E-Cat Il Nuovo Fuoco
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Anteprima del libro
E-Cat Il Nuovo Fuoco - Vessela Nikolova
Conclusioni
Prefazione
All’alba del Terzo Millennio, la scoperta di una forma di energia ideale – ovvero a bassissimo costo, del tutto illimitata e assolutamente non inquinante – rappresenta, ancora oggi, un grande sogno inseguito dalla nostra società industrializzata e sempre più energivora.
Grazie allo sfruttamento e alla trasformazione energetica delle risorse che la natura ci ha messo a disposizione, abbiamo assistito – dalla fine del ‘700 fino ai giorni nostri – al cambiamento culturale del modello sociale, passando progressivamente da quello agricolo-commerciale a quello industrial-capitalistico che caratterizza la maggior parte delle economie avanzate.
Per fare ciò, abbiamo pesantemente attinto al capitale della Terra senza porci il problema di quanto tale sviluppo sarebbe stato sostenibile nel lungo periodo, e quale sarebbe stato il prezzo da pagare per l’ecosistema in cui viviamo e, alla fine dei conti, per l’Uomo stesso.
Il basso costo delle materie prime, a cominciare da quello del petrolio – un barile può sviluppare un’energia corrispondente a ben 25.000 ore di lavoro fisico umano – ha permesso tutto ciò; la loro progressiva diminuzione nella disponibilità, costituisce una delle cause più insidiose di potenziali conflitti futuri che potrebbero coinvolgere, in mancanza di soluzioni adeguate e tempestive, anche gli Stati più ricchi e industrializzati.
La scoperta della possibilità di sfruttare con la fissione l’energia racchiusa nel nucleo della materia, dovuta al fisico italiano Enrico Fermi, ci ha illuso in passato; ma purtroppo, dopo Chernobyl e Fukushima sono sotto gli occhi di tutti i danni che una simile tecnologia comporta quando, per cause accidentali, non si riesce più a controllare. Chi la domina, d’altra parte, può tenere in scacco il mondo e per tale potere
alcune Nazioni sono oggi disposte praticamente a tutto.
Così, quando seppi del fatto che a Bologna, nel gennaio 2011, si sarebbe svolta, alla presenza d’illustri fisici e scienziati una dimostrazione di un dispositivo capace di generare energia pulita
e a basso costo chiamato E-Cat
(o Energy Catalyzer), cominciai a seguire la vicenda con crescente interesse, venendone da allora via via sempre più coinvolta.
Fu poi, durante una conferenza tenuta a Zurigo nel 2012, che conobbi per la prima volta il suo straordinario inventore, Andrea Rossi, e in quell’occasione, affascinata dall’alone di mistero che circondava tale personaggio decisi che avrei scritto un libro su di lui.
Mi feci coraggio e durante un successivo incontro a Pordenone gli parlai del mio progetto. Lo approvò d'istinto, incoraggiandomi e rispondendo alle mie molte domande.
In questo libro, racconto quindi le vicende di un Uomo la cui mente è stata continuamente martellata da un pensiero ossessivo: trovare un modo nuovo e rivoluzionario per risolvere il problema energetico che condiziona e mina lo sviluppo futuro del nostro mondo.
Per portare avanti il suo sogno, una volta fatta la scoperta decisiva, Rossi non ha esitato a sfidare con grande coraggio quei poteri forti
– sia economici sia scientifico-culturali – i quali sempre, in questi casi, si oppongono tenacemente e con ogni mezzo al cambiamento, costringendo i deboli
alla resa e all’emarginazione.
Ma – si sa – chi è dominato dal pensiero creativo difficilmente rinuncia ai propri sogni e, come l’Araba Fenice, anche il nostro protagonista, quasi risorgendo dalle ceneri, dopo una bruciante sconfitta nella prima battaglia della sua personale guerra
, si è messo nuovamente in gioco con una nuova invenzione che potrebbe veramente cambiare le sorti del pianeta.
Questa biografia è nata con l’intento di fare luce sulla sua avventurosa vita, per scriverla mi sono avvalsa di tutte le fonti d’informazioni pubbliche e private che mi è stato possibile reperire. Le notizie sulle vicende più personali e intime riguardanti tale personaggio mi sono state fornite da lui stesso, attraverso interazioni in forma sia orale che scritta, protrattesi per circa quattro anni.
Nel momento dei ringraziamenti, vorrei esprimere innanzitutto la mia gratitudine a Nicola, Claudio, Marian, Niko, Mario e Giorgio per avermi sostenuto e incoraggiato nella realizzazione di questo libro. Inoltre, ho un debito di riconoscenza nei confronti di Sinclair de Courcy Williams, che ha tradotto in inglese l’opera originale, da me scritta in lingua italiana.
Vorrei anche dire grazie
a tutte le persone che, in fasi diverse, hanno letto il manoscritto effettuandone un editing a livello professionale, e in particolare sono grata a Brian Josephson, Premio Nobel per la Fisica, Professore Emerito all’Università di Cambridge e direttore del Mind-Matter Unification Project presso il Cavendish Laboratory di Cambridge, che con entusiasmo e generosità ha dedicato del tempo alla lettura già della prima bozza dell’opera, fornendomi dei preziosi suggerimenti.
E, a questo punto, non mi resta che augurarvi una buona lettura!
Vessela Nikolova
Preambolo
Tanto si poteva dire di lui
non certo che fosse conformista.
Percepii subito che le sue esperienze interiori
e le sue intuizioni
lo avevano isolato dal suo ambiente.
Apparteneva alla categoria di quegli uomini
che vanno trattati con cura
e con massima cautela.
Per lui la sfida maggiore
era rendere la propria individualità
unica e differente
e contemporaneamente opporsi all'ubbidienza
e alla massificazione intesa
come impedimento della libertà altrui.
Aveva coraggio da vendere,
chi non lo conosceva avrebbe detto
incosciente
.
Era dotato di una mente geniale, ma nonostante ciò
gli ci volle del tempo a comprendere
che per raggiungere uno scopo nella vita
è necessario parlare con la gente
solo di ciò che questa già conosce.
Di certo non temeva di ardere nel proprio fuoco
ma era consapevole che un’idea nuova può essere
accettata solo grazie ai fatti.
Perché quelli restano e, anche se nascosti,
prima o poi qualcuno
li troverà e ne capirà il valore.
Qual era il prezzo da pagare per chi come lui
doveva
inseguire la propria voce?
La solitudine!
Chi è consapevole della propria unicità diventa solitario.
Lui lo era ed è per questo che conosceva così bene
il valore dell’amicizia.
E poi la libertà.
Ma si sa, l'uomo posseduto da uno spirito
creativo non potrà essere mai libero.
È tormentato, prigioniero
del proprio demone
.
Introduzione
Avere un bel giardino
è difficile come governare un regno.
Ci si deve risolvere
ad amarne anche le imperfezioni,
altrimenti ci si illude.
(Feuerbach)
Ci sarebbero voluti anni, secoli, affinché la materia alfine si forgiasse.
Il nostro Uomo lo sapeva bene.
I demoni notturni che egli aveva già corrisposti per trarre qualcosa da quel matraccio che bollicava, erano per lui un valore. Testimonianza del suo non recedere, della caparbietà con la quale si era battuto da sempre, non il prodigioso.
Quello, tardava.
E anche se nella sua mente il sublime lo percepiva presente fin dalla nascita, per quanto ne avesse in sé discernimento, era la scintilla a legare gli elementi che mancava.
Ne avrebbe avuta ragione si disse. Perché quella era stata una costante della sua intera vita.
Se non quella volta, un’altra.
Altrimenti la successiva, o quella dopo ancora.
Che scissi tra loro e ricomposti, quei metalli celavano ogni soluzione.
Colmare lo spazio che intercorre tra la divinità e l’uomo non stava certo nelle sue intenzioni, neppure più segrete, a quello si era da tempo professa la filosofia, laddove la fede non aveva attecchito, ma, nel dare ai secondi una speranza, il miracoloso poteva sempre giungere a compimento.
Tramite lui, forse.
Perché no?
Non esiste un rimedio più efficace della propria volontà, si sollecitava ogniqualvolta, stremato, si apprestava a un ulteriore tentativo.
Fuori dal suo laboratorio, sedati gli antichi furori delle macchine che egli aveva messo a misura e per lui lavoravano, se anche ne fosse uscito vittorioso, lo scetticismo di molti e gli interessi di tanti avrebbero tracciato solchi profondi, lasciandolo irrimediabilmente solo come quando, ancora bambino, coltivava quel sogno che, pur appartenente – nell’intimo – a tutti, riconosceva suo soltanto.
Ne era consapevole di questo, ma non gli importava.
Perché da allora lo inseguiva e la visione imperterrita fuggiva.
E in questo rincorrere aveva cavato per sé vitale nutrimento.
In più occasioni, aveva creduto di averla fatta prematuramente sua. Ma era in quell’alimentare la corsa, lo sfiatare convulso, il battito cardiaco accelerato, la spasmodica contrazione muscolare di chi, presupposto il traguardo, vi si getta senza più riguardo, a trarlo in inganno.
Occorreva un ingrediente che in natura c’era e lui sapeva ormai quale fosse. E ulteriori tentativi infruttuosi e aggiustamenti per coniugarlo.
L’uomo, oppresso dai fumi, che densi oberavano la fucina, distolto il sudore dalla fronte, si fermò a riflettere. Poi, finalmente acquietatosi, lasciò che tutto ritornasse a Dio e alla sua antica mistura.
Ma adesso, come un ubriaco, balbettando, curvo sopra i suoi strumenti, contemplando il piombo e posato di tanto in tanto lo sguardo sull’alambicco ancora fumante, serrava tra le mani, sorridendo, l’oro che già si trovava in suo possesso.
L’Inventore, che ebbe i natali nel 1950 a Milano, in un’Italia post-bellica resa economicamente ebbra dalla ricostruzione, non era certo più un ragazzo, oggi.
Ma se, del crescere, ognuno cova a modo suo rammarico, dovuto a ciò che è andato perso nella misura crescente dei propri abiti, lui, rivolto in avanti, guardava ancora al futuro – in quella che era stata una costante cui aveva sacrificato tutta la propria esistenza – immaginando un mondo liberato dal sempre più importante problema dell’approvvigionamento di energia.
E ogni scoperta nel campo, sua o di altri, che non reputava mai un punto di arrivo, rappresentava ai suoi occhi, oggi come allora, un traguardo intermedio di un percorso che mai avrebbe avuto fine.
Niente di cui menar vanto, per quanto lo riguardava, perché se anche la notorietà ne avrebbe appagato l’ego, la perdita di tempo, che la stessa comportava, non sarebbe valsa al progredire dell’idea.
Cui si era interamente votato.
L’attività del padre Luigi, proprietario de La Metallotecnica¹ – industria di Caponago (MI) specializzata nella costruzione di profilati metallici destinati alla carpenteria meccanica media – era stata per lui, fin dall’infanzia, una palestra in cui affinare un talento, che avvertiva precoce e al quale non aveva modo di sottrarsi.
Così, oggi, allo stridere degli strumenti da lavoro che l’avevano cresciuto, egli faceva riferimento ed era ricondotto attivamente e nell’inconscio, quando, balzato alle cronache, i media lo avevano – nel corso degli ultimi trentacinque anni – a periodi alterni raffigurato come un Cornelio Agrippa², un Frankenstein³, un Houdìni⁴, se non addirittura come un individuo dedito al malaffare.
Che è pur sempre la mitizzazione generalizzata, non l’uomo, a suscitare interesse.
Giacché al secondo, troppo soggetto ai vizi che ognuno già trova in sé in abbondanza, raramente è riconosciuta la capacità di compiere un’impresa.
In larga scala, ovviamente. Che, fosse anche millantatrice, altrimenti, limitata ad ambiti ristretti, scevra dell’eclatante, non apparirebbe tale.
Perciò, se alla curiosità si era talvolta professo volontariamente, proclamando lui per primo il sensazionale, lo aveva fatto spinto dalla necessità, condivisa da ogni ricercatore, di reperire i capitali necessari a sviluppare un progetto coerente con le aspettative. E, forse, per disciplinarsi, per trarre dall’esporsi quella determinazione estrema che, una volta chiuso nel suo studio, nel dover porsi all’altezza di un atto di presunzione, lo avrebbe spronato ad affrettarsi.
Non erano forse state una costante in lui, l’educarsi, lo strutturarsi, l’apprendere dalle più divergenti fonti di sapere per preparare l’impresa?
Il costringersi a quella?
L’imporsela con veemenza?
Non si spiegherebbero altrimenti i suoi ripetuti successi in atletica, culminati nel record nazionale assoluto e juniores nella ventiquattrore di corsa da lui stabilito allo stadio Calvesi di Brescia agli inizi degli anni Settanta⁵ coprendo la distanza di 176.144 metri.
Un esercizio, questo, che richiedeva non solo resistenza fisica, ma una consapevolezza e conoscenza di sé e dei propri mezzi tale da permettere all’atleta di coniugare qualità psico-fisiche e di operare un costante auto-inganno sul proprio cervello, così da abbreviare e annullare tempo e distanze percorse. E allenamento, tanto e tale da fiaccare le bramosie e le volontà più risolute, in cui egli, solitario, poteva trovare motivazioni solo nella sua natura, che ai più appariva controversa.
Perché, altrettanto, l’anonimo signor Rossi, questa la sua identità – non il Paolo del Mundial ‘82 né il Vasco della canzone, bensì Andrea – negli studi era stato assorbito da quelli che più connotavano un’ambiguità di pensiero (aveva conseguito due lauree: una in filosofia e una honoris causa in ingegneria chimica⁶) che, in epoche passate, forse gli sarebbe valsa l’accusa di stregoneria.
L’essere sottoposto alla tortura.
Al rogo.
L’equivalente pena che, come vedremo in seguito, la modernità di cui era precursore, avrebbe in termini meno cruenti, ma altrettanto dolorosi, preparato per lui.
Così il 14 gennaio 2011, quando l’Università di Bologna assieme al professor Sergio Focardi⁷ aveva sottoposto la sua ultima invenzione – l’E-Cat⁸ – al giudizio di alcuni luminari che, testandola, avrebbero garantito credibilità alla stessa – legittimandolo così nell’operato – non si attendeva certo di placare gli scetticismi o di acquisire nuove certezze che già aveva fatto proprie.
Giacché i primi sapeva bene sarebbero riemersi a dispetto di ogni ragione, per quanto le seconde stessero a prescindere ben salde in lui. E di questo trovai evidenza in tutta la sua persona quando, casualmente, ebbi modo di conoscerlo personalmente.
Forse, in virtù della mia professione di psicologa, c’è un’inclinazione in me, che mio malgrado, anche quando vorrei confinarla ai soli ambiti professionali, aderisce alla pelle e, come carta moschicida, spesso porta a trattenere in sé e a elaborare ogni gesto, ogni espressione, ogni intercalare di chi mi trovo di fronte, riconoscendo in quelli non casuali contrappunti, ma particolarità, chiavi di lettura che, più delle parole espresse, conferiscono consistenza a un interloquire; il quale, altrimenti edulcorato dalle convenienze e dal non espresso cui ognuno soggiace tenendosi stretta la maschera che lo fa presentabile agli occhi del mondo, non avrebbe ragione d’essere.
Chi si nasconde dietro Andrea Rossi?
Confeziona egli pentole del demonio o acquasantiere?
Entrambe, forse?
In che misura?
Questo mi chiedevo quando decisi di scrivere di lui.
Così cominciai a documentarmi cercando innanzitutto di trovare un nesso che legasse i suoi studi e i numerosi brevetti da lui depositati a un intendimento di base, capace di fornirmi un decodificatore, un punto di contatto più attinente alla mia qualifica, su cui far leva per avere maggiore comprensione del soggetto.
Perché ogni prodotto dell’ingegno, come accade per ogni azione o scelta di cui ci rendiamo responsabili nel corso della nostra intera esistenza, richiama forze ataviche cui spesso inconsciamente siamo ricondotti. Su di esse, responsabili della nostra mappa delle percezioni, ovvero del modo in cui conformiamo la realtà e la osserviamo, influiscono in prima istanza razza, geni ereditari e sesso.
Poi, fattori successivi – l’educazione, l’istruzione, i rapporti con i genitori, con gli altri (intesi come esseri di qualunque natura al di fuori di noi), gli accadimenti incidentali – plasmano i caratteri, sono la semina su un terreno incolto che qualcuno ha inteso, un giorno, coltivare.
E non saranno le intemperie cui sarà esposto l’appezzamento a determinare il raccolto, ma come quello saprà reagire a grandine, vento e siccità.
Perché quel lotto di terra, frutto di una storia millenaria, esisterà comunque e che fornisca gramigna o derrate di pregevole fattura, dipende dal fortuito nella misura in cui al caso si è propensi.
Ed io non credo nelle coincidenze, ma in un processo consequenziale soggetto alla legge delle combinazioni, in cui tutti – ognuno a suo modo – siamo coinvolti già prima della venuta al mondo.
Al quale, sovente, siamo ricondotti.
Perciò, non mi ero certo fatta deviare dalle sue evidenti peculiarità, dietro cui celava una natura sensibile quasi a preservarla in pubblico da ingerenze esterne; timidi accenni di un animo gentile, fatti di galanterie di altri tempi, né altrettanto da quel suo porsi compassato in cui risultava evidente un dispotico auto-controllo, che di tanto in tanto trovava via di fuga e sfogo in lui, nell’inarcare le sopracciglia e arricciare il naso.
Né tantomeno da quei piccoli e vivaci occhi che attenti vegliavano assaporando con discernimento ciò che, provvisoriamente coinvolto nel suo campo visivo, veniva costantemente delineandosi e defluendo attorno a lui.
Aprendosi egli al mondo e rinserrandosi nella sua visione.
Per tornare a rincuorarsi di quella.
Ogniqualvolta gliene era concessa occasione.
Quanto tenuto al riparo da