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La vittima perfetta
La vittima perfetta
La vittima perfetta
E-book428 pagine5 ore

La vittima perfetta

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Info su questo ebook

Autore del bestseller La donna di ghiaccio
Oltre 2 milioni di copie vendute

Un grande thriller

Nel bel mezzo di un’afosa notte estiva, un’ombra si muove oscura, animata da un odio feroce e da un’irrefrenabile sete di sangue. Per la detective Erika Foster è un nuovo caso. Un omicidio, ancora. La vittima è un dottore ed è stato soffocato nel suo letto. Ha i polsi legati e gli occhi gonfi, un sacchetto di plastica trasparente stretto intorno alla testa. Pochi giorni dopo, un altro uomo viene trovato morto nello stesso modo. Erika e la sua squadra si trovano al cospetto di un serial killer freddo e calcolatore: è chiaro che segue le sue prede in attesa del momento perfetto per ucciderle. E le vittime sono tutti uomini single, che custodivano gelosamente i segreti della loro vita privata. Ma cosa lega questi individui all’assassino? Nell’ondata di caldo soffocante che invade Londra, Erika farà di tutto per fermare “l’Ombra della notte” prima che la conta degli omicidi aumenti ancora. Anche a costo di mettere a rischio il suo lavoro e la sua incolumità. Perché mentre Erika segue le tracce del killer, qualcuno segue lei e la osserva da molto vicino…

Dall’autore di La donna di ghiaccio
Ai primi posti delle classifiche italiane e inglesi
Tradotto in 27 Paesi

Hanno scritto di La donna di ghiaccio:

«Ho amato, amato e amato questo libro: Erika Foster è la mia nuova eroina. È intelligente, tenace e appassionata, e la storia mi ha tenuto con il fiato sospeso fino alla fine. Ho trovato la scrittura efficace, suggestiva e coinvolgente e sono curiosissima di leggere il prossimo episodio della serie.»
Angela Marsons

«Una nuova eroina detective tinge di rosa il thriller di debutto di Robert Bryndza. Si chiama Erika Foster, ed è una poliziotta tenace e testarda. Come Clarice Starling di Il silenzio degli innocenti. Risolvere il caso diventa per lei questione di vita, occasione di riscatto.»
D di Repubblica

«Robert Bryndza, inglese che ora vive in Slovacchia, è l’autore del 2017. Il suo thriller è diventato un caso.»
La Lettura
Robert Bryndza
È nato a Lowesoft, sulla costa orientale dell’Inghilterra e si è dedicato a tempo pieno alla scrittura dopo aver abbandonato la carriera da attore. Vive in Slovacchia con il marito. Si è conquistato una fama incredibile con il suo thriller d’esordio, La donna di ghiaccio, che in pochi mesi ha scalato le classifiche ed è stato tradotto in 29 lingue. Tutti i suoi romanzi sono bestseller internazionali e contano più di 4 milioni di copie vendute in tutto il mondo. La Newton Compton ha pubblicato i thriller che hanno per protagonista Erika Foster (La donna di ghiaccio, La vittima perfetta, La ragazza nell’acqua e Ultimo respiro) e il primo di una nuova serie incentrata sulle indagini di Kate Marshall (I cinque cadaveri).
LinguaItaliano
Data di uscita19 mar 2018
ISBN9788822720467
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    Anteprima del libro

    La vittima perfetta - Robert Bryndza

    Capitolo 1

    Era una notte calda e afosa di fine giugno. L’ombra scura, un cappuccio nero calato in testa, si muoveva velocemente, avanzando nelle tenebre senza fare il minimo rumore. Strisciava sul vialetto stretto e sporco, per non ferirsi con i rami sporgenti dei cespugli. Era come se l’oscurità si riversasse silenziosamente nel mondo superando la cortina di foglie.

    Gli alberi alti e maestosi lasciavano intravedere solo una sottile striscia del cielo notturno, lo smog della città avvolgeva il sottobosco in una nube di leggera foschia. La sagoma esile raggiunse il dirupo sulla destra e si fermò all’istante: restò immobile, senza fiato, con il cuore che batteva all’impazzata.

    Una luce intermittente illuminò i dintorni di blu e bianco, mentre il treno delle sette e trentanove per London Bridge sfrecciava rapido lungo i binari. L’ombra si abbassò quando i vagoni vuoti e luminosi le sfrecciarono davanti. Due lampi e il treno era sparito, facendo ripiombare la vegetazione nell’oscurità.

    La sagoma ripartì alla svelta, seguendo senza far rumore la curva del sentiero che si allontanava dai binari. Gli alberi sulla sinistra si facevano sempre più radi, rivelando una fila di case a schiera. I cortili sul retro scorrevano avanti come diapositive: strisce scure, identiche tra loro, con i mobili da giardino, i capanni degli attrezzi e le altalene – tutto perfettamente immobile nell’oscurità della notte.

    Alla fine la vide. Una villetta vittoriana a tre piani, del tutto identica alle altre case del quartiere, a parte il piano terra, che era stato ampliato con una veranda di vetro. L’ombra esile sapeva tutto del proprietario di quel posto. Conosceva le sue abitudini e, cosa più importante, sapeva che quella notte sarebbe stato solo.

    Si fermò in fondo al cortile. Un albero enorme era cresciuto intorno alla recinzione che si affacciava sul sentiero. In un punto aveva inglobato il metallo, il legno ricurvo mordeva i pali arrugginiti come una grande bocca senza labbra. La chioma folta si espandeva come un’aureola, nascondendo la ferrovia. Un paio di notti prima l’ombra, percorrendo quella stessa strada, aveva reciso con cura una parte della recinzione, poi l’aveva risistemata in modo che il proprietario non si accorgesse di nulla. E ora venne via in un battibaleno. La sagoma oltrepassò il varco con facilità. L’erba era secca, non pioveva da settimane e il terreno era arido. Si tirò in piedi e si nascose dietro l’albero. Poi, con un unico movimento fluido, attraversò il cortile, come una nube di fumo nero.

    L’unità esterna del condizionatore sul muro ronzava con insistenza, nascondendo il lieve scalpiccio dei suoi passi sul sentiero di ghiaia che dalla veranda conduceva alla porta. L’ombra raggiunse una bassa finestra a ghigliottina e si appostò sotto l’ampio davanzale. La luce all’interno era accesa e proiettava un quadrato giallo sui mattoni della casa vicina. Sollevando il cappuccio della felpa, l’ombra si affacciò cautamente e sbirciò dentro.

    In casa c’era un uomo sui quaranta, alto e robusto, indossava pantaloni marroni e una camicia con le maniche arrotolate. Andò verso la credenza della cucina e prese un calice, versandosi un bicchiere di vino rosso. Ne prese un bel sorso e riempì di nuovo il bicchiere. Sul bancone c’era un pasto precotto – lo estrasse dalla confezione di carta e ruppe la pellicola di plastica con la punta del cavatappi.

    L’ombra odiava profondamente quell’uomo. Era inebriante osservarlo, sapere cosa stava per succedere.

    L’uomo programmò il microonde in cucina e sistemò la confezione. Un bip elettronico azionò il conto alla rovescia.

    Sei minuti.

    L’uomo bevve un altro sorso di vino e lasciò la cucina. Pochi istanti dopo, una luce si accese in bagno, proprio sopra al punto in cui era nascosta l’ombra. Il vetro si aprì di qualche centimetro, un suono stridente e acuto, poi lo scroscio d’acqua della doccia.

    Con il cuore a mille l’ombra si mise subito all’opera: aprì il marsupio, tirò fuori un cacciavite e lo infilò sotto il telaio della finestra. Con un po’ di pressione la aprì. Sollevò il vetro e scivolò all’interno. Ce l’aveva fatta. Tutti i piani studiati con cura, tutti gli anni di rabbia e dolore…

    Quattro minuti.

    L’ombra entrò in cucina. Con una siringa di plastica spruzzò un liquido chiaro all’interno del bicchiere di vino, mescolando per bene prima di rimettere il calice al suo posto, sul bancone di granito nero.

    Rimase per un secondo immobile, in ascolto, godendosi il piacevole refolo d’aria fresca del condizionatore, con le orecchie tese, pronte a captare il minimo rumore. Sotto la luce dei faretti il bancone della cucina era scintillante.

    Tre minuti.

    L’ombra attraversò rapidamente la cucina, superando il corrimano di legno alla base delle scale e nascondendosi in un angolo buio dietro la porta del salotto. Qualche secondo dopo, l’uomo scese dalle scale con addosso soltanto un asciugamano. Tre sonori bip annunciarono che la cena era pronta. L’uomo camminava a piedi nudi diffondendo nella stanza un odore di pulito. Si sedette a mangiare. Un tintinnio di posate, uno sgabello che veniva trascinato sul pavimento. La sagoma scura inspirò profondamente, lasciò il suo nascondiglio e salì le scale, piano, senza fare il minimo rumore.

    E rimase a guardare.

    E ad aspettare.

    Era giunto il momento di riscuotere la ricompensa che attendeva da molto, molto tempo.

    Capitolo 2

    Quattro giorni dopo

    In quella placida strada di South London l’aria della sera era umida e opprimente. Le falene svolazzavano nel fascio di luce dorata disegnato dal lampione di fronte alla fila di case a schiera. Estelle Munro camminava lentamente. Quando si avvicinò al lampione, scese dal marciapiede e continuò sulla strada. La sua artrite non le dava tregua, ma preferiva affrontare la fitta di dolore alle ginocchia che il terrore che le incutevano quei piccoli insetti volanti.

    Girò alla larga dal lampione, passando cautamente fra due macchine parcheggiate. Il calore della giornata appena trascorsa si innalzava dall’asfalto. Londra e l’Inghilterra sudorientale annaspavano in un’ondata di caldo torrido già da due settimane, e ora anche il suo cuore, come quello di migliaia di persone, iniziava a dare qualche segno di cedimento. Qualche strada più in là un’ambulanza marciava a sirene spiegate, come in risposta ai suoi pensieri. Con suo grande sollievo i due lampioni successivi erano rotti. Lentamente, dolorosamente, s’insinuò fra altre due macchine parcheggiate e tornò sul marciapiede.

    Si era offerta di dar da mangiare al gatto di Gregory durante la sua assenza. Ma lei odiava i gatti. L’aveva fatto solo per poter ficcare il naso in casa e controllare come se la stava cavando suo figlio dopo che Penny, la moglie, lo aveva lasciato portandosi dietro Peter, il figlio di appena cinque anni.

    Estelle era senza fiato e grondava di sudore quando raggiunse l’elegante villetta di Gregory – la casa più bella di tutta la via, secondo lei. Tirò fuori un fazzoletto di stoffa dal reggiseno e si asciugò il viso.

    La luce arancione del lampione alle sue spalle si rifletteva sul vetro della porta mentre infilava la chiave. Appena aprì venne aggredita da un’ondata di caldo opprimente ma entrò, riluttante, senza badare al cumulo di lettere sparse sullo zerbino. Premette l’interruttore accanto alla porta, ma l’ingresso rimase avvolto nell’oscurità.

    «Porca miseria, di nuovo», bofonchiò chiudendosi la porta alle spalle. Si abbassò per raccogliere la posta. Era la terza volta che saltava la corrente mentre Gregory era fuori. La prima volta per colpa delle luci dell’acquario, la seconda volta di Penny, che aveva scordato la lampadina accesa in bagno facendola fulminare.

    Estelle tirò fuori il cellulare dalla borsetta e, dopo qualche goffo tentativo con le sue dita artritiche, riuscì a sbloccare lo schermo che proiettò un fascio di luce a qualche centimetro dai suoi piedi, illuminando la moquette chiara e gli stretti corridoi. Vide il proprio riflesso allo specchio e saltò per lo spavento: nella semioscurità, i gigli sulla sua camicetta senza maniche avevano una sfumatura viola sinistra, quasi velenosa. Puntò la luce sulla moquette e avanzò verso il soggiorno, tastando le pareti alla ricerca di un interruttore – forse era solo la lampadina all’ingresso che non funzionava. Premette e ripremette ancora il pulsante, ma non accadde nulla.

    All’improvviso lo schermo del telefono si spense e ripiombò nelle tenebre. Il silenzio era spezzato solo dal suo respiro affannato. Panico. Cercò di sbloccare di nuovo il cellulare, ma le dita artritiche non si muovevano abbastanza in fretta. Alla fine ci riuscì e la sala si colorò di un blu opaco.

    Si soffocava lì dentro: il caldo le appesantiva il petto, tappandole le orecchie. Le sembrava di essere sott’acqua. Vedeva le particelle di polvere rincorrersi nell’aria, e un paio di minuscoli moscerini che svolazzavano silenziosi sul tavolino da caffè, sopra un pretenzioso piatto di porcellana pieno di palline di legno scuro.

    «È solo andata via la corrente!», esclamò, sentendo la propria voce riecheggiare contro il camino di ferro. Era sciocco farsi prendere dalla paura. Un cortocircuito, nient’altro. Non c’era nulla da temere, avrebbe bevuto un sorso d’acqua fresca e poi avrebbe cercato l’interruttore generale. Si voltò, determinata, andò verso la cucina illuminando il percorso con il cellulare.

    Sotto il debole fascio di luce la cucina che si estendeva verso il giardino aveva un aspetto cupo, cavernoso. Si sentiva esposta, vulnerabile. Un sibilo distante, lo sbuffo ritmico di un treno in lontananza che correva sulle rotaie dall’altra parte del giardino. Estelle aprì la credenza e prese un bicchiere. Il sudore le colava sul viso, pizzicandole gli occhi. Si asciugò la fronte con un braccio e si sporse sul lavandino. Riempì il bicchiere e bevve un sorso d’acqua.

    La luce del telefono si spense di nuovo e un tonfo al piano di sopra squarciò improvvisamente il silenzio. Il bicchiere le cadde di mano e si ruppe in mille pezzi, i frammenti si sparsero sul pavimento. Il cuore le batteva all’impazzata mentre restava immersa nel buio, all’erta. Sentì un altro rumore dal piano di sopra. Afferrò un mattarello e si precipitò ai piedi delle scale.

    «C’è qualcuno? Ho uno spray al peperoncino e sto per chiamare il 999!», urlò al buio.

    Silenzio. Il caldo era insopportabile. La voglia di ficcare il naso in casa di suo figlio era completamente svanita. In quel momento l’unica cosa che desiderava era tornare a guardare gli highlights di Wimbledon nella sua comoda e luminosissima casa.

    In cima alle scale, qualcosa sbucò improvvisamente dall’oscurità correndole incontro. Estelle balzò indietro per la paura, facendo quasi cadere il telefono. Era il gatto. Si fermò di fronte a lei e iniziò a strofinarsi sulle sue gambe.

    «Cavolo, mi hai fatto venire un infarto!», disse con sollievo, mentre il battito del cuore rallentava. Una puzza disgustosa la raggiunse dal piano di sopra. «Proprio quello che ci voleva. Che hai combinato lassù? Hai la lettiera, e pure il giardino».

    Il gatto le rispose con uno sguardo innocente e per una volta fu contenta di vederlo. «Vieni, ti do da mangiare».

    Il micio la seguì nel sottoscala, confortandola con la sua compagnia. Gli permise di strofinarsi sulle sue gambe mentre cercava di far ripartire la corrente. L’interruttore generale era stato abbassato. Strano. Lo sollevò e la luce invase subito la stanza. Da lontano arrivò il bip sommesso del condizionatore che si riazionava.

    Estelle tornò in cucina e accese il lampadario. Le enormi vetrate che aveva di fronte le restituirono il suo riflesso insieme a quello di tutta la stanza. Il gatto saltò sul bancone e rimase a osservarla incuriosito mentre sgomberava il pavimento di pietra dalle schegge di vetro. Una volta finito, Estelle prese la confezione di cibo per gatti e la versò in una ciotola, posandola a terra. L’aria condizionata stava rinfrescando l’ambiente. La donna rimase immobile per qualche istante e lasciò che il refolo freddo la accarezzasse mentre osservava il gatto che con la sua linguetta rosa leccava e mordeva con grazia il cibo.

    La puzza era sempre più forte, si riversava in cucina man mano che il condizionatore risucchiava aria. Il gatto ripulì la ciotola da cima a fondo e si fiondò verso la gattaiola.

    «Mangia e fuggi. E certo, lasciami pure qui a pulire tutto quanto», commentò Estelle. Prese uno strofinaccio e un vecchio giornale e salì le scale lentamente, con le ginocchia doloranti. A ogni passo il caldo e la puzza si intensificavano. Arrivata in cima alla rampa, attraversò il pianerottolo perfettamente illuminato. Controllò una stanza dopo l’altra, passando in rassegna il bagno vuoto, la camera degli ospiti e guardando persino sotto la scrivania dello studio. Ma non trovò nessun regalino da parte del gatto.

    Quando arrivò alla camera matrimoniale la puzza era diventata insopportabile. Si tappò naso e bocca per non vomitare. La pipì di gatto è in assoluto la puzza più schifosa del mondo, pensò.

    Entrò nella stanza e accese la luce. Mosche e moscerini riempivano l’aria con il loro ronzio. La coperta blu era gettata a terra, sul letto matrimoniale c’era un uomo steso a pancia in su, con un sacchetto di plastica stretto intorno alla gola e i polsi legati alla spalliera. Aveva gli occhi sgranati e gonfi, i lineamenti grotteschi contro la plastica trasparente. Le ci volle un momento per capire chi fosse.

    Era Gregory.

    Suo figlio.

    Estelle fece una cosa che non faceva da anni: si mise a gridare a squarciagola.

    Capitolo 3

    Era da tempo che l’ispettore capo Erika Foster non partecipava a una cena tanto sgradevole. Mentre il padrone di casa, Isaac Strong, caricava la lavastoviglie con i piatti e le posate della sera un silenzio imbarazzante gravava sulla stanza, smorzato solo dal ronzio sommesso di un ventilatore elettrico in un angolo. Non che riuscisse a combattere in qualche modo il calore: praticamente spostava solo aria rovente da una parte all’altra della cucina.

    «Grazie. Le lasagne erano ottime», disse Erika mentre Isaac le toglieva il piatto.

    «La besciamella era a basso contenuto di grassi», rispose lui. «Ma non si notava, no?»

    «No».

    Isaac tornò a trafficare con la lavastoviglie ed Erika osservò la cucina. Era arredata in un elegante stile rustico alla francese: credenze bianche dipinte a mano, superfici in legno chiaro e un lavandino Butler in ceramica. Si chiese se Isaac si fosse tenuto alla larga dall’acciaio inossidabile a causa del suo lavoro di medico legale. Il suo sguardo a quel punto si posò inevitabilmente su Stephen Linley, l’ex ragazzo del suo amico, che la studiava dall’altro lato dell’enorme tavolo della cucina con le labbra serrate, pieno di sospetto. Era più giovane di Erika e Isaac, un aitante Adone sui trentacinque anni. Viso affascinante e due occhietti che non ispiravano affatto fiducia. Erika si sforzò di rispondere ai suoi sguardi torvi con un sorriso e bevve un sorso di vino cercando disperatamente qualcosa da dire. Quel silenzio cominciava a metterla a disagio.

    Le cene con Isaac erano completamente diverse, di solito. L’accogliente cucina francese aveva fatto da cornice a innumerevoli pranzi e cene nel corso dell’ultimo anno, momenti di gioia e condivisione durante i quali i due avevano riso e si erano raccontati i reciproci segreti, gettando le basi di quella che per Erika era diventata una solida amicizia. Con Isaac era riuscita ad aprirsi. L’unico uomo con cui si era sentita libera di parlare della morte di suo marito Mark, avvenuta meno di due anni prima. E lui le aveva raccontato tutto dell’amore della sua vita, il ragazzo che gli aveva spezzato il cuore. Stephen, per l’appunto.

    Ma c’era una sostanziale differenza: Mark era morto durante un’operazione di polizia, Stephen lo aveva lasciato per un altro.

    Per questo si era sorpresa di trovarlo lì, quando era arrivata quella sera. Anzi, più che una sorpresa le era sembrata… un’imboscata, ecco.

    Erika viveva nel Regno Unito da più di venticinque anni e, nonostante fosse ormai perfettamente integrata, per un attimo rimpianse che quella cena non si fosse tenuta nella sua terra natia, la Slovacchia. Lì, le persone erano molto più dirette.

    Che sta succedendo? Avresti dovuto avvertirmi! Perché non mi hai detto che sarebbe venuto anche quell’idiota del tuo ex ragazzo? Sei davvero un pazzo a lasciarlo rientrare nella tua vita dopo quello che ti ha fatto.

    Ecco. Questo era ciò che avrebbe voluto urlare appena entrata in cucina, quando aveva trovato Stephen languidamente seduto in pantaloncini e T-shirt. Si era sentita subito in imbarazzo ma le convenzioni sociali inglesi le imponevano di far finta di niente.

    «Chi vuole un caffè?», chiese Isaac richiudendo la lavastoviglie e voltandosi. Era un uomo davvero affascinante: alto, con capelli scuri e folti pettinati all’indietro che gli incorniciavano la fronte alta. Gli occhi, grandi e marroni, erano sormontati da sopracciglia sottili che si sollevavano e si abbassavano in modo molto espressivo, sottolineando le sue emozioni. Ma quella sera Isaac pareva imbarazzato e basta.

    Stephen fece roteare il bicchiere di vino e guardò prima Erika e poi Isaac. «Caffè? Di già? Non sono neanche le otto, Isaac, e si muore di caldo. Apri un’altra bottiglia».

    «No, per me va bene il caffè, grazie», disse Erika.

    «Se proprio devi farlo, almeno usa la macchinetta», commentò Stephen. E poi aggiunse, come per marcare il territorio: «Gli ho regalato una Nespresso. Te l’ha detto? È costata una fortuna. L’ho presa con l’anticipo del mio ultimo libro».

    Erika gli rivolse un sorriso vuoto e raccolse una mandorla tostata dal piatto al centro della tavola. La schiacciò, un rumore che riecheggiò con forza nel silenzio. Durante quella cena assurda aveva parlato quasi sempre Stephen, raccontando ogni singolo dettaglio del nuovo giallo che stava scrivendo. Si era persino preso la briga di spiegare per filo e per segno come funzionavano le indagini della scientifica – Erika aveva pensato che avesse una bella faccia tosta, considerando che Isaac era uno dei migliori medici legali del Paese e lei, in qualità di ispettore capo della polizia metropolitana di Londra, aveva già risolto un bel po’ di casi d’omicidio.

    Prima di mettersi a fare il caffè, Isaac accese la radio. Le note di Like a Prayer di Madonna riempirono subito il silenzio.

    «Alza! Ecco, ci voleva proprio un po’ di Maddy», commentò Stephen.

    «Mettiamo qualcosa di più soft», rispose Isaac scorrendo le stazioni radio finché la dolce melodia malinconica di un violino non rimpiazzò la voce acuta di Madonna.

    «Ti ricordo che in teoria saresti omosessuale», disse Stephen alzando gli occhi al cielo.

    «Credo soltanto che ora sia più adatto qualcosa di lento e rilassato, Stevie», rispose Isaac.

    «Cristo. Non abbiamo mica ottant’anni! Divertiamoci un po’. Che ti va di fare, Erika? Dove vai di solito la sera?».

    Per lei Stephen era un vero vortice di contraddizioni. Aveva uno stile d’abbigliamento a dir poco etero, sembrava un atleta della Ivy League, ma il suo modo di fare era decisamente gay. Ora se ne stava a gambe incrociate ad aspettare la sua risposta con il broncio sulle labbra.

    «Io… credo che me ne andrò a fumare una sigaretta», disse Erika afferrando la borsa.

    «La camera di sopra è aperta», aggiunse Isaac, mortificato. Lei sorrise e uscì dalla cucina.

    Isaac viveva in una villetta a Blackheath, vicino Greenwich. La camera degli ospiti aveva un piccolo balconcino. Erika aprì la finestra e uscì a fumare nel buio della notte. Il caldo della sera la investì in pieno. Il cielo era terso, ma l’inquinamento luminoso della città rendeva impossibile vedere le stelle, così seguì con lo sguardo la scia del laser dell’Osservatorio di Greenwich, inclinando la testa per vedere il punto esatto in cui si perdeva fra le stelle. Fece un altro tiro di sigaretta, inspirando a fondo mentre i grilli sotto di lei cantavano nel giardino buio, mischiando i loro versi al ronzio velato del traffico.

    Stava giudicando in modo troppo severo Isaac e il suo rapporto con Stephen? Era solo dispiaciuta di non avere più un amico single? No, non era questo – desiderava soltanto il meglio per Isaac. E poi Stephen Linley era una persona tossica. Forse nella vita di Isaac non c’è posto per tutti e due, pensò con una punta di tristezza.

    Pensò al minuscolo e scarno appartamento che si sforzava di chiamare casa, a tutte le notti solitarie che aveva passato a letto a fissare il soffitto. Erika e Mark non erano stati soltanto marito e moglie ma anche colleghi: erano entrati nelle forze di polizia di Manchester appena compiuti i vent’anni. Erika aveva avuto una luminosa carriera e ben presto era stata promossa a ispettore capo, superandolo di rango. E Mark l’aveva amata ancora di più per questo.

    Poi, quasi due anni prima, Erika aveva condotto quella disastrosa retata antidroga che si era conclusa con la morte di Mark e altri quattro colleghi. Il dolore della perdita misto al senso di colpa le era sembrato insopportabile, a volte. Non era stato affatto semplice trovare il suo posto nel mondo senza il marito accanto. Aveva dovuto ricominciare da capo, a Londra. Era stata dura. Il suo lavoro nella squadra omicidi era l’unica cosa in cui riusciva a riversare le sue energie. Ma se all’inizio era una grande promessa, adesso la sua carriera aveva subito una brutta battuta d’arresto. Erika era una professionista concreta, esperta e brillante che non tollerava le perdite di tempo e le sciocchezze – ma non le piacevano i giochi di potere e spesso si era trovata a litigare con i suoi superiori. Si era fatta nemici potenti.

    Accese un’altra sigaretta e, proprio quando stava per inventarsi una scusa per andare via subito, la finestra alle sue spalle si aprì. Isaac la raggiunse sul balcone.

    «Me ne dai una?», le chiese chiudendo la porta e avvicinandosi alla ringhiera di ferro. Erika gli sorrise, porgendogli il pacchetto. Isaac estrasse una sigaretta con le dita lunghe e sottili, poi si chinò verso di lei per accendere.

    «Scusa, ho fatto un casino stasera», le disse, tirandosi su e sbuffando una nuvola di fumo.

    «La vita è la tua», rispose Erika. «Ma potevi avvertirmi».

    «È successo tutto in fretta. Si è presentato alla mia porta stamattina e abbiamo passato tutto il giorno a parlare e… meglio non dire cos’altro. Era troppo tardi per annullare la cena. Non che io la volessi annullare, eh».

    Erika vedeva chiaramente il dolore che offuscava gli occhi del suo amico. «Isaac, non devi darmi spiegazioni. Anche se io parlerei di lussuria, se fossi nei tuoi panni. Sei stato sopraffatto dal desiderio, mettila così. È una spiegazione decisamente più accettabile».

    «È un uomo complicato, ma quando siamo soli è completamente diverso. È vulnerabile. Pensi che se facessi le cose per bene, se stabilissi i confini con chiarezza, tra noi potrebbe funzionare stavolta?»

    «Perché no… Quanto meno non può ucciderti di nuovo», rispose Erika con sarcasmo.

    Stephen si era ispirato a Isaac per un personaggio dei suoi libri, un medico legale che aveva fatto morire in modo piuttosto crudo.

    «Dico sul serio, Erika. Cosa devo fare?», le chiese, con l’angoscia che gli offuscava gli occhi.

    Erika sospirò e gli strinse una mano. «Credimi, meglio che non ti dica come la penso. Tengo troppo alla tua amicizia».

    «Per me la tua opinione conta molto. Ti prego, dimmi cosa devo fare…».

    Si sentì un cigolio e la finestra si aprì di nuovo. Stephen, scalzo e con un tumbler colmo di whisky e ghiaccio in mano, le chiese aspramente: «Cosa devi fare? Ma di che stavate parlando?».

    Calò un silenzio imbarazzante, rotto improvvisamente dalla suoneria del cellulare di Erika sepolto nei meandri della borsa. Lo tirò fuori e lesse il messaggio aggrottando la fronte.

    «Tutto bene?», domandò Isaac.

    «Hanno trovato un cadavere in una casa a Laurel Road, a Honor Oak Park. Maschio. Bianco. Sembra sospetto», rispose Erika, sbrigandosi ad aggiungere: «Cavolo, sono senza macchina. Chiamo un taxi».

    «Avrete bisogno di un medico legale. A questo punto ti accompagno direttamente io», disse Isaac.

    «Scusa, ma non hai detto che avevi la giornata libera?», domandò Stephen, con un tono indignato.

    «Io sono sempre in servizio, Stevie», rispose Isaac. Pareva ansioso di levare le tende.

    «E va bene. Andiamo, allora», commentò Erika. Non riuscì a trattenersi, si girò verso Stephen: «A quanto pare la tua preziosa macchinetta del caffè dovrà aspettare».

    Capitolo 4

    Erika e Isaac arrivarono a Laurel Road mezz’ora dopo, l’imbarazzo della cena era già dimenticato. Il nastro della polizia bloccava la strada da entrambi i lati. Il cordone di sicurezza era rafforzato dai mezzi di trasporto: un furgoncino della polizia, quattro volanti e un’ambulanza. La luce blu dei lampeggianti rischiarava a intermittenza la lunga fila di villette a schiera, e i vicini si affacciavano curiosi alle finestre o agli usci per sbirciare la scena del crimine.

    Parcheggiarono a un centinaio di metri dal nastro della polizia. L’ispettore Moss, una delle colleghe più fidate di Erika, le andò incontro. Era una donna bassa e robusta e, nonostante indossasse una camicia molto sottile sopra la longuette, stava sudando parecchio. I capelli rossi erano raccolti in una coda e le scoprivano il viso spruzzato di lentiggini. Ne aveva un paio proprio sotto l’occhio che sembravano disegnare una lacrima, ma in realtà era una donna positiva e ottimista. Li salutò con un sorriso sardonico non appena scesero dalla macchina.

    «Buonasera, capo, dottor Strong».

    «’Sera, Moss», rispose Isaac.

    «’Sera. Chi è tutta questa gente?», chiese Erika mentre si avvicinavano al nastro della polizia, dove un gruppetto di persone dall’aria stravolta osservava la scena.

    «Pendolari appena arrivati dal centro, abbiamo transennato tutto e chiuso le strade. Non sono potuti tornare a casa», rispose Moss.

    «Io vivo proprio lì», stava dicendo un uomo indicando con la ventiquattrore una casa due portoni più giù. Aveva il volto stanco e arrossato e i capelli sottili gli si erano appiattiti in testa. Quando Moss, Erika e Isaac lo raggiunsero di fronte al nastro della polizia, li guardò sperando di ricevere buone notizie.

    «Sono l’ispettore capo Erika Foster, l’ufficiale al comando delle operazioni, e lui è il dottor Strong, il nostro anatomopatologo», disse Erika mostrando il distintivo al poliziotto. «Contatti il comune e trovi una sistemazione per la notte per queste persone».

    «Certo, signora», rispose l’agente, lasciandoli passare. Superarono il nastro in fretta, prima che i pendolari avessero il tempo di protestare alla prospettiva di passare la notte su dei letti di fortuna.

    Il portone del civico quattordici di Laurel Road era spalancato e dal corridoio pieno di poliziotti in tuta blu e mascherine arrivava una luce luminosa. La scientifica diede a Erika, Isaac e Moss delle tute sterili. I tre si cambiarono sul minuscolo vialetto di ghiaia in giardino.

    «Il corpo è al piano di sopra, in camera da letto», li informò Moss. «La madre della vittima è venuta a dar da mangiare al gatto. Pensava che il figlio fosse in vacanza nel sud della Francia ma, come potete vedere anche voi, non è mai arrivato all’aeroporto in realtà».

    «Dov’è la madre ora?», chiese Erika infilando una gamba nella tuta stretta.

    «Alcuni poliziotti l’hanno accompagnata all’ospedale universitario di Lewisham. Era in stato confusionale per lo shock e il caldo. Dovremo raccogliere la sua deposizione quando si sarà ripresa», rispose Moss allacciandosi la tuta.

    «Datemi un paio di minuti per esaminare la scena», commentò Isaac tirandosi su il cappuccio. Erika annuì e il medico entrò in casa.

    Tra il caldo, la calca delle persone racchiuse in uno spazio limitato e le luci accese, al piano superiore la temperatura superava i quaranta gradi. Isaac, i suoi tre assistenti e il fotografo della scena del crimine lavoravano in religioso silenzio.

    La vittima era stesa sul letto matrimoniale, a pancia in su e completamente nuda. Aveva una corporatura robusta e atletica. Le braccia erano sollevate e legate alla spalliera del letto con delle corde che gli laceravano la pelle dei polsi. Le gambe erano aperte, i piedi divaricati. La testa era avvolta in una busta di plastica trasparente, che distorceva i lineamenti del viso.

    Erika aveva sempre avuto delle difficoltà con i cadaveri nudi. La morte era già indecorosa per conto suo, senza che le vittime venissero esposte in quel modo. Si sforzò di resistere all’impulso di coprirgli il basso ventre.

    «La vittima è il dottor Gregory Munro, quarantasei anni», annunciò Moss. Erano tutti radunati intorno al letto. Gli occhi del cadavere erano aperti e insolitamente limpidi, ma la lingua stava cominciando a gonfiarsi, sbucava

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