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Quattro tempi
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E-book259 pagine4 ore

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La storia copre nove mesi della vita di una famiglia, nove mesi in cui si vedono nascere e svilupparsi dinamiche nuove, che porteranno a un omicidio. Tali dinamiche hanno origine dal seno stesso della famiglia, e non sono così straordinarie da giustificare l'atto finale. Sono il frutto di fraintendimenti, proiezioni, nevrosi, insofferenze, problemi personali che alimentano però un crescendo di tensione che sfocia infine nel delitto conclusivo. L'assunto vorrebbe essere proprio questo: come delle azioni estreme siano innescate da dinamiche banali, dalla follia della vita quotidiana e dalla mancanza di comunicazione e di ascolto che cova dentro le relazioni tra le persone. La storia è quindi immersa nella quotidianità apparentemente più trita, e si snoda nel tempo attraverso gli orari che scandiscono le giornate, e che si susseguono a ruota per ciascun componente della famiglia. I famigliari sono quattro, due genitori e due figli, e ciascuno parla per sé, anche se in terza persona. La struttura del romanzo riflette questo alternarsi di voci ritagliando quattro paragrafi per ogni capitolo, uno per ogni personaggio. Il procedere della storia sarà dunque diacronico, nel susseguirsi delle fasi del giorno e dei mesi che portano avanti la vicenda, ma sarà sincronico nel riservare a ciascun famigliare uno spazio narrativo proprio e contemporaneo a quello degli altri. Quando i quattro protagonisti si incrociano la stessa scena sarà così raccontata da più punti di vista, uno per ognuno di loro. Il romanzo è quindi leggibile anche in verticale: seguendo la vicenda di un solo famigliare alla volta attraverso i nove mesi della trama, perché ciascuno porta avanti una storia propria, che si intreccia con quella complessiva e che contribuisce a innescare l'esplosione finale. Al di là di queste articolazioni logiche il romanzo è portato avanti per immagini e cerca di stare dentro al solo sentire dei personaggi.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2021
ISBN9791220377300
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    Anteprima del libro

    Quattro tempi - Jessica Pecchioli

    1

    1.m: Erano le sei e mezzo e gli altri non c'erano ancora: Marcella si era svegliata per prima, come ogni mattina, per preparare la colazione. A breve sarebbe arrivato Franco.

    Il turno di lavoro di suo marito cominciava alle otto e la fabbrica si trovava ad almeno mezz'ora di strada, nell'anello nuovo che chiudeva la città in un cerchio irregolare di cemento e ferro. Subito dopo si sarebbe vista Elisa, che aveva ricominciato la scuola da pochi giorni. Era in seconda quell'anno e non sembrava per nulla contenta; chissà perché.

    Marcella aveva messo sul fuoco la caffettiera e il bollitore del latte, aveva apparecchiato la tovaglia a quadri -quella piccola, che non arrivava a coprire tutto il piano del tavolocon la tazza, le posate, il pane, la marmellata d'arancia. Il pane era quello del giorno prima ma lei l'aveva tagliato a fette sottili e lo aveva tostato appena, nel fornetto elettrico che da sopra il frigorifero continuava ad alitarle all'orecchio un soffio di calore. Marcella finì di chiudergli la bocca: faceva fin troppo caldo, già di prima mattina, nonostante ormai fosse settembre. Intanto con un occhio controllava le increspature sulla superficie del latte.

    Nel vetro della finestra che sormontava i fuochi vide il riflesso di suo marito, che entrava in cucina e si sedeva al suo posto, quello alle spalle della porta: ave va già indosso la sua tuta blu. Marcella fissò lo sguardo sullo specchio di latte che ancora non era mosso abbastanza dal bollore sottostante, quasi a volerlo sollecitare con gli occhi, come si vede fare alla luna con la cresta del mare. Dietro di lei sentiva il silenzio pesante di Franco, lo sbattere concentrico del coltello dentro il vasetto di marmellata. Allora spense il latte così com'era e aprì il coperchio della caffettiera, a guardare venire su gli ultimi spruzzi di schiuma. Poi mise tutto su un piccolo vassoio di metallo che era già pronto, accanto ai fuochi, e si girò verso suo marito.

    -Buongiorno.

    Franco sollevò appena lo sguardo e si incurvò di più sopra la fetta di pane che stava spalmando di marmellata. Intanto si guardava l'orologio al polso, con un gesto più grande di quello che serviva. Marcella quasi incespicò con i piedi nelle ciabatte, per avvicinarsi veloce alla tavola e posarci sopra il vassoio, fumante dei due contenitori. Quindi si mise di lato, in una posizione di servizio reso, e guardava suo marito sbrigare a capo basso la colazione.

    A pane finito Franco si sorbì il caffellatte, e scostata rumorosamente la sedia, si alzò e uscì di cucina, lasciando la tavola ingombra degli avanzi. Marcella caricò il vassoio della tazza sporca e delle posate, della caffettiera e del bollitore svuotati, infine del vasetto di marmellata a cui stretto avvitò il tappo. Portò tutto al lavello, sciacquò il barattolo delle gocce che erano colate giù, a rigare il vetro e la carta dell'etichetta, e con la spugna insaponata prese a rigovernare il resto.

    Dietro le tende sottili della finestra il sole cominciava a riscaldare il cielo, e la spuma del detersivo brillava del suo riflesso. Ne restava poco di detersivo: con un'occhiata obliqua al flacone Marcella calcolò che sarebbe appena bastato per un altro paio di rigovernature. Avrebbe dovuto ricomprarlo quando più tardi sarebbe andata a fare la spesa.

    Finito di risciacquare l'ultimo coccio, si asciugò le mani al panno che penzolava al bordo della finestra, e raggiunta la lavagnetta magnetica, che campeggiava sul frigorifero come un quadro aperto su una parete, ci scrisse sopra: detersivo. Lo scrisse col pennarello blu che aveva staccato dalla sua calamita, e che strisciava un corsivo lento e stento. All'aprirsi e poi sbattere della porta di casa la R sobbalzò un attimo tra le dita di lei: suo marito doveva essersene andato in quel momento. Marcella lasciò passare un altro secondo, come ad aspettare che il silenzio le confermasse l'uscita di Franco, poi finì di scrivere detersivo sulla lavagna e si raddrizzò: il sole, che rafforzava la sua luce oltre la finestra, sembrava condividere il suo sollievo.

    -Buongiorno mamma.

    Come colta in flagrante lei sobbalzò alla voce di sua figlia, e chiuse il tappo sul pennarello. Quindi si voltò, e si accorse che oltre Elisa la tavola era sparecchiata, e che la tazza, le posate e la marmellata erano ancora lì, accanto al lavabo. Svelta cacciò tutto sopra il vassoio, e riempì la macchinetta di una nuova dose di caffè.

    -Scusami ti apparecchio subito.

    Sibilò concitata verso sua figlia, che sentiva farsi più vicina dietro la contrazione delle proprie spalle.

    -Posso fare da me mamma, non ti preoccupare.

    E intanto Elisa sembrava mirare al vassoio. Ma lei fu più veloce, e l'afferrò per prima:

    -Faccio io.

    Rispose brusca senza distogliere lo sguardo dalla caffettiera, che doveva sbrigarsi a cacciare fuori quel benedetto caffè. Dietro di lei la presenza di sua figlia si allentò: doveva essersi seduta a tavola.

    Abbassato il gas sotto la macchinetta che cominciava a gorgogliare il suo bollore, Marcella si voltò per apparecchiare a Elisa, che infatti era seduta, tutta immersa nel cellulare che andava come scorrendo con le dita. Lei si avvicinò col vassoio tra le mani e depose sul tavolo la tazza e le posate, la marmellata e il pane; sua figlia non sembrò neppure accorgersene, china com'era sul telefono, coi ricci che le piombavano in avanti come una cortina. Intanto si sentiva la caffettiera condurre a termine il suo parto, mentre per l'aria se ne andava diffondendo l'aroma.

    Marcella tornò ai fuochi, spense quello sottostante la macchinetta, prese dal frigo il cartone del latte e si fece di nuovo vicina al tavolo, per riempire la tazza a sua figlia, che neanche stavolta fece una piega. Bene, ne avrebbe approfittato per andare in bagno, e Marcella si sfilò dalla vita il grembiule, lo appoggiò allo schienale di una sedia e uscì dalla stanza senza fare parola.

    Ci rientrò poco dopo: Elisa non c'era più, ne rimanevano soltanto i resti della colazione. Marcella tornò a indossare il grembiule, e per la seconda volta sparecchiò la tavola e rigovernò i cocci sporchi. Intanto guardava il nulla fuori dalla finestra, senza sapere perché, forse solo per non vedere di nuovo le bolle del detersivo dissolversi sull'acciaio e sulla ceramica che andava lavando.

    Ma presto tutto tornò in ordine: ormai all'appello della colazione mancava soltanto Andrea. Lei lasciò l'ultima caffettiera pronta sul fornello e la tavola di nuovo apparecchiata della tazza e della marmellata. Tutto in attesa che si svegliasse suo figlio, che ancora non aveva un lavoro: lo cercava da un pezzo ma proprio non riusciva a trovarlo, perché era sfortunato il suo ragazzo.

    Marcella chiuse la porta sulla cucina inondata del chiarore del primo sole, e passando il piccolo corridoio quadrato, raggiunse la propria camera, ancora immersa nel buio delle tapparelle abbassate. Lei si avvicinò alla finestra e l'aprì, lasciando che la luce rivelasse lo scompiglio del letto disfatto. Cominciò a riassettare le lenzuola, tendendole aderenti al corpo del letto, poi scosse i cuscini, li ricollocò in cima e ricoprì tutto con la coperta leggera che ancora occupava il posto del piumone invernale. Allora si sfilò il grembiule dalla testa, si sistemò meglio il vestito a fiorellini che aveva indosso e ci cacciò sopra un golfino di filo chiaro, che se ne stava sopra la sedia ai piedi del letto. Sul letto si mise poi a sedere, per sfilarsi le ciabatte e sostituirle con le scarpe che aveva tirato via da sotto la sedia, dove se ne stavano allineate a un altro paio dello stesso modello, ma marroni anziché blu. Erano sandali, con una zeppa solida a rialzare il tallone e con fasce larghe a rivestire il piede. Ne scappavano appena due dita, le altre rimanevano strette a premere la forma della pelle. Marcella calzò le scarpe, serrando bene il cinturino attorno alla caviglia, poi si alzò e fece per uscire dalla stanza.

    Sul retro della porta, come affacciato sulla camera, era appeso uno specchio lungo, opacizzato agli angoli da una lentiggine fitta di ruggine. Sopra lo specchio, allacciati ai ganci che lo sormontavano, pendevano i corpi di due borse, che moltiplicate dentro il riflesso parevano più grandi del necessario. Marcella tirò via quella chiara, di pelle finta, e se l'appese alla spalla.

    Liberato dal volume della borsa lo specchio rivelò d'un tratto l'immagine di lei: i fili bianchi disseminati nella crocchia di capelli neri, il gonfiore pieghettato di rughe che le campeggiava sotto gli occhi, il corpo rilassato ai bordi del vestito di fattura antica, che mal celava la rovina che si consumava al suo interno. Marcella quasi sobbalzò, di un moto minimo, poi abbassò lo sguardo là dove una matassa di peluria planava piano sul pavimento. Con un gesto solerte si chinò, raccolse il grumo di sporco e lo gettò nel cestino di vimini, al di sotto dell'interruttore che accendeva le luci della stanza. Intanto con l'altra mano apriva la porta, ricacciando la faccia dello specchio a riflettere il bianco immacolato della parete, e passava di nuovo nell'ingresso.

    Prima di uscire tornò ad affacciarsi sulla cucina, ma suo figlio non doveva essersi alzato nel frattempo: la sua colazione era ancora intatta. Marcella allungò lo sguardo fino alla lavagnetta sul frigo, quella che elencava le cose che mancavano, memorizzò la lista e si avviò alla porta di casa.

    Fuori il mattino cominciava ad avere la meglio: la luce del giorno si era alzata a pieno sopra l'orizzonte, e finiva di dipingere di rosso i mattoni delle palazzine. Lei oltrepassò la piazzetta antistante il condominio e affrontò lesta una delle viuzze che sfociavano in via Giusti.

    Là il traffico era importante: le macchine avanzavano a malapena, i motorini zigzagavano con precisione, i pedoni attraversavano assecondando il profilo delle auto in coda. Anche Marcella attraversò, perché il supermercato era sull'altro lato della strada, cinque minuti di cammino più avanti.

    Burro, carta igienica, detersivo per piatti.

    Marcella scandiva i propri passi snocciolando in testa le cose che mancavano, per non rischiare di dimenticarle. Perché a volte le succedeva, in modo stupido: due cose in croce da tenere a mente, appena un quarto d'ora di tempo dalla cucina al supermercato, nessun altro pensiero per la testa eppure arrivava al negozio, faceva la spesa, tornava a casa e in cucina, mentre rimetteva al loro posto le cose che aveva comprato, si imbatteva nella lavagna, in un nome di troppo tra quelli elencati. Era il nome di un qualcosa che nel sacchetto non c'era. Che lo avesse lasciato alla cassa? O peggio, nel carrello? Sì, forse proprio nel carrello, perché aveva usato quello grande dove le cose si disperdevano invece di starsene compatte, come riunite dentro la sua lista. Allora le toccava tornare indietro, perché la cosa dimenticata era spesso necessaria a suo marito: i rasoi usa e getta, il suo vino preferito, la marmellata di arance amare. Davvero una strana combinazione.

    Burro, carta igienica, detersivo per piatti. Prossima apertura Panificio Bianco.

    Il cartello che le si era intromesso in testa tra una scansione e l'altra della lista era bianco, a caratteri blu e così grandi che riducevano il bianco a poca cosa. Era attaccato all'interno del vetro di un locale che un tempo, se lei ricordava bene, era un punto internet. Vi si vedeva la gente in vetrina, che sembrava guardare fuori ma che in realtà stava guardando dentro il video di un computer che se ne stava prima del fuori. Dalla strada se ne scorgeva il retro di plastica, nero e polveroso. Quei tizi avevano a volte le orecchie coperte dalle cuffie, altre volte le mani impegnate a battere sulla tastiera o a spostare il mouse e la sua freccia. Ora invece il negozio sembrava dismesso: dentro al buio della vetrina sgombra si indovinava un arredamento disfatto, che sembrava aspettare di essere sostituito; e poi uno scaleo, dei barattoli di vernice, scatole e arnesi vari. Marcella pensò che in via Giusti una buona panetteria sarebbe stata utile, più utile del negozio di internet.

    1.e: -Ciao.

    Suo padre non rispose al saluto e si lasciò sbattere la porta dietro.

    Elisa si vide alzare appena le spalle nel riflesso che le rimandava lo specchio piazzato accanto all'attaccapanni rotondo, ai suoi bracci girevoli e smaltati di rosso. Protendendo poi il viso sopra la cassettiera di legno che lo sorreggeva, gli si fece più sotto e sfumò meglio l'ombretto marrone sulla palpebra destra, che le era uscita di un colore più compatto rispetto all'altra. Ora sì che il trucco era leggero, proprio come piaceva a Mattia; era stato lui a suggerirglielo, l'inverno prima, Elisa se lo ricordava bene.

    Erano in ricreazione fuori della classe, seduti sui gradini che scendevano al piano terra. Stavano chiotti l'uno accanto all'altra, per proteggersi sia dal freddo che saliva dal portone di sotto, aperto giusto in linea con la rampa delle scale, sia dal passare folle degli altri studenti, che scendevano e salivano scambiandosi tra di loro con un certo impaccio.

    Elisa allora non si truccava ancora: non glielo aveva insegnato sua madre, così anonima negli abiti da sembrare trasparente, e a lei non interessava granché. Si vedeva brutta, con quei ricci neri che le si accapigliavano in testa, un po' di trucco non sarebbe servito a nulla. Ma Mattia non la pensava così:

    -Hai gli occhi belli, perché non ci metti su un velo d'ombretto?

    E le aveva passato sulla palpebra l'indice della mano destra, quella più lontana da lei, come a chiuderla in un abbraccio. Elisa si era sentita avvampare tutta, e aveva chiuso gli occhi, un po' ad assecondare la carezza di lui, un po' forse ad aspettare un bacio; che non era arrivato. La campanella aveva trillato il rientro in classe, lei aveva aperto gli occhi e Mattia non era più lì: si era sfilato dal suo fianco e già saliva gli ultimi gradini verso l'aula.

    Elisa quel giorno aveva faticato a finire le ore di lezione: si guardava il viso nella telecamera rovesciata del cellulare e le sembrava smunto come non mai, e i ricci più crespi di sempre. Poi guardava Mattia, che in vece guardava dritto il professore di matematica. Sembrava attentissimo alla lezione, non aveva girato neanche una volta lo sguardo in direzione di lei. Allora si era messa a osservare le compagne, quelle che già si truccavano: studiava come erano abbinati i colori, come erano stesi, quanto sfumavano ai lati. Col telefono aveva pure scattato qualche foto, rubata alle spalle del professore che era impegnato alla lavagna, a scrivere un'espressione lunghissima di algebra.

    Quello stesso pomeriggio Elisa era entrata nella profumeria che si trovava in via Giusti, appena prima dell'incrocio con le due stradine che portavano allo spiazzo di casa sua. Era già buio per strada e lo scintillio delle luci riflesse sui tanti specchi e vetri dell'interno attiravano come un focolare, come un rifugio esibito al freddo che pungeva il viso. Appena entrata Elisa si era aperta la zip del giubbotto, che la infagottava fin quasi alle ginocchia; poi si era guardata attorno, mentre lenta si sfilava i guanti.

    La profumeria era quasi del tutto quadrata, con tanti scaffali di vetro ad altezza mani che la percorrevano in file parallele dall'entrata fino al lato opposto, dove campeggiava, in posizione centrale, una coppia di casse su un ripiano brillante di metallo. Di commesse però ce n'era soltanto una. Piccola di statura e in apparenza non giovanissima, aveva una divisa tipo quelle che nei film si vede indosso alle hostess, un po' crema e un po' blu intenso. I capelli scuri, che tradivano qua e là qualche filo bianco, erano tirati indietro da due pettini di finto corno, a scoprire un viso truccato alla perfezione. L'ombretto, largo sulle palpebre, sfumava dal blu al bianco sopra la riga grossa della matita, che sembrava generare essa stessa le ciglia ispessite di mascara. Un filo di rossetto, di un rosso spento e opaco, sottolineava appena le labbra. Elisa si era pensata addosso quel trucco, e poi quello che aveva osservato la mattina sul viso delle compagne, e aveva giudicato che sì, che avrebbe seguito l'esempio della commessa.

    Quando era riuscita al freddo della strada, col pacchetto della profumeria incastrato tra le dita dei guanti, si era sentita come più grande, forse più bella, ma arrivata al portone di casa si era aperta la zip del giubbotto prima di suonare il campanello, e trovando a tastoni la tasca interna vi aveva cacciato dentro il sacchettino, col suo contenuto segreto.

    Aveva poi passato più di un'ora chiusa in bagno, a provarsi addosso quei trucchi, prima con la mano tremante e la corsa a sciacquarsi subito, non appena lo specchio le rimandava l'orrore della patacca blu sopra gli occhi, quindi con le dita a poco a poco più ferme, e con un compiacimento sottile di fronte a quel suo nuovo aspetto. Aveva dovuto interrompere le prove bruscamente però, perché suo fratello quasi spaccava la porta del bagno, tra urla e colpi di pugno. Elisa allora ne era uscita, acqua e sapone com'era entrata, passando sotto alle imprecazioni di Andrea:

    -Che cazzo hai fatto in bagno finora? M'hai fatto quasi pisciare addosso.

    E le aveva allungato una pedata trattenuta che lei pronta aveva schivato, per poi voltarsi appena e accennare un sorriso irriverente dietro al dito medio, alzato verso il fratello tutto rosso di rabbia.

    La mattina del giorno dopo dal bagno era passata diretta e lesta fuori di casa, per correre a scuola con quei suoi occhi nuovi, cerchiati di matita e aperti di ombretto blu.

    Lungo la strada aveva incontrato giusto Mattia, prima di chiunque altro:

    - O come ti sei conciata? Sembra che ti abbiano picchiato. Ma non ce ne va un po' meno di trucco?

    E la guardava con la disapprovazione negli occhi e con una piega di vago disgusto a un lato della bocca.

    Varcato di corsa il portone della scuola, lei si era precipitata in bagno, a sciacquarsi vigorosa il viso; che le era comunque rimasto bluastro tutto il giorno.

    Elisa entrò in cucina, sua madre era in piedi davanti al frigorifero. Aveva il pennarello della lavagna cancellabile in una mano e il tappo nell'altra, come in un movimento bloccato, e guardava fuori, oltre la finestra che dava sui palazzi di fronte, polverosi della luce del mattino.

    - Buongiorno mamma.

    Sua madre sembrò sussultare dentro le spalle mentre ficcava il pennarello nel suo tappo. Poi si voltò verso di lei e verso il tavolo, e sembrò scoprirlo ancora sparecchiato. Tirò a sé il vassoio, ci cacciò sopra la tazza, le posate, la marmellata. Ripulì svelta la caffettiera del fondo precedente e la preparò per un nuovo giro, mettendola sul gas a tutto fuoco.

    - Scusami ti apparecchio subito.

    Diceva intanto, e la voce correva più di lei, come un'onda che volesse raggiungere sempre un pezzo di battigia in più.

    - Posso fare da me mamma, non ti preoccupare.

    Ed Elisa si avvicinò a sua madre, forse per aiutarla, forse solo per andarle vicino. Ma lei afferrò il vassoio dal piano del lavello, le mani a stringere forte le estremità:

    - Faccio io.

    E continuava a guardare la macchinetta del caffè. Elisa allora si sedette sulla prima sedia che le capitò a tiro, e appoggiandosi al tavolo tirò fuori il cellulare, che sbloccò strisciando verso l'alto la sua foto sorridente ma impacciata.

    Le chiacchiere erano già cominciate sul gruppo della seconda B: una fitta sequenza di messaggi riempì subito lo schermo. Lei li scorse veloce soffermandosi solo su quelli a nome Greta e Mattia, che ingrandiva e leggeva piano, cercando di concentrarsi oltre il sottofondo del ribollire del caffè. Flirtavano tra le righe quei due: sembravano inseriti nei discorsi del gruppo ma un segreto filo rosso correva tra di loro, un filo che non sfuggiva a Elisa, che conosceva Mattia come le sue tasche. E anche Greta conosceva bene, lei che sola l'aveva accolta senza riserve, alla metà dell'anno prima.

    Veniva dalla Germania Greta; i suoi si erano trasferiti in Italia chissà perché visto che lassù si doveva stare meglio che da noi, visto che la Germania era piena di immigrati italiani e viceversa no, visto che a loro i soldi non mancavano di certo. Perché era ricca Greta, e bella con l'azzurro acquoso negli occhi e coi capelli chiari che le scendevano lisci sino alle spalle. Niente a che vedere con i suoi di capelli, così neri e così ricci, e crespi nei giorni umidi di tanto inverno. Se ne era accorto anche Mattia che Greta era più bella, e all'improvviso la sua simpatia, quella che fino alla metà del primo anno li aveva stretti in una specie di fidanzamento, si era rivolta tutta alla nuova arrivata. Da

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