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Panacea
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E-book745 pagine13 ore

Panacea

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Info su questo ebook

A Sàlari, città di mare e di sole di una grande Isola del Mediterraneo, è primavera. Da quando il Forno Panacea ha aperto i battenti, i livelli di piacere, gioia e voglia di vivere sono lievitati. Gli orgasmi di gusto provocati dai prodotti del panificio, fanno affiorare bisogni e desideri dimenticati che, nelle mani del misterioso dottor Duruà, diventano chiavi di vita nuova, felicità e salute. Aldo invece è un cliente del Forno che preferisce cercare la "pillola miracolosa". Deluso dalla medicina moderna, insieme a un gruppo di altri disperati, parte su un furgone scassato alla ricerca dei guaritori dell'Isola che ricorrono ancora alla medicina tradizionale. I "pellegrini" non sapranno mai cosa li abbia davvero guariti, ma troveranno dentro di sé qualcosa di prezioso che li riempie e li fa stare bene. A qualcuno però non conviene che le persone siano più felici e più sane e trama nell'ombra per sabotare il progetto del forno, pilotando l'ispezione fiscale più surreale e feroce della storia. A condurla sarà il severo dottor Carestia, autentico jedi del fisco, addestrato dai Grandi Maestri Tributari in persona, che grazie alla sua abilità rimarrà sorpreso dalle sue stesse scoperte.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mag 2018
ISBN9788827830741
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    Anteprima del libro

    Panacea - Luciana Giordo

    sogni.

    Prefazione

    Un vortice di personaggi bizzarri, situazioni imprevedibili e travolgenti invenzioni linguistiche avvolge il lettore che si avvicina a queste pagine. La storia lievita a poco a poco tra le mani sapienti dei suoi autori, proprio come le fantasiose pagnotte e i dolci, frutto di ardite sperimentazioni, create all’interno del forno che dà il titolo al romanzo.

    È uno strano posto il Forno Panacea, dove i clienti vengono risvegliati con una piuma di pavone da Mimì e appesi alle pareti da Muffa, dove le ricette sono il frutto dei deliri mistici di Lèbiu e i lieviti vengono coccolati come bambini dall’Ingegnere. Gli orgasmi di gusto provocati dai prodotti del panificio fanno affiorare nelle persone bisogni e desideri dimenticati, che con l’aiuto del misterioso dottor Duruà, diventano chiavi di vita nuova, felicità e salute. I clienti del panificio-pasticceria si radunano nel negozio per goderne le prelibatezze ma anche per stare insieme, per farsi forza nei momenti di difficoltà, per scambiarsi improbabili consigli. Il viaggio che intraprenderanno a bordo del FolksFaken DA-13, alla ricerca di guaritori e guaritrici che possano sanare i loro mali, cementerà l’unione del gruppo e ognuno di essi scoprirà fino a che punto può essere artefice del proprio destino. Come in ogni fiaba però, proprio quando il sogno dei tre ragazzi – donare felicità ai clienti attraverso i loro peccati di gola – sembra ormai realizzato, entrano in scena i cattivi e minacciano di infrangerlo. Ed ecco comparire all’orizzonte il severo dottor Carestia, autentico jedi del fisco, addestrato dai Grandi Maestri Tributari in persona, per indagare sui conti del panificio. Qualcuno sta cospirando contro il Forno Panacea, è evidente. Chi è che trama nell’ombra? Con quale oscuro obiettivo? Quando getterà la maschera? E soprattutto, riusciranno i nostri timidi eroi a tener testa a ogni assalto? Al lettore il piacere di scoprirlo.

    Prefazione di Elio Martin

    Se dovessi esprimere in poche parole che cos’è per me Panacea, direi che più che di un racconto, si tratta di un posto. Un luogo lontano da tutto, in cui si concentra l’essenza della ricerca, in seno a una pluralità di vite pulsanti e a tratti impetuose. Una ricerca che merita silenzio e lentezza e che, non a caso, si svolge sull’Isola.

    Dalla minuziosa descrizione somatica e psicologica dei personaggi, traspare l’inquietudine di voler trovare un posto nel mondo, per se stessi e in mezzo agli altri, di liberare le risorse più profonde di sé, così come di dare un senso alla propria esistenza. Ed è proprio nel momento in cui ciascuno decide di provare a vivere nuove esperienze, che la vita inizia a riservare delle sorprese e le solitudini finiscono. Così è per l’Ingegnere e Lèbiu, il cui incontro fortuito dà forma al sogno del Forno Panacea. Entusiasmo e passione si uniscono in una sintonia di intenti che crea prodotti dal gusto miracoloso e che rende il Forno un nido pulsante di condivisione di vite disastrate ma desiderose di godere di un’altra opportunità. Così è per la dolce e decisa Mimì, che cerca un amore che la scaldi, per il delicato Renè, che prova ad accettarsi, per il misterioso Dottor Duruà, che deve fare i conti con un grande dolore del passato e per il vittimista Aldo, che si trascina in una vita che si fa di giorno in giorno più spenta.

    In questa spinta di crescita interiore si inserisce la visione dell’uomo come universo di pensieri, convinzioni, emozioni e corpo. Nel corpo si iscrive la storia delle esperienze vissute, così come mostrato dall’aspetto rettiliano del truffatore Fiàgga e dal colorito fosforescente dell’astioso Fùtta. La rinascita dei vari personaggi non avviene perciò solo nel loro animo, ma si riflette nel corpo, nella loro energia e nella loro vitalità. È una rinascita che passa dal riscoprire la vicinanza tra esseri umani, sia nel caso del Dottor Duruà, che apre il suo animo all’ascolto dei bisogni profondi dei suoi clienti, sia nel caso dei guaritori della medicina tradizionale, che curano con la fede perché semplicemente sentono il dovere di farlo. Prendersi cura gli uni degli altri, come fanno anche Don Paolo e Signor Vidènti, i confessori del Forno Panacea, per creare una comunità. E come parte di una comunità siamo più forti e siamo più felici. Anche Signora Zina, che però, con il suo ironico sarcasmo, la sua visione del mondo e la sua parlata slabbrata, non lo ammetterebbe mai. E anche Donna Laura che, con fatica, ha dismesso il suo travestimento da nobildonna per scoprire cosa vuol dire essere semplicemente una donna.

    Quello che accomuna questi personaggi, a tratti seri e profondi e a tratti decisamente ironici e tragicomici, è la decisione di smettere di sentirsi vittime e di riprendere in mano il timone della loro vita, ritornando perciò liberi. La libertà è però un fenomeno pericoloso e incontrollabile. È indesiderabile per chi vuole decidere per gli altri quali siano i problemi e le soluzioni valide per tutti, per chi vuol far credere di essere l’unico detentore della verità e della pillola magica, ruolo rappresentato nel racconto dall’azienda farmaceutica Wellness Drugs & Co.

    Eppure una seconda opportunità è sempre a portata di mano, perché per tutti esiste la possibilità di chiedersi se le cose stiano davvero come ci hanno insegnato. Esiste per il Dottor Ricetti, che viene portato dal collega Duruà a riflettere sulla sua motivazione dell’essere medico e sulle sue abituali modalità di accompagnare i pazienti nel loro percorso di vita e di salute. Esiste per il temibile e integerrimo ispettore fiscale Carestia, che riprende a sentire le sue emozioni grazie alla passione per la bella Angèlena. Esiste per i dirigenti della Wellness Drugs & Co. e per il finanziere Fuffaldino, che però decidono di non coglierla.

    Tutto questo accade in Panacea, in un intreccio di storie, eventi e persone che si fa sempre più avvincente man mano che si procede con la lettura. L’altalenante cambio di registro tra temi esistenziali e situazioni surreali, tra passioni sfrenate e stregoneria, tra scazzottate e antiche credenze, tra irresistibili peccati di gola e assurde questioni fiscali, conferisce al romanzo un bel ritmo, mentre le pennellate di comicità fanno sì che i messaggi passino con leggerezza, rendendo facile e piacevole la lettura.

    Un libro senz’altro per tutti, ma non si aspettino certezze assolute. È piuttosto uno stimolo a porsi domande sul senso del vivere, sulla sofferenza, sulla responsabilità di ciascuno nel disegnare la propria vita, e a riflettere su come le relazioni autentiche possano portare a un nuovo piano nel sentire, per esplorare e riscoprire la meraviglia del proprio mondo interiore.

    Dott. Elio Martin

    Medico Chirurgo Oncologo

    Nota degli autori

    Care lettrici, cari lettori,

    Panacea è un libro corale, dal quale emerge tutta una vita di sogni, i nostri. Il sogno di ospitarvi nel miglior forno-pasticceria dell’universo, in cui soddisfare le golosità più selvagge e raffinate; il sogno di vedere le persone prendere in mano le loro vite per tornare a fiorire; il sogno di diffondere la consapevolezza che vivere una vita gioiosa sia la base della salute; il sogno del viaggio in una terra fantastica, nella quale ci si prende cura degli altri e della natura per il semplice motivo che anche loro si prendono cura di noi; il sogno di scoprire se stessi in ogni nuova esperienza; il sogno di prendere in giro aspetti faticosi e assurdi della realtà quotidiana; il sogno di dire tutto questo attraverso personaggi reali e surreali pieni di luci e miserie, dai quali vi separerete a malincuore; il sogno di sentire l’eco dei vostri pensieri e delle vostre risate.

    Questa storia è la nostra storia. Non pretendiamo di insegnare niente a nessuno, lanciamo solo domande al vento. Attenzione però: sono domande di un certo peso. Se ne sarete colpiti, niente sarà più come prima, perché il vostro nuovo viaggio avrà avuto inizio. Vi aspettiamo sul FolksFaken DA-13.

    Buona lettura.

    Luciana e Giuseppe

    Parte I

    1. Gioielli e un fiume

    Tra mille cigolii e ordini gridati, una piccola gru sollevava una pesante insegna in ferro battuto per collocarla sulla facciata dell’edificio. Era uno degli ultimi dettagli che completavano l’allestimento del locale. Dall’altra parte della strada, l’Ingegnere, Lèbiu e Mimì, circondati da un gruppo di curiosi, assaporavano emozionati il momento. Non volevano perdere né dimenticare neanche un istante di quella cerimonia. Stavano mettendo la firma. La firma in calce al loro progetto di lavoro e alla nuova vita insieme.

    «¿Qué Maestro?» mormorò Lèbiu mentre poggiava una mano sulla spalla dell’Ingegnere.

    «Sembra tutto vero…» rispose il suo socio a mezza voce.

    Mimì al loro fianco taceva. Aveva gli occhi lucidi. Quell’istante contenteva mille domande di presente e di futuro. Era carico, troppo.

    E il troppo, non si dice.

    Un anno prima, a Listòna, in quella parte di Europa dove la erre moscia cede il posto alla elle arrotolata, Lèbiu lavorava come agente finanziario che batteva la provincia per proporre crediti ai commercianti a condizioni così esose che più di una volta era uscito dai negozi coperto di insulti. Alcuni giorni si svegliava con una forte sensazione di nausea, pensando: «Piuttosto che fare questo lavoro preferirei masticare ortiche». L’unico diletto che trovava nei suoi itinerari commerciali erano i momenti rubati che lo vedevano rifugiarsi nei profumi e nelle visioni sublimi dei panifici, golosa presenza nelle città che quotidianamente visitava. Guardava assorto le pagnotte con le loro croste brunite, i panini di Vienna, così morbidi che rischiavano di essere sgualciti da sguardi troppo intensi, le ciavàre allungate e croccanti e le corone di sposa, decorate a spicchio e con la mollica bianchissima. Perso in quella contemplazione di forme e aromi, immaginava la storia di ogni tipo di pane e una miriade di nuove ricette e forme sgorgava inarrestabile dalla sua mente.

    Nello stesso periodo, l’Ingegnere si trovava a Listòna per conto della società Torbidus SA, dedita al deciframento dei messaggi in codice che, nell’internet occulto, venivano utilizzati dalle lobby del petrolio per boicottare l’applicazione degli accordi internazionali sui limiti al cambiamento climatico. Era un’attività molto difficile e pericolosa. All’inizio, aveva trovato il lavoro davvero intrigante, una sfida continua per le sue capacità e il suo intuito, ma negli anni sentiva pian piano crescere dentro di sé l’esigenza di creare qualcosa che si trasformasse in materia, che potesse prendere forma dalle sue mani. Ci rimuginava sopra da mesi ma ancora non era riuscito a trovare la sua chiave di creatività e significato. Una mattina approfittò di una mezz’ora d’aria per fare una passeggiata nelle vie del centro e fu attratto dalla magnifica vetrina di un panificio, nella quale, dal buio, spuntavano creazioni esposte separatamente su dei sostegni. Ognuna era illuminata artisticamente da una luce calda proveniente da una direzione misteriosa. Quell’esposizione a cinque stelle faceva lo stesso effetto scenico dei gioielli di Bùnnari. Non aveva mai visto niente di simile e decise di entrare per scoprire il resto dei preziosi. All’interno fu assorbito da un’atmosfera ovattata: la luce nel locale era tenue e le creazioni apparivano come sospese in un pulviscolo dorato. Neanche i commessi, nella loro uniforme nera, osavano increspare quella magia, e la loro presenza era segnalata di tanto in tanto solo dallo smalto dei loro denti. L’ingegnere guardava incantato le varie forme di pane per cui Listòna era così famosa e, nello spostarsi lungo il bancone, urtò Lèbiu che, con quella luce e il suo abito scuro, difficilmente poteva essere individuato.

    «Mi scusi» disse, «in questa penombra proprio non l’avevo vista».

    Al ricevere la spinta, Lèbiu si voltò d’impulso con un gesto brusco. Il suo disappunto fu però subito placato da quella voce dolce e riposante, così simile all’infrangersi delle ondine sulla battigia in un giorno senza vento. Iniziò a danzare interiormente come un anemone di mare, accarezzato dal soffio di una flebile e mutevole corrente. Il suo viso si distese in un sorriso.

    «Non si preoccupi, è così scuro qui e io ero così assorto…».

    «Ammirava i gioielli?».

    «Sì. Guardi le sfedole, le cupole, il pane di semi, le coche, ooh, è davvero fantastico!».

    E ripiombò nel profondo della sua contemplazione. L’Ingegnere notò che quanto più si concentrava, tanto più sembrava sollevarsi da terra.

    «Posso aiutarvi?» chiese una commessa bruna della quale riuscivano a distinguere solo la sclera degli occhi.

    Lèbiu non reagì, dunque a parlare fu l’Ingegnere.

    «Sì, vorrei un pane in cassetta di peppemo».

    «Certo, ma vorrei farle vedere anche un barilotto di semola fiorita che abbiamo appena sfornato».

    Mostrò il pane ai due con orgoglio e gliene offrì un pezzetto.

    «Oooh!» reagì Lèbiu agitando le mani. «Questo è pane di pasta madre che avete fatto lievitare per due giorni, impastato a mano in tre fasi con incrociatura a schiaffo e infornato per quaranta minuti e trenta secondi a duecentoquarantacinque gradi?».

    «Sì, esatto!» mormorò allibita la commessa. «Vedo che lei è del settore».

    «Eeeh…» rispose Lèbiu con un sorriso timido, abbassando lo sguardo. «Mi piace molto il mondo del pane, non faccio altro che pensare a nuove forme e impasti e a come proporli, come venderli».

    Pane! Pane! Ma certo! Come mai non gli era mai venuto in mente? Ecco l’attività che avrebbe generato una cosa viva, ogni giorno diversa in base alla qualità delle farine, dei lieviti, dell’acqua, dell’aria, in base al calore. Qualcosa su cui studiare a fondo, nella quale poter finalmente applicare conoscenze acquisite in passato e mai usate. Si vedeva trascorrere le giornate nella ricerca di formule e tecniche che avrebbero permesso di realizzare il prodotto perfetto.

    «Fantastico» pensava, «ogni giorno un nuovo esperimento, una nuova sfida, prove ed errori fino alla suprema soddisfazione del prodotto ben riuscito. Certo che però, al momento, non ho né basi, né inventiva, né voglia di spaccarmi la testa per capire come proporlo ai clienti». Il suo sguardo si immerse negli occhi di Lèbiu, che vi rimase appeso come a un destino ineluttabile.

    «Possiamo parlare?» chiese l’Ingegnere, e Lèbiu seguì la sua voce durante i giorni che seguirono, nei quali il fiume di Listòna trascinò con sé il resto del mondo, mentre loro galleggiavano nell’utero del loro nuovo e antico sogno. Seduti ai tavolini dei caffè sospesi sul fiume, modellarono un progetto di panificazione da realizzare insieme, in un luogo in cui davvero avrebbero potuto sorprendere e sorprendersi. Volevano andare a vivere al caldo, in un posto carico di magia, traboccante di natura forte e profumata, di colori e di respiri ancestrali, lontano dal chiasso e da ritmi insensati. Decisero di farsi proteggere dal mare, di trasferirsi sull’Isola, di iniziare la loro avventura da Sàlari.

    2. Aldo

    Il piede si ritrasse come una lumaca dentro al suo guscio: il pavimento era ghiacciato.

    «Maledetta ciabatta! Iniziamo male» pensò.

    Dietro a una miriade di gocce tenacemente aggrappate alle finestre, il cielo era terso. Erano i primi di marzo, l’umidità dell’aria rendeva il freddo pungente.

    «Maledetto marzo» pensava. Maledetto, come tutti gli altri mesi, troppo freddi, troppo caldi, troppo umidi o troppo ventosi. Troppo, sempre. Seduto sul bordo del letto, realizzò il primo di una serie di inconsci e quotidiani rituali: un controllo completo dello stato del suo corpo, dai mignoli dei piedi fino all’ultimo capello. Il bollettino del giorno diceva: alluce valgo destro in aumento, rigidità lombare cinquanta per cento stabile, crescente pressione nell’alto addome, turbolenze in quello medio e basso, tempeste in avvicinamento.

    Fece i primi passi verso quel sanatorio abbandonato che chiamava bagno. Accolse con una smorfia di disgusto l’odore palpabile che risaliva dalle tubature e che ormai aveva usucapito la stanza. Avanzò in direzione dell’armadietto pensile con i vetri a specchio e lo aprì con vigore. Come ogni mattina, ricevette sui piedi una cascata di scatole, blister, pastiglie, boccette, supposte, fiale, bustine, ogni genere di farmaco che potesse essere ingerito o fatto in qualche modo scomparire all’interno del proprio corpo. Guardò sconsolato le medicine sparse sul pavimento e sbottò: «Bastarde! Lo fate apposta!». Dopo averle raccolte, gemendo ogni volta che doveva inchinarsi e tirarsi su, diede inizio all’assunzione delle dosi quotidiane, unico gesto attraverso il quale sapeva prendersi cura di sé.

    Nonostante il resto della casa fosse stato arredato in modo modesto dai precedenti proprietari che l’avevano abitata per mezzo secolo, fino a cinque anni prima questa risultava graziosa e accogliente, piena di luce, di colori, di profumi e delle risate cristalline della signora Elsa, la moglie di Aldo. Si erano conosciuti al liceo, ai tempi in cui scorrazzavano in motorino tra i colli di Sàlari e le spiagge. Una volta sposati, il loro ménage era stato tranquillo: lui lavorava al Monte dei Pegni della città e lei aveva aperto un negozio di fiori in via Siamisàni - angolo via Stoppìno. La serenità veniva a volte infranta da qualche litigio dovuto alla taccagneria di Aldo, così pervasiva che anche il nome di suo padre era stato suddiviso tra i due figli Ermène e Gildo. Aldo era molto innamorato di sua moglie, ma era soprattutto geloso delle sue attenzioni. Faceva di tutto per essere visto, accontentato, coccolato e assistito da lei. Cercava di prevenire o di eliminare tutti gli impegni, così come la presenza delle persone che l’avrebbero distratta da lui. Iniziarono a frequentare sempre meno gli amici e a discutere riguardo gli impegni lavorativi di Elsa. Negli anni, questo atteggiamento si era trasformato in un attaccamento morboso a lei e anche l’arrivo dei figli era stato vissuto da Aldo con grande sofferenza, visto il tempo e le energie che richiedevano alla loro mamma. Fu allora che elaborò una nuova strategia di sopravvivenza e iniziò a sviluppare una lunga serie di disturbi, in conseguenza dei quali regrediva immediatamente allo stato di infante, nella speranza di condividere la stessa priorità data agli altri due. Il suo impegno nel raggiungere il loro livello di importanza fu tale che sviluppò in quattro anni due volte il morbillo, una la varicella e un’altra gli orecchioni, malattie già contratte durante l’infanzia.

    Elsa diventò sempre più esausta e insofferente ai ricatti emotivi di Aldo, di cui ormai si sentiva la mamma a tutti gli effetti. Quando una mattina di giugno lui entrò in cucina piagnucolando perché gli si era formata una macchiolina bianca su un’unghia e reclamava che Elsa lo accompagnasse dal medico, lei diventò paonazza, iniziò a parlare in endecasillabi scatenati e, attraverso la finestra, si levò leggera nell’aria seguendo il vento di levante, legata al filo di centinaia di invisibili palloncini. Aldo capì che qualcosa si era spezzato per sempre.

    Ermène e Gildo, occupati nelle loro scorribande di ragazzi tra spiaggia, baretti e turiste delle navi da crociera, iniziarono a intuire che la madre fosse scomparsa man mano che le lenzuola assumevano un colore terreo, che il bagno odorava sempre più di urina irrancidita e che il frigo si svuotava fino a ospitare come unico superstite un limone ammuffito. Oltretutto, avevano finito i soldi e si erano resi conto che l’unica persona presente in casa, almeno fisicamente, era proprio colui che non avrebbe mai scucito loro un centesimo.

    «Ma… mamma?» chiese Gildo al padre dopo qualche mese.

    «Mamma è andata via» disse Aldo mestamente.

    «E… torna?» chiese il ragazzo dopo un momento di silenzio.

    «Boh» rispose il padre senza guardarlo negli occhi.

    «Ah» commentò Gildo annuendo.

    Non parlarono più della questione.

    Aldo andò a vestirsi. Il suo guardaroba liso aveva l’aspetto dell’inesorabile decadenza del resto della casa, al punto che qualcuno dei suoi colleghi di lavoro dubitava che dormisse sotto un tetto. Prese il suo borsello e controllò che il kit di pronto soccorso, composto da fazzolettini di carta, cerotti autodisinfettanti, antistaminici, antidiarroici e antibiotici per la cistite fulminante, fosse intatto. Normalmente non prendeva il portafoglio, per non cadere nella tentazione di comprare una qualunque cosa che non fosse strettamente legata alla sua immediata sopravvivenza. Prese il cappello e uscì, lasciando la casa immersa nella penombra e nell’odore di polvere stantia.

    3. Color di miele

    Aveva girato mezzo mondo e fatto tanti di quei traslochi che non ricordava neanche più dove abitasse prima di arrivare a Sàlari. Viaggiava leggera Mimì, solo con uno zaino in spalla e senza specchietto retrovisore. I clienti del Forno dicevano fosse una donna misteriosa che giocava a nascondere la sua storia, ma in realtà aveva solo perso molte memorie per strada.

    «Ricordare cosa?» rispondeva a chi si sorprendeva di questo. «Le cose essenziali ti si iscrivono dentro, non hai bisogno di ricordarle. E per il resto c’è lì un cestino di immagini da cui prendo ciò che mi serve per restare viva».

    Le disastrate condizioni familiari l’avevano presto convinta che l’unica persona sulla quale potesse davvero contare era se stessa. A cinque anni già sapeva cucinare e tenere la casa in ordine; a otto trattava il prezzo di tutte le forniture domestiche e si occupava dei fratelli; a sedici aveva deciso che, dato che sapeva leggere e scrivere, non aveva più senso farsi rubare il tempo dai banchi di scuola: avrebbe potuto studiare le cose che le interessavano quando fosse arrivato il momento di conoscerle. Cercò un lavoro e, appena poté, lasciò la casa paterna per tuffarsi nel mondo.

    Le sue forme sinuose e il colore di miele che tingeva i suoi occhi e i suoi capelli attiravano gli sguardi degli uomini e delle donne. Non era facile da avvicinare. Non voleva rogne, e il suo sguardo fermo teneva a bada ogni persona non desiderata, creando intorno a sé un campo energetico respingente e invalicabile, fino a quando si decideva a benedirla con la sua fiducia. L’uniforme color farina, con il suo corredo di cuffietta e grembiule merlettati da fornaia ottocentesca, la rendeva ancor più attraente e la sua presenza faceva del Forno Panacea un luogo decisamente pittoresco, dall’irresistibile aria retrò.

    Aveva conosciuto i soci del panificio un giorno che passava in via Siamisàni, diretta al modernissimo Hotel Fìgus, nelle cui cucine lavorava come chef pâtissier. Al numero civico cinquantatré c’era un viavai di operai che entravano e uscivano senza sosta dal locale e un cartello sulla finestra che diceva: Cercasi venditrice esperta di ogni delizia che un forno possa regalare. Mimì fu immediatamente conquistata dall’annuncio e volle subito conoscerne l’autore. Entrò nel locale polveroso, scavalcò i calcinacci, evitò di calpestare il massetto poggiato di fresco e si diresse verso due uomini che la fissavano. Uno era alto e snello, la postura eretta e l’espressione attenta, l’altro era di statura leggermente più bassa, il corpo lievemente inclinato in avanti e l’accenno di un sorriso sulle labbra e negli occhi.

    «Buongiorno, siete voi i titolari?».

    «Buongiorno a lei. Sì, siamo noi» rispose l’Ingegnere, che le strinse la mano e le presentò Lèbiu. All’udire la voce dell’Ingegnere, Mimì sentì che un fremito leggero e sconosciuto le nasceva dentro.

    «Ho letto l’annuncio sulla finestra» disse riavendosi subito. «Lo ha scritto lei?».

    «Qui facciamo tutto a quattro mani, signorina» disse l’Ingegnere. «Le interessa il posto?».

    «In principio, sì» si trovò a rispondere Mimì che, stando in loro presenza, minuto dopo minuto, provava una crescente sensazione di frittelle e cioccolata calda, molto diversa da quella di freddo e odore di pesce che sentiva nel suo attuale lavoro, nonostante si occupasse di impasti e pasticceria.

    Si sedettero sui sacchi di cemento che attendevano di essere incorporati al nuovo pavimento ed entrarono nei dettagli del progetto del Forno, del tipo di prodotti che avrebbero voluto lanciare, delle caratteristiche della loro venditrice ideale, dell’esperienza lavorativa di Mimì e delle condizioni economiche che potevano offrirle. Trovarono subito un accordo: aveva due mesi di tempo per comunicare all’Hotel Fìgus che avrebbe lasciato le loro cucine.

    4. Anime gemelle

    Un profumo di pino silvestre misto a radice di ginepro e corteccia di sandalo annunciò l’arrivo di un uomo fatto, castano, alto e smilzo. Il suo incedere creava una danza tra le zampe d’elefante dei pantaloni bianchi, il crocefisso appeso al collo e il colletto a punta spinta della camicia iridescente. Ondeggiava anche la fluente capigliatura che sfiorava le sue spalle, apparentemente modellata dai locali venti dominanti, carichi di salsedine e umidità, nei giorni in cui raggiungevano i cinquanta chilometri orari.

    «Ebbè¹ Mimì!» salutò.

    «Millo mì²!» esclamò Signora Zina.

    «Le solite rugole, Renè?» chiese Mimì.

    «Eja gioia mì³, come quelle che mi stanno scavando la faccia», rispose Renè, passandosi un dito sui baffi ben disegnati e togliendosi i Clay Fan che coprivano metà del suo viso. Lo sguardo sornione fece capolino, sormontato da lunghe ciglia a ventaglio, oggetto dell’invidia di tutte le sue amiche e clienti.

    «Ma… in moto sei venuto?» chiese Signora Zina guardandogli i capelli, col suo solito fare da presa in giro permanente.

    «A le piacciono, Signora Zì?» rispose lui all’imponente signora dai capelli fulvi alla sua destra.

    «Eh, umbè⁴, proprio bello sei. Ebbè⁵, a maschietti come stai, ancora niente?» incalzò mostrando il suo sorriso di porcellana.

    «Ahi! Mamma mia! Ma sempre ficcando il naso sta? Lei piuttosto, fidanzato ancora niente?».

    «Cosa fidanzato!» rispose. «Ormai sono vecchia. Ma sai quante occasioni ho rifiutato quando ero più giovane? E tutto per i figli, mì⁶. Dopo che è morto mio marito non ho accettato la corte di nessuno. E pensare che da ragazza non me ne facevo scappare neanche uno, neppure quand’ero fidanzata. Ero in salotto con la famiglia di lui e mi affacciavo alla finestra per sorridere agli altri ragazzi che passavano per la strada. Quanto mi divertivo! Che cazzata ho fatto a sposarmi con Mario!».

    «E allora perché se l’è sposato?».

    «Iiih, perchéee?! Perché era quello che aveva la macchina più grossa!».

    «Uai uai!⁷ Viva l’amore!» disse ridendo Renè, cercando la partecipazione degli attentissimi avventori.

    «Cosa vuoi saperne tu! Guarda che a quei tempi c’era tanta fame, ma di romanticismo ce n’era poco. Ne ho dovute sopportare di cose, soprattutto da mia suocera».

    «E cos’è, il marito mammone s’era scelto?».

    «Mmmacché⁸! Mammone è dire poco, era attaccato alla madre come una zecca. È voluto andare ad abitare nella stessa casa dove viveva la mamma, che veniva a comandare a casa mia, capito? A casa mia! Tanto la porta era sempre aperta. Non c’era spostamento che facessimo senza di lei e la mattina, quando mi alzavo, trovavo la scopa fuori dalla mia camera da letto. Ti rendi conto? Mi diceva anche quando dovevo pulire, roba da matti, maledizione!».

    «E se non stava bene perché non si è separata?» azzardò Renè.

    Signora Zina lo trapassò con lo sguardo, sbattendo le palpebre perennemente ornate di azzurro.

    «Ma maccu sei⁹?! Era una vergogna, e poi, casalinga con cinque figli, dove vuoi andare?» e scosse la testa sconsolata. «Sono stata troppo sfortunata nella mia vita, troppo, davvero troppo, sempre a contare i soldi prima di uscire a fare la spesa, risparmiando sul riscaldamento in inverno, e sulla manutenzione della casa. E come se non bastasse tutte quelle spese in medicine».

    «Medicine per che cosa?».

    «Ih! Mal di testa. Ma da morire, guarda. Sai quanti giorni passo sdraiata nella mia stanza, completamente al buio? Da impazzire… A volte penso di buttarmi dalla finestra, così la finirei con tutto questo battagliare».

    «Ma non ci ha mai provato davvero, giusto?» chiese preoccupato Renè.

    «Ma maccu sei?! No, non ci mai ho provato perché ho pensato che con la caduta potrei perdere la dentiera, e se mi trovassero così, con la mia bocca da una parte e la dentiera dall’altra, mi vergognerei troppo, per cui non ho voluto correre il rischio».

    Renè la guardava scuotendo la testa e con la bocca piegata all’ingiù. «Boh boh, siamo a posto» mormorava.

    «Però quando entro qui il mal di testa mi passa. Non capisco perché. Sarà questo profumo o l’assaggino del pane del giorno, non so».

    «Anche a me, quando mangio i baschetti, quei paninetti al burro soave, mi viene una botta di felicità che, nel mio stato di tristezza cronica, si nota».

    «Anche tu sei triste, gioia mì? Tra macchìne¹⁰ e depressione ci assomigliamo proprio. Mimì, fammi assaggiare un pezzetto di baschetto».

    «Comunque, quanto prendi per il colore?» chiese Signora Zina ritornando nel mondo delle urgenze immediate.

    «Ventitré euro» rispose Renè.

    «Aaahhh! Ventitré euro! Noooo, sai quanta frutta e verdura ci compro con ventitré euro? Già me lo faccio a casa il colore, da te vengo solo per il taglio. Ma a che punto è Anche i pesci friggono? A casa mia non si vede quella telenovela».

    Renè si illuminò, aumentò la sua salivazione, gli si dilatarono le pupille e, agitando le mani, iniziò a raccontare.

    «Maria Dolores è scappata dalla casa dove serviva dopo essere andata via dall’orfanotrofio. Si è nascosta nel confessionale della parrocchia del paese di… come si chiama? Bah! Ah sì, Los Rávanos. È lì da nove giorni e campa andando a vendere i candelabri e le statuette della chiesa nel mercatino di Maniguatapéc. Poi si è inventata i diritti di prevendita sulle confessioni, per cui stacca i biglietti la domenica a messa e durante la settimana ordina la fila per la pulizia della anime da parte di Padre Malafé: ceee, che pena che mi fa, poveraccia. La sorella Asunción ha sposato don Miguel».

    «Ma si è vecciu cadroddu!¹¹» esclamò indignata Signora Zina.

    «Non solo è vecchio» continuò Renè aumentando a dismisura il suo livello di agitazione, «è suo nonno, il padre di sua madre!».

    «Noooo, non ci posso credere! Ma non era morto?!».

    «Era morto per finta, come Sandokan quando gli avevano fatto il funerale in mare: aveva preso una pastiglia che l’aveva addormentato pesantemente e poi alla sepoltura aveva provveduto un suo compare di tazza¹² che al momento giusto lo aveva fatto uscire dalla bara. Tutto questo casino per non dover più massaggiare i piedi alla moglie mentre questa recitava il rosario».

    «Che guasto¹³!» disse sconsolata Signora Zina. «Mì che ce n’è gente suonata a questo mondo! Vabbé, Mimì, ajò¹⁴, dammi due cupole e quattro spianate che me ne vado». Salutò tutti e uscì liberando un buon metro quadrato di superficie, mostrando a Mimì una folla di clienti più piccoli che erano stati nascosti per tutto il tempo dietro la sua mole.

    5. Il Monte e il Forno

    Aldo si diresse verso il suo ufficio. Ci andava sempre a piedi, per gustare la passeggiata mattutina di trentacinque minuti che lo avrebbe condotto da viale Marta Veràce a via san Mortìfero, passando per la via principale che costeggiava il porto. Molti erano i piaceri di quest’escursione giornaliera: risparmiare innanzitutto i soldi dell’autobus; criticare sindaco e compagnia per lo stato di via Vièste, nella quale le radici degli alberi, liberatesi dal peso dell’asfalto, cercavano di strangolare i passanti; sentire profondo fastidio al dover dividere l’aria con il caleidoscopio di miserie e timide speranze umane che infestava piazza del Càrdine; e infine, bestemmiare per le tasse e i contributi che doveva pagare, quando passava sotto gli uffici di Regione e Previdenza Sociale. Una punta di malinconia lo colpiva quando, attraversando via Siamisàni, passava davanti all’angolo di via Stoppìno in cui la signora Elsa aveva avuto il suo negozio di fiori, ma questa si trasformava subito nel suo sentimento preferito: la rabbia per essere stato trattato ingiustamente.

    La sua scrivania era popolata di scartoffie, le pratiche di tutti i clienti del Monte dei Pegni che andavano lì a consegnare gli oggetti più assurdi, anche in cambio di un credito di pochi euro. Dalle patate rubate da sotto la terra al compagno di merende, ai kit per enteroclismi sottratti alle nonne lungodegenti, fino ai bidet divelti dalle case sottoposte a sequestro per questioni di abusi edilizi e mazzette, nei magazzini del Monte si accumulava ogni genere di articolo totalmente privo di qualunque valore di mercato e, soprattutto, dell’interesse di chi lo impegnava a riaverlo indietro. Aldo passava le sue giornate a discutere prima con i clienti, per il dubbio valore dei beni che proponevano in garanzia, e poi con il suo capo per averli accettati. Non si sentiva apprezzato da nessuno, aveva la sensazione che qualunque cosa facesse, qualcuno gli avrebbe fatto osservare che aveva sbagliato.

    Si sentiva solo anche sul lavoro. All’inizio i suoi colleghi lo coinvolgevano nei pranzi e nelle colazioni, nelle riunioni davanti alla macchinetta del caffè e nella gratificante visione degli ultimi siti porno colombiani, ma da quando le descrizioni dei suoi disturbi erano diventate il suo unico tema di conversazione, avevano iniziato a far finta che fosse trasparente. Per dargli un segnale lo avevano soprannominato scherzosamente Piombo, ma Aldo proprio non capiva il perché di questo nomignolo e, ogni volta che lo sentiva pronunciare, chiedeva con gli occhi sgranati: «Perché Piombo?».

    Non capiva le barzellette e difficilmente coglieva qualcosa di bello nel grigiore delle sue giornate. Il suo unico passatempo era percepire su di sé la presenza di nuovi malesseri, e nell’andare prontamente a riferirli al suo medico. Questi, esasperato, da anni ormai lo riceveva almeno tre volte la settimana, prescrivendogli, pur di liberarsene, ogni rimedio previsto dal prontuario farmaceutico nazionale. Aldo ricordava il nome di ogni farmaco che aveva assunto durante la sua vita e quando il dottor Ricetti provò a riproporgli vecchie terapie, il paziente cominciò a fare il diavolo a quattro per poter attingere ai medicinali venduti nei mercati esteri.

    Quel giorno di inizio marzo, dopo le maledizioni lanciate all’insegna dell’ufficio della Previdenza Sociale, Aldo trascinava stancamente il suo cappello e il suo ventre prominente in via Siamisàni quando un aroma lieve stimolò le sue vie olfattive, risvegliandolo. Annusò attento l’aria e si accorse che il profumo diventava sempre più penetrante man mano che si avvicinava verso via Stoppìno. Mentre avanzava iniziò a sentirsi più leggero, poi contento, euforico, commosso, confuso, vivo! Fece qualche passo a occhi chiusi, fino a che l’effluvio raggiunse il suo picco di intensità. A quel punto si voltò istintivamente verso destra e quando riaprì gli occhi incrociò lo sguardo di cinquanta paia di altri occhi di umani che lo osservavano muti. Alcuni lo guardavano dal basso, altri erano alla sua altezza e altri lo esploravano dall’alto di una ventina di trespoli fissati alla parete, sui quali i loro proprietari si trovavano appollaiati come corvi.

    «Mì, mì!! Un altro nuovo!» annunciò Renè dopo qualche lunghissimo secondo di silenzio. «Entri, entri, che già non mordiamo!».

    «Buongiorno» gli disse Mimì, che subito si adoperò per dirigere il traffico. «Si accomodi pure».

    Si rivolse poi al garzone, bonariamente soprannominato Muffa: «Pino, puoi mettere Ugo su un trespolo, così liberiamo un posto a piano terra per il signore?». Il pingue bambino iniziò a pestare i piedi e a protestare perché dal trespolo non riusciva a sentire tutti i pettegolezzi di cui era ghiotto, ma prima che avesse finito già guardava Mimì, il bancone del pane e i clienti del panificio dall’alto della parete di fronte.

    Aldo entrò e si sollevò un brusìo, all'inizio sommesso poi sempre più forte, come di rondini riunite in un campo in inverno, prima di levarsi tutte insieme in volo. Erano i commenti che si stavano scatenando proprio su di lui, il cliente del giorno.

    «Benvenuto nel Forno Panacea!» gli disse sorridente Mimì offrendogli un mini croissant alla crema bruciata. Aldo si illuminò e rispose a quel sorriso, la cosa più bella che gli fosse capitata da anni.

    6. Benvenuti a Sàlari

    L’Ingegnere e Lèbiu avevano studiato i tipi di pane fabbricati da tutte le popolazioni delle terre emerse e, piano piano, si andava formando nelle loro menti quello che sarebbe stato un prodotto nuovo che avrebbe fatto scuola. Volevano fare un pane così aromatico, delizioso e fragrante, morbido e croccante, leggero e corposo, da sfidare le leggi della panificazione conosciute: volevano fare qualcosa di illegale. Sognavano di realizzare un prodotto sublime, capace di far passare ogni tristezza, ogni dolore del corpo e dell’anima. Fu così che il panificio aprì le porte con il nome di Forno Panacea.

    Le ricerche per il locale durarono circa sei mesi. Cercarono sia per loro conto che avvalendosi dell’agenzia immobiliare più aggressiva della città. Batterono a più riprese ogni palmo delle vie commerciali, tanto che le loro facce iniziavano a essere familiari a proprietari e gestori di panifici e pasticcerie, i quali cominciarono a segnalarli ai vigili urbani. Il venditore di tessuti all’angolo tra via Stoppìno e via Madèro, ogni volta che li intravedeva per strada, usciva dal negozio per guardarli deliberatamente in cagnesco. Non solo avevano studiato i locali e i movimenti della clientela durante ciascun giorno della settimana e ora del giorno, ma al tempo stesso si erano fatti un’idea della produzione realizzata dalla loro concorrenza. Tra il pane tradizionale fatto con pasta madre e cotto nel forno a legna e i panini industriali di gomma, c’era uno spazio immenso in cui avrebbero davvero potuto rompere il mercato, facendo da apripista per una nuova epoca del pane e dei dolci in città. Avevano assaggiato pane e paste da colazione di impasti diversi e di tutte le forme per studiarne consistenza, aroma e resistenza al passare del tempo. Avevano concluso che la qualità del pane in città era mediamente infima, però agli abitanti di Sàlari piaceva. Era dunque necessario creare una nuova domanda.

    Un giorno passarono davanti alle vetrine di una pasticceria di dolci locali, presso il Mercato di San Romolètto. La loro attenzione fu richiamata da una pasta enorme, formata da due imponenti emisferi fucsia di pasta lievitata, spolverati di zucchero all’esterno e tenuti insieme sul pianeggiante lato interno da uno strato di crema. Restarono diversi minuti a sbattere le ciglia davanti a quella mole, sotto la quale un cartellino recava la dicitura Pesca.

    «Pesca?! Aquí un culo de grandetza naturale se chiama pesca?» ripeteva sbigottito Lèbiu che, fin dal primo momento, si era buttato nella pratica della lingua locale. «Giocano sula quantità da queste parti? Chisà se apretzerano el nostro estile più… sobrio».

    Dopo diversi mesi dedicati all’allestimento del locale, aprirono il panificio al numero cinquantatré di via Siamisàni, nel quartiere detto Chinatown, tra un bazar e un parrucchiere, cinesi per l’appunto.

    7. Padrone della città

    Come al solito, parcheggiò la sua Skart bianca con le scritte blu e magenta, inchiodando davanti all’ingresso del panificio, sulla corsia riservata ai mezzi pubblici, come era suo intrinseco e inviolabile diritto. Piccolo di statura e ricettivo come un radar, il geometra Squitti, titolare della Man&Giòne Immobiliare, era noto in tutta la città per la velocità con cui riusciva a inserire nel suo portafoglio ogni genere di immobili: dalle cantine ricoperte di muffa agli attici panoramici superlusso, dai locali bombardati durante la guerra a quelli più ambiti nelle vie commerciali della città, non esisteva per lui immobile senza speranza di collocamento sul mercato. Il suo intuito si confondeva con la veggenza: fiutava quando un inquilino iniziava a pensare di cambiare appartamento o quando un proprietario si predisponeva interiormente a vendere o affittare un locale vuoto da anni. Aveva poi l’esatta percezione di come stessero andando gli affari per ogni commerciante delle vie più battute, per cui era in grado di prevedere quando in determinati locali si sarebbe verificato un passaggio di mano.

    «Buondì» salutò entrando nel Forno e fissando su ogni avventore gli occhi ravvicinati, grandi e tondi da scoiattolo. Dello scoiattolo aveva anche le movenze, i cambi di direzione e la velocità di pensiero e azione. Dalle sue orecchie pendevano due auricolari, uno per ciascuno dei due cellulari grandi come libri tascabili, che con fatica riusciva a tenere in mano. Era in continua agitazione perché cercava di intrattenere una conversazione con le persone che aveva di fronte, mentre allo stesso tempo, con movimenti a scatto incrociato e talvolta contromano, rispondeva a entrambi i cellulari, cercando di non farli cadere per terra. Parlava con voce nasale e a denti stretti, il che gli faceva pronunciare delle esse particolarmente sibilanti.

    «Tutto a posto qui? Come state andando?» chiese quando arrivò il suo turno.

    «Benissimo, geometra» gli rispose Mimì. «È preoccupato per noi?».

    «No no, ma io continuo a dirvi che avreste venduto il doppio se aveste preso quel locale che vi avevamo fatto vedere in via Vaccarèlla».

    «Ma se è in mezzo a un cimitero di serrande abbassate, tanto che ormai la gente cambia marciapiede per non essere contagiata dal magone!» obiettò Mimì.

    «Ma era un affitto estremamente competitivo, bisognava solo alzare il soffitto di trenta centimetri, livellare il pavimento, ricavare una nuova finestra, installare il sistema di areazione forzata, ma si faceva in un attimo, in fondo son lavori che costano pochi euro. E poi la zona si sta rinnovando, hanno appena aperto lì vicino un negozio di scommesse e un concept store che vende ferrovecchio e tazzine sbeccate cedute dal Monte dei Pegni».

    «Pochi euro, dice… mi crede proprio scema» pensò Mimì che gli rispose ironica: «Caspita! Con queste attività così esaltanti vicine alla nostra, come avrebbero mai potuto resistere le centinaia di clienti di cui avremmo bisogno per andare in pareggio. Avremmo aperto tra un negozio totalmente inutile alla sopravvivenza umana e una specie di discarica, una sistemazione davvero strategica. Geometra, ne abbiamo già parlato e riparlato con l’Ingegnere: ormai abbiamo aperto qui, ci metta una pietra sopra e via».

    «Vabbè, ho capito. Mi metta quattro dadole e due baguette rustiche. E come va con i vicini?» chiese muovendo i padiglioni auricolari in avanti, in un gesto di indubbia attenzione.

    «E chi li ha mai visti?» rispose Mimì mentre gli serviva il pane dentro le buste di carta, profumate come il resto del locale.

    «Mmmh, allora il primo piano di questo palazzo forse non è abitato… Bene, bene, m’informerò».

    Pagò il pane e scambiò qualche battuta con l’Ingegnere che era uscito dal laboratorio per passare una nuova cesta di sfedole calde a Mimì, informandolo di passaggio sugli altri locali che gli sarebbero entrati in mano a breve. Chiese ai clienti più anziani dove abitassero, e uscì di corsa dal locale quando udì che l’autobus della Linea 1 stava suonando il clacson furiosamente perché la sua Skart impediva il passaggio. Ripartì sgommando senza neanche chiedere scusa.

    «Ancora quello stronzo della Man&Giòne Immobiliare!» mormorò l’autista con le mascelle serrate. «Quanto mi piacerebbe schiacciargliela quella macchinetta».

    8. Padrini

    Il panificio si trovava al pianterreno di un palazzo a tre piani di fine Ottocento, la cui facciata avrebbe avuto bisogno di un’energica rinfrescata. L’Ingegnere non ci aveva fatto troppo caso. Pensava che quell’aria di leggera decadenza gli desse un aspetto bohémien che ben si sposava con l’insegna art nouveau del Forno.

    Il locale era stretto e lungo. Entrando ci si trovava subito nella zona vendite, con pareti formate da mattoncini a vista e un pavimento composto da grandi listoni di legno scuro. Sulla sinistra era stato sistemato il bancone, un parallelepipedo rivestito di bianche piastrelle rettangolari, che andava dalla finestra sulla strada fino all’inizio del laboratorio, verso il fondo del locale. Proprio qui, sotto la grande vetrata che separava la zona vendite da quella della produzione, due minuscole seggiole formavano la postazione di Signor Vidènti e di don Paolo.

    Don Paolo non era un prete ma era il confessore naturale del panificio. La sua aria paciosa, gli occhi grandi e buoni, il suo completino di velluto nero con basco abbinato e la sua immancabile camicia immacolata, lo rendevano una calamita dell’anima. Ogni cliente abituale, appena arrivato, salutata Mimì si dirigeva dritto da don Paolo, anche per dirgli semplicemente come aveva dormito. E lui aveva sempre un momento di attenzione e una parola di conforto per tutti.

    Nel locale formava coppia con Signor Vidènti, l’anziano, il saggio, l’autorità indiscussa del Forno Panacea. Vantava una vita lunga e avventurosa lungo i saliscendi del secolo passato, al quale fin da giovane aveva guardato con un occhio di vetro, cicatrice della sua lotta per la libertà durante la Resistenza. Era nato nell’Isola, sull’altipiano, ed era un pozzo di scienza in tutto ciò che riguardasse la medicina non convenzionale, specialista dei woodoo di ogni colore e delle terapie usate dalle guaritrici e guaritori della sua terra, che aveva poi unito a pratiche sciamaniche delle Americhe e del Sud-Est asiatico.

    Tutti i problemi di salute confessati a don Paolo venivano poi condivisi con Signor Vidènti, che li analizzava e successivamente convocava l’interessato per il responso. Seduto sulla sua seggiola, oltre al suo bastone da passeggio, teneva accanto a sé una scatola con dei pezzi di cera, un reliquiario con frammenti di ossa umane e una medaglietta della Madonna, degli occhi di Santa Lucia, un pezzo di pelle di biscia, un bicchiere con un po’ d’acqua e pietre laviche, un pendolino, un coltello, una piuma di gallina e un mazzo di carte napoletane.

    Il responso poteva consistere in una pratica poco ortodossa da realizzare, un rituale magico, un miscuglio di sostanze naturali (alcune volte anche di scarto) da spalmare, ingerire o tenere a contatto con la zona del corpo da curare, oppure nell’adire a istanze superiori. In questo caso consigliava al malato di rivolgersi agli specialisti del suo problema, ovvero a guaritori di sua conoscenza che, normalmente, vivevano nei luoghi più reconditi dell’Isola.

    9. Stizza e paura

    «Buongiorno a tuttiii!!!» gridò Fùtta entrando nel locale. «Come stanno gli uccellacci?» disse guardando in alto verso le mensole su cui erano stati sistemati gli ultimi arrivati.

    «Meglio di te, panzone!» rispose Fiàgga, il consulente finanziario che, su ordine dell’Ingegnere, veniva riposto sulla parete non appena metteva piede nel panificio. Dopo un paio d’ore di frollatura, durante le quali veniva stordito dagli effluvi del pane appena sfornato, Muffa lo portava al cospetto dell’Ingegnere, davanti alla bocca spalancata del forno, presso la quale veniva collocato ad asciugare. Era infatti costantemente inzuppato dalla testa ai piedi. Qui Fiàgga raggiungeva temperature incompatibili con la vita per un normale mammifero, ma questo non riusciva comunque a frenare la sua cantilena di titoli, fondi, assicurazioni vita con rivalutazione, azioni con derivati di contenimento perdite, scommesse sull’andamento del prezzo del petrolio e sui prossimi consiglieri regionali che sarebbero stati processati per peculato. Queste ultime, insieme al totocanotto, ovvero la schedina sui personaggi famosi che si sarebbero fatti gonfiare di silicone nel trimestre in corso, erano i suoi prodotti di maggiore successo.

    Lavorava da più di vent’anni nella Banca Privata Futtiddùria, nel vicino ufficio di via Stoppìno. Lo avevano assunto nonostante avesse la terza media, poichè la sua naturale vocazione di truffatore compulsivo lo aveva portato a inventare e concludere operazioni finanziarie che richiedevano, oltre che chili di pelo sullo stomaco, anche molto sangue freddo: aveva venduto titoli di debito dei narcos colombiani alle suore dell’orfanotrofio di Mordàce Alto; aveva piazzato presso l’Associazione dei Rabbiosi Esplosivi degli hedge funds¹⁵ così rischiosi che si lavava le mani dopo aver toccato i documenti sui cui venivano citati; e, infine, aveva cartolarizzato¹⁶ e venduto ai crocieristi nordamericani le promesse di fedeltà coniugale realizzate da un gruppo di marinai dell’Est che, un anno sì, un anno no, e poi forse chissà, frequentavano il porto di Sàlari.

    Immersi nel lavoro e nella loro comunicazione telepatica, l’Ingegnere e Lèbiu in genere non lo ascoltavano. Giusto per cortesia, a volte, facevano dei cenni di assenso o accompagnavano le sue parole con qualche «Mmmh, mmmh». Inoltre, conoscendo perfettamente il suo curriculum, non avrebbero mai affidato un euro al personaggio, ma non se ne liberavano per la curiosità scientifica di capire la categoria tassonomica di quella piccola creatura dalla pelle dura e squamosa, dal viso estremamente allungato e dagli occhi piccoli, tondi e molto distanti tra loro. Avevano il sospetto che Fiàgga fosse uno degli anelli mancanti della catena evolutiva, tra un qualche tipo di anfibio oviparo e l’armadillo. Non a caso, quando qualcosa lo minacciava, non scappava né si agitava. Semplicemente, al culmine dell’angoscia, con uno scatto si chiudeva a palla. Erano però sicuri di una cosa: che dovesse avere le branchie, visto che in ore di parlantina serrata, neanche un mezzo secondo veniva sprecato per respirare.

    Alla fine dei suoi monologhi su investimenti e gestione del rischio, si faceva l’ora della chiusura e i proprietari del panificio lo congedavano, rimandando sine die la decisione sull’impiego dei risparmi dell’attività. Guardandosi le spalle, usciva dal laboratorio e, vista l’ansia che provava in mezzo alla folla, assumeva la sua posizione di estrema difesa e rotolava verso l’uscita.

    «Panzone divvìlu a babbudòiu!¹⁷» gli rispose Fùtta, infastidito dal fatto che Fiàgga volesse mettere in risalto, con quell’ironico commento, il suo fisico da acciuga. Il suo vero nome non lo conosceva nessuno. Ce l’aveva con il mondo, un mondo testardo che non ne voleva sapere di girare in base ai suoi desideri. Normalmente parlava per lamentarsi o inveire contro qualcuno. Si lamentava di essere circondato da inetti, bugiardi, imbroglioni e tirchi. Soffriva quando vedeva che qualcuno possedeva più denaro di lui o beni più preziosi dei suoi e si compiaceva dell’insuccesso degli altri, perché era un modo facile per sentirsi migliore di loro.

    «Embè, oggi grande vendita, no? Un pugno di mosche come al solito!» rise canzonando Fiàgga, che lo guardava dall’alto mentre le sue gambe dondolavano nel vuoto.

    «Non ho ancora parlato con l’Ingegnere. Ormai sono quassù da tre ore» rispose mestamente il consulente finanziario.

    «Eh, si vede proprio che gli prudono le mani, non vede l’ora di affidarti i suoi soldi. Mì che non è scemo, mì!».

    «Ma me la smetti di rovinarmi la piazza, uccello del malaugurio! Bello quell’orologio d’oro. L’hai comprato dallo zingaro sotto i portici?» lo provocò Fiàgga.

    «Questo l’ho comprato dalla gioielleria Copèrti. Mica sono un morto di fame come te!» rispose Fùtta piccato.

    «Attento col buonumore, ti fa diventare fosforescente».

    «E vai innorammala¹⁸!» chiuse Fùtta.

    Fiàgga si riferiva al colorito itterico di Fùtta. Effettivamente soffriva di cirrosi epatica dalla prima elementare, e diverse volte era stato ricoverato per coliche che gli procuravano un dolore insopportabile. Il dottor Ricetti gli aveva prescritto negli anni ogni nuovo farmaco che venisse lanciato sul mercato all’uopo, ma non aveva ottenuto alcun risultato. Era sfinito da quella lunga serie di tentativi infruttuosi di far cessare i fastidi e, per disperazione, aveva iniziato a essere ricettivo verso altri tipi di trattamenti che fino a qualche mese prima avrebbe bollato, con atteggiamento sprezzante, come stregonerie. Lui, che era laureato, non poteva certo credere in pratiche e intrugli paragonabili a quelli usati prima dell’arrivo della civiltà.

    Quel giorno decise dunque di chiedere consiglio al massimo esperto sull’argomento. Si avvicinò a don Paolo e lo salutò con un cenno della testa.

    «Come va oggi, figliuolo?» chiese don Paolo accogliendo Fùtta con i suoi occhi da cerbiatto.

    «Male don Pà, male. Sono sempre stanco, ogni tanto sento delle fitte qui, in alto» disse mentre indicava con una mano il lato destro dell’addome, «e ho spesso attacchi di diarrea» sussurrò Fùtta all’orecchio del confessore.

    «Il medico cosa ti ha detto?».

    «Che sono i soliti calcoli biliari».

    «Mmmh, capisco. Da come parli vedo che sei turbato. C’è qualcosa che non va?».

    «Qualcosa? Va tutto storto. Tutto. Ma tanto, cosa mi lamento a fare…» disse stringendo i pugni

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