nonno, lo stupore. La paura, il funerale, tutto sembrava concorrere a una dimenticanza quando, proprio di ritorno dal cimitero, madre e gemelli sono ripassati davanti alla vetrina della pasticceria (ora banalizzata da un profiterole qualsiasi o da una sachertorte ancora troppo amara per la loro infanzia) e tutti e sei i loro occhi hanno rallentato la propria fuga gli uni dagli altri per convergere verso quel fulcro di promessa.

    Uno dei gemelli ha detto: «E la nostra festa?».

    L’altro gli ha fatto eco con un inizio di piagnucolio.

    La madre, di solito molto dura di fronte alle lagne – seppure poi cedevole, non si sa se per amore o per stanchezza –, ha subito acconsentito. La festa, la sua organizzazione, gli inviti, i preparativi, la discussione con il pasticciere sul tipo e sui tempi di consegna della torta azzurra (cominciata di lì a cinque minuti, ancora prima di tornare a casa) avrebbero scacciato un po’ di morte dai pensieri, dalla casa.

    Così aveva immaginato Sarabanda, senza preoccuparsi della disapprovazione sorda del mondo di fronte a quella plateale – e immediata – rottura del lutto.

    I gemelli volevano molto bene al nonno (a questo nonno, l’altro era morto quando avevano tre anni, e per loro era sempre stato una voragine negli occhi del padre, una forza centrifuga che lo aveva spinto a scappare, che glielo aveva portato via in modi diversi che declinavano un’assenza sempre uguale). Ma soprattutto adoravano la nonna, che stava con loro tutti i giorni, spesso anche di sera. Addirittura Elia (il gemello sano) godeva, unico fra tutti i nipoti, di un privilegio immane: potersi sedere sul divano dove la nonna si sdraiava dopo cena, quando tutta la famiglia si riuniva a guardare la tv – una delle prime a colori – a casa dei nonni. Lei stendeva le gambe sopra le sue e lui si sentiva un principe. L’eletto, il preferito. Paonazzo d’orgoglio, sorbiva paziente una quantità di teleromanzi atroci dal titolo puntualmente ferale o minaccioso. Solo una volta Elia si era visto togliere quel privilegio, a seguito di un grave peccato, per un paio di giorni.

    Quel pomeriggio, attaccando le figurine nell’album dei supereroi, si era sbagliato per la quarta volta. Era uno di quegli album nuovi, in cui molte figurine non erano rettangolari ma avevano una forma strana, ricurva, dagli angoli smussati, e andavano a coprire le macchie bianche di grandi affreschi incompleti a tutta pagina, svelandone così protagonisti e azioni. Ma se non le appiccicavi alla perfezione il disegno si ribellava, si faceva cubista, si rifiutava di dare continuità all’azione e senso alla storia. E la perfezione figurale, la continuità ininterrotta delle linee sulla pagina – difficilissima a sei, sette anni – era specchio di uno sforzo direttamente proporzionale alla sua capitale importanza. Al quarto braccio rotto, perciò, alla quarta faccia scomposta, al quarto grido di guerra spezzato, il gemello sano non ce l’aveva fatta. Era scattato in piedi e con un urlo di disappunto si era precipitato fuori dalla casa dei nonni, inseguito dai «Dove vai? Guarda che lo dico a tuo nonno» lanciatigli dietro dalla Dini, una specie di tata collettiva che abitava al secondo piano e si era occupata a turno dei più di dieci nipoti del notaio, di cui i gemelli e i cugini della loro stessa età costituivano l’ultima nidiata. Elia (il gemello sano) non le aveva badato ed era salito in ascensore, inseguito dalle grida della Dini e dagli sguardi allibiti del fratello e dei cugini.

    Non che ci volesse poi tanto coraggio a scendere giù, uscire dal portone, aspettare il verde del semaforo e attraversare attento, fino al giornalaio. Sarabanda lo mandava già da un po’ a comprarle giornale e sigarette. Era uno dei suoi privilegi da gemello sano, in cambio del non meglio specificato compito di stare attento a suo fratello, che gli veniva imposto da sua madre ogni mattina – provocando la rabbia sua e di Ernesto, l’altro gemello – prima di lasciarli davanti al portone della scuola. Ma stavolta la discesa non era venuta a seguito di nessuna richiesta, Elia non aveva alcun permesso, e questo era un altro paio di maniche. In più, non sapeva se la giornalaia gli avrebbe creduto quando le avrebbe chiesto di mettere sul conto del nonno (altro abisso da valicare) il nuovo album e tre bustine (anzi cinque) di figurine.

    La luce bianca fuori dal portone lo avvolge come una carta moschicida appiccicosa. Il semaforo pare vacillargli davanti agli occhi, come incerto se scattare sul verde, di fronte a tanta hybris. Le gambe del gemello sano, piccole, magre, forti, si fanno di burro. Una malattia sembra insinuarsi in tutte le sue membra, la lingua gli si appiccica al palato e permette ai suoi pensieri di considerare per un attimo la possibilità di ritornare indietro. Troppo tardi. Ormai è uscito di casa, la nonna certo lo sa già. E poi Elia era abituato a doversi fare forza, a esistere per due, era abituato a pretendere dalle sue gambe e braccia scarne di prestarsi a un raddoppiamento di energia, a non cedere mai per compensare le impossibilità ineffabili, inespresse eppure così pervasive del fratello. Non che fosse Ernesto a volerlo. Anzi. La leggerezza scattante delle membra di Elia, che Ernesto combatteva con altrettanta prontezza di intelligenza e capacità comunicative, era per lui un peso più atroce della sua stessa malattia. Ma due gemelli sono vasi comunicanti. Se non per sé, per gli altri. E Sarabanda, così attenta a vestirli in modo sempre diverso, a non mescolarli mai agli occhi del mondo, non si rendeva conto di quanto fossero complementari ai suoi. Le aspettative delle madri nei confronti dei figli sono sempre una faccenda complicata di per sé. Quando i tuoi unici figli sono due gemelli, di cui uno è sano e l’altro malato, la cosa tende a complicarsi ancora. Se poi la madre ha assunto il ruolo di ribelle fallica in una famiglia numerosa e patriarcale fatta di pochi maschi e molte femmine, il risultato rischia di essere particolarmente ingarbugliato.

    Di tutto ciò, Elia sa solo che ha dovuto imparare presto a compiere uno scatto, a superare un gradino interno. Se chiude gli occhi e fa un piccolo respiro (ma spesso non c’è neanche bisogno di questo piccolo intervento della volontà – succede e basta) può diventare all’improvviso molto più forte, più coraggioso – più cattivo, generoso, egoista – di quanto sia in realtà. Insomma, diverso. Forse per questo lui e Ernesto (che pure ha una capacità simile – o meglio uguale e contraria, speculare – di rifugiarsi nella malattia) hanno imparato presto a non fidarsi della sicurezza ostentata da Sarabanda, che ai loro occhi, tra le tante altre cose, è anche un abisso fragilissimo, da tenere stretto e consolare perché non voli in pezzi e non li lasci soli, come ha già fatto il papà.

    Un semaforo che vacilla, una luce nauseabonda, la paura del castigo, sono poca cosa per lui. Elia chiude gli occhi, respira appena con il naso, e quando li riapre è verde. La giornalaia non oppone difficoltà di fronte alla voce sicura e allo sguardo fermo del bambino (del resto non è affar suo, se tutti i componenti della famiglia del notaio sono così viziati). Riattraversa di corsa la strada, torna nella penombra rassicurante del portone, saluta la portiera e si precipita su per le scale senza nemmeno aspettare l’ascensore. La porta della casa dei nonni (come quelle di molti appartamenti) è aperta. Nel palazzo vivono un sacco di persone di famiglia e i bambini hanno libero accesso più o meno ovunque. Perciò non ha bisogno di suonare il campanello. Entra in casa e si ritrova immediatamente davanti agli occhi gelidi e azzurri, all’espressione dura di nonna Nina. La mano aperta aspetta che lui consegni il corpo del reato, cosa che il piccolo gemello fa senza fiatare. In un soffio di rabbia la nonna decreta la sentenza: «Mai più sotto le gambe».

    Gli sguardi trionfanti del fratello e dei cugini lo invadono, contemporaneamente al libero flusso delle lacrime. L’ostracismo verrà revocato dopo soli due giorni – a seguito di reiterate manifestazioni di umiltà e sottomissione assoluta da parte del gemello sano – ma due giorni bastano. Elia ormai sa che il suo destino non sarà mai quello di un ribelle, che non potrà ricalcare le orme di Speedy e Sarabanda, i suoi genitori immensamente amati, sempre inafferrabili e angosciati, perennemente in fuga.

    Alla fine la torta è arrivata. Più bella di quanto i gemelli avessero mai osato immaginare. Alta due piani, ricoperta di glassa, tutta azzurra e con dei fiorellini blu. Elia non vede l’ora di assaggiarla. Lui e Ernesto gravitano intorno alla cucina fin dal mattino, già coltivando la dolce gelosia reciproca su chi sarà a dare il primo taglio, chi riceverà il primo trancio, chi saprà far durare più a lungo il piacere del gusto.

    Elia corre, ma non incontra mai la cadenza inconfondibile della corsa appena claudicante del fratello. È strano, perché la sua corsa forsennata prevede passaggi per tutta la grande casa dei nonni, dai bagni alla cucina all’infilata di saloni, alla camera da letto che sarà di Sarabanda, fin dentro le piccole stanze dei bambini. Ma di suo fratello nessuna traccia. Ernesto non c’è, nemmeno vicino ai tramezzini e alla Coca-Cola. Con la coda del cervello Elia, fratello sano, registra la scomparsa ai suoi occhi e alle sue orecchie del gemello malato, che forse gioca a nascondino proprio con lui, senza che lui lo sappia. In un precoce allenamento di future angosce, Elia, correndo e gridando, apparentemente del tutto assorbito dal gioco, apre occhi e orecchie ai visi e alle voci intorno, per vedere se riesce a cogliere un segno di Ernesto, il cui allontanamento, lo sa, deve rappresentare per lui un inizio di allarme.

    Ernesto e Elia giocano e giocheranno a rimpiattino per tutta la vita, cacciandosi spasmodicamente via e altrettanto spasmodicamente cercando un qualche modo di toccarsi. Hanno cominciato fin da piccoli, a seguito di quella spinosa frase – «Bada a tuo fratello» – conficcata come una lama nella libertà dell’uno, nell’indipendenza dell’altro. Non potevano sapere allora, e probabilmente non lo sapranno mai, quanto sia proprio questo imperativo a impedirgli di entrare in contatto. Tanti anni dopo, dopo altre nascite e altre morti, staranno ancora disperatamente insieme al sole della Toscana, lanciandosi sguardi in tralice tra un silenzio e una ferita, cercandosi e sfuggendosi, senza mai trovarsi nell’uno o nell’altro movimento, centrifughi a se stessi.

    Così l’attenzione di Elia, pure nel gioco, capta ogni movimento intorno a lui, le frasi dei grandi, i sorrisi di circostanza, l’apertura e la chiusura delle porte, gli sguardi persi di qualche zio, gli scampoli di morte di cui ancora c’è traccia nella casa. È entrato in biblioteca correndo, ma si blocca. Ha visto l’altra nonna, la nonna vedova, la madre di suo padre. Parla con una zia, sorella di sua madre. Scuote la testa. Guarda la stanza. Dice: «Se penso che fino all’altro ieri qui c’era la bara…».

    Scuote di nuovo la testa. Elia scappa via correndo.

    Per tutta la vita si chiederà se l’altra nonna abbia fatto apposta a dire quelle cose proprio nel momento in cui era entrato lui. E da allora quest’altra nonna, nonna Ilide, adorata da suo fratello, agli occhi di Elia resterà per sempre la nonna colpevolizzante. Una donna austera, patriarcale, molto religiosa, dura. Una donna che sembra voler scomparire, ma smisuratamente ambiziosa nei confronti dei maschi di famiglia. E la sua famiglia non avrà che maschi. Figli maschi, nipoti maschi, e al centro lei. La nonna che sa cucinare bene. La nonna dei pomeriggi di crema fatta in casa e di uncinetto. La nonna delle domeniche davanti alla televisione. La nonna che non farà mai mistero della sua disapprovazione nei confronti di Sarabanda, che non sa cuocere due uova, che ha lasciato il marito per motivi politici, senza un vero tradimento, una lite, un perdono, una cosa normale (i gemelli sanno che liti ce n’erano state, che nella loro casa di bambini non c’era pace, che l’irrequietezza di quei due non sapeva fare altro che trovare motivi di attrito, ma sono troppo piccoli per discutere con nonna Ilide, che peraltro ha le idee molto chiare e non saranno certo due bambini viziati a fargliele cambiare). La nonna che scuoterà la testa ancora e ancora, di fronte al primo orecchino di Elia, di fronte al suo primo taglio bizzarro di capelli, al suo primo fine settimana fuori con la fidanzata (perché «l’uomo è il fuoco e la donna la stoppa; se li metti vicino…»). La nonna che sta sempre in casa pronta a consolare, a dare una parola di conforto nella disgrazia, nell’incertezza, nella disperazione, ma che forse proprio per questo quella stessa incertezza, quell’angoscia, sembra aspettarla, vezzeggiarla (lo stesso Elia ne approfitterà, egoisticamente, tra qualche anno, quando nella sua adolescenziale ricerca del padre finirà in una spirale apparentemente insanabile di conflitti, e si vergognerà poi di avere approfittato della eterna, generosa disponibilità sacrificale di nonna Ilide; al contrario Ernesto, convinto già di essere abitato solo dalla disgrazia e stufo dei continui tentativi di Sarabanda di

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