Il dna dell'anima
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Diego Breviario vive a Milano, dove lavora presso l’Istituto di Biologia e Biotecnologia Agraria del Consiglio Nazionale delle Ricerche. È da molti anni uno studioso di biologia cellulare e genetica molecolare. Nel corso della sua carriera, spesa in Italia e all’estero, ha pubblicato un centinaio di articoli scientifici, prodotto brevetti per invenzioni industriali, ricevuto premi e riconoscimenti da Ciba-Geigy, Rotary Club, NIH-National Institutes of Health e Frascati Scienza. Ha pubblicato il racconto E alla fine diventammo tutti verdi... ma non di rabbia per la collana Auriga di Narrativa Aracne.
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Anteprima del libro
Il dna dell'anima - Diego Breviario
sacrario»
Protagonisti
Il ministro On. Primo Volpone
Il presidente della Accademia delle scienze prof. Filippo Bianchi Abelardi
Il premio Nobel decaduto e poi riabilitato prof. Ronald Duck
Assistente italo-americano per le faccende filosofiche dr. Don Dònadio
Il direttore Accademia dott. Guido Compenso
Il coordinatore designato dott. Servio Ruffoli
Il segretario designato: dott.ssa Juno Coquette
Esperta di genomica: dott.ssa Vera Scafati
Esperto di genome editing, arma di fine di mondo: doctor Adolfo Stranamore
Premio Nobel nostrano: dott. Ego Acconcio
Ricercatore itinerante: dott. Elio Aliporti
La rete dei sodali: Primo Cortilago, Secondo Defendis, Terzo Servalli, Massimo Fruttifero
con la partecipazione estemporanea dei Pier Carios e di mamma Assunta Maj
e quella straordinaria di Rasputin e Johann Faust
Inizio
Al Palazzaccio, edificio enorme di stampo littorio. Esterni essenziali con balconata tribunizia a colonne che dalla facciata principale si proietta su un’ampia piazza. Interni ugualmente imponenti e spogli con ampie scalinate di marmo che collegano diversi piani, tutti caratterizzati da larghi e lunghi corridoi interni, sempre deserti, ai due lati dei quali si allineano uno dietro l’altro numerosi e scuri portoni di legno impiallacciato, tutti uguali si tratti di uffici, sale riunioni o gabinetti. Aleggia un clima surreale, oppressivo, di stampo kafkiano infranto solo all’ultimo piano, dove il locale mensa, arredato in un contrastante stile moderno, ospita un brulicar continuo di gente e pance, screziato, qua e là, da sparuti individui macilenti, gli scienziati pensatori. Uomini opulenti si accompagnano spesso a donne vistose della varietà tonda gentile, come le nocciole. Per quanto voluminosi, anche per irrefrenabili attacchi di boria, quei corpi rimangono piccoli e schiacciati dalla vastità dell’ambiente. Come nel Tribunale di Kafka, portoni lasciati sbadatamente socchiusi rivelavano immagini e rumori di gente impegnata in continue riunioni. Quella di cui diam conto si teneva nell’aula Lebon.
L’annuncio e l’avvio
«Signori – esordì Filippo Bianchi Abelardi, presidente dell’Accademia delle scienze e uomo di fiducia di Primo Volpone, titolare del dicastero dell’Istruzione, della programmazione umana e della Ricerca – Vi ho convocato qui oggi per rendervi noto, in via preliminare e rigorosamente confidenziale, il piano ambizioso del nostro ministro: varare un progetto di ricerca i cui esiti sperimentali ci renderanno famosi, e per sempre. Proietteranno il nostro Paese, e con esso il nostro ministro, noi tutti, in una dimensione planetaria, impareggiabile, senza alcuna analogia storica, senza alcun precedente nel passato né alcun possibile scavalcamento futuro».
Fu tale l’enfasi di quella uscita e la convinzione espressa da un corpo abitualmente molliccio e inanime che il brusio tipico di quelle riunioni tra iniziati, tutti abilmente selezionati con accorti meccanismi di favore reciproco, cessò. Erano stati convocati senza alcun ordine del giorno, circostanza inconsueta che li aveva insospettiti ed era questo il motivo per cui si attardavano ancor più del solito in un rumoroso, dilatorio e inconsistente chiacchiericcio. Chi si dichiarava indignato, chi curioso, chi giurava che quella sarebbe stata la prima e l’ultima volta, chi semplicemente predicava la calma, fiducioso nella ponderatezza, o meglio nell’astuzia e nel fiuto del capo. Erano di norma abituati a riunirsi per ufficializzare decisioni che, quasi sempre calate dall’alto, lasciavano comunque buoni margini di accomodamento, concordati in lunghissime telefonate preparatorie. La torta veniva sempre divisa prima, in fette più o meno grandi, funzione dell’importanza dei singoli individui nella rete di patronage medioevale che avevano costruito, un sodalizio impermeabile a qualunque interferenza esterna che potesse dipendere dal caso o da tentativi di contaminazione o sfondamento. Qui oggi non si sapeva nemmeno di che torta si parlasse e quale fosse la sua grandezza, che i più smaliziati cominciarono però ad immaginare rilevante dato il roboante esordio del Bianchi Abelardi che così continuò:
«Voi sapete che si è da poco conclusa, e con successo, per la verità principalmente ascrivibile ad altri, la stagione di raccolta e registrazione dei Big Data universali, più precisamente quelli riguardanti le intere sequenze nucleotidiche che specificano i DNA genomici dell’uomo, delle piante, dei microrganismi e degli animali e noi che figuriamo come uomini di scienza, oltre che di panza, non neghiamolo, non possiamo perdere questa ghiotta occasione. Il nostro ministro, che ringrazio per aver voluto raccogliere il mio umile suggerimento, ha pensato bene di anticipare tutti e mentre gli altri si affannano a identificare le svariate e complicate associazioni genomiche che nell’uomo determinano i caratteri fisici, le fasi dello sviluppo, le risposte ai farmaci e le predisposizioni a malattie, noi punteremo a recuperare i determinanti genetici dell’anima. In altre parole, individueremo quei tratti del DNA che codificano per lo spirito, scopriremo dove si celano le informazioni nostre più intime. Siamo o non siamo noi i più idonei a farlo? Riconosciuti titolari del sapere umanistico, depositari di una cultura millenaria che fin dalle origini ha trovato modo di esprimersi in plurime e sublimi forme artistiche, fedeli ospiti della Chiesa Cattolica Romana, chi meglio di noi può individuare le impronte fisiche della spiritualità? In questo modo diventeremo immortali, sia per fama che per condizione».
Tacque e si compiacque, primo per quanto aveva detto, gli sembrava esemplare, e poi per l’effetto che aveva ottenuto: un lungo silenzio, carico di trasognata sorpresa, che premiò il suo illimitato ego. Seguì un secondo brusio ma molto diverso dal primo: voci concitate che si accavallavano nel commentare e formulare domande. Individui generalmente compassati, calcolatori, sempre informati a priori e adusi a non esternare alcuna compromettente emozione, sempre che ne fossero ancora capaci, si comportavano come inquiete comari.
Esaurito il suo orgasmo, scosso da quella reazione che stava diventando indecorosa, Bianchi Abelardi li richiamò bruscamente all’ordine.
«Capisco la sorpresa e l’eccitazione, ma qui bisogna che riprendiate la vostra compostezza, che sono diversi gli aspetti da considerare, non tutti chiari nemmeno a me e al Primo Volpone, il nostro ministro».
Filippo Bianchi Abelardi era un uomo cattivo e come tale non era uno stupido. Al contrario, utilizzava la sua diabolica arguzia per orchestrare piani e strategie che procurandogli vantaggi economici e di potere ottenevano pure di indebolire ed isolare i suoi nemici. Tra questi, su tutti detestava gli idealisti, capaci di piantar grane per i valori astratti, e quindi inutili e immateriali, della morale, delle idee, del pensiero e delle regole. Proprio questo progetto dell’anima, la cui paternità, benché sua, aveva abilmente attribuito al ministro che se ne era convinto e ne andava fiero, rappresentava di fatto il duello finale di questa sua lotta. Dimostrare che l’anima poggia su determinanti fisici, una qualche sequenza animosa di DNA, avrebbe finalmente fatto giustizia di tutti quei perdenti, falliti, illusi, quei rompiscatole che difendevano principi estranei alla concretezza dei soldi, della carne, delle esigenze materiali del corpo. Certo non gli sfuggiva