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Dammi ancora un minuto
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E-book204 pagine2 ore

Dammi ancora un minuto

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Info su questo ebook

C’è tutto un mondo che ruota attorno all’Alzheimer, come quello che in queste pagine ci viene raccontato a proposito di Viola, un tempo attenta e dinamica finché, a un certo punto della sua vita, incontrerà questa malattia. Una storia comune purtroppo a milioni di persone che troveranno nello sviluppo del racconto e nei suoi intrecci narrativi un motivo in più di speranza. Se è vero infatti che il declino non si può fermare, esso però non impedisce a queste persone di continuare ad essere vive, provando emozioni e trasmettendole. Quando la comunicazione verbale cessa, si parla con il linguaggio delle emozioni, il dito che si muove, il bacio, la carezza, anche se, quando la memoria vola, l’amore non basta mai. Il romanzo è un continuo flashback: mentre i ricordi della protagonista si dissolvono, la memoria della figlia va al tempo in cui la madre era piena di vitalità. La storia di Viola e quelle con essa intrecciate ci restituiscono persone “vive” che non si arrendono mai. Anche quando la memoria “vola”.

Tina Bova è nata nel 1956 e vive a Urbino (PU). Laureata in Sociologia, si è sempre interessata al mondo degli anziani, di cui ha studiato dinamiche e comportamenti, e ai temi del disagio sociale. È attiva nel campo della formazione superiore.

Rosa Lucia Natoli è nata nel 1948 e vive a Settimo Milanese (MI). È stata per quarant’anni insegnante di Lettere. Ama viaggiare, privilegiando i Paesi del Terzo Mondo. Ha svolto attività di volontariato prima in Italia, in diverse associazioni internazionali, e poi in America Latina. Da sempre scrive versi e racconti di vita familiare.
LinguaItaliano
Data di uscita29 ago 2018
ISBN9788856792843
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    Anteprima del libro

    Dammi ancora un minuto - Tina Bova

    bambini…

    Bellezza di un tempo

    Bellezza di un tempo, a poco a poco te ne vai dai dolci capelli che diventano bianchi, dal viso che è stretto dalla morsa delle rughe, dai seni cascanti che un dì odorosi del bianco liquido andavano fieri. Trascorri il giorno fra il vanto della casa e la cura quotidiana degli sguardi immortalati nelle foto. Le silenziose stanze echeggiano del continuo parlar con chi da tempo non produce suoni. Dimmi, madre, dov’è il grande vigore con cui squassavi ogni avversa sorte che si abbatteva sulla tua progenie? Le mani doloranti e rattrappite dall’annoso male accolgono con fierezza i mille doni di parole che i figli ti fanno. L’ampia prole di nipoti e pronipoti il testimone della tua bellezza ha preso, nuove e grandi gioie di allori ognor ti reca. Nel prezioso scrigno ricolmo di antichi ricordi e umili espressioni con fierezza riponi il frutto del loro sapere.

    Barbara, rimettendo a posto vecchi documenti, aveva ritrovato un foglietto nel quale erano state annotate, qualche anno prima, delle riflessioni sullo stato di salute della madre. Aveva sentito il bisogno di fermarle sulla carta nel momento in cui si era resa conto che Viola andava perdendo giorno dopo giorno il suo vigore. Ora, più che mai, trovava quelle parole premonitrici di quanto stava avvenendo nel corpo e nella mente della madre senza riuscire a darsi pace. Quel che le pesava maggiormente era la consapevolezza di non poter fare nulla per arrestare quel processo.

    «Ricordi quanto ci terrorizzavano, da piccole, alcuni film di fantascienza che raffiguravano un futuro della Terra abitata da soli anziani con i volti devastati da mille rughe?».

    Più che una domanda, quella di Emma era stata una riflessione ad alta voce mentre osservava il volto di Viola, sua madre, somigliante a un deserto pieno di dune.

    «Certo» le aveva risposto Barbara mentre passavano nella mente le immagini vecchie di sessant’anni. «Il mio incubo ricorrente era costituito da vecchi paurosi che uscivano dalle tombe scoperchiate da un malefico abitatore dell’universo e distruggevano tutta l’umanità...».

    «Io, quando incontravo per strada qualche vecchio tutto ingobbito che si trascinava stancamente, fuggivo subito a nascondermi o a rifugiarmi tra le falde di nostra madre...».

    Intanto che sua sorella continuava a dissertare, la memoria di Barbara era volata a un fumetto che negli anni della sua adolescenza era molto in voga. Era intitolato Satanik e raccontava di una dottoressa che un farmaco rendeva giovane e bella. Finito l’effetto, lei ritornava decrepita e brutta come la morte terrificando tutti coloro in cui s’imbatteva. La ragazza era sempre molto curiosa di conoscere le storie che di volta in volta venivano raccontate nel fumetto, ma era inorridita dall’aspetto di quel volto e di quel corpo che apparivano quando la pozione magica cessava il suo effetto.

    Per lei, come per i suoi fratelli, la vecchiaia era associata a quanto di più brutto potesse capitare. La mamma era giovane e bella; il padre pieno di vigoria e di salute; i nonni ancora carichi di energia e impegnati in mille attività dalla mattina alla sera, tanto che avevano, durante la giornata, ben poco tempo da dedicare alle cure dei piccoli. Solo durante le feste, che nell’affollata parentela erano tantissime, si dedicavano per qualche ora all’ozio mangiando, conversando allegramente, brindando ai presenti e agli assenti. Per i figli e i nipoti, invece, il divertimento era legato al cortile, al giardino dei vicini, ai giochi tra la sabbia e il fango. Quando tornavano a casa tutti sporchi, con le ginocchia sbucciate e sanguinanti per le continue cadute, la mamma li metteva in una tinozza di stagno e, mentre essi giocavano distraendosi con le bollicine di sapone, la pesante mano materna strofinava a più non posso. Intanto il sapone dai capelli scivolava sugli occhi facendo piangere a dirotto per il bruciore forte i bambini fino a quando la mamma non faceva scendere con un secchiello l’acqua limpida dalla testa ai piedi.

    Finito il tormento del bagno serale, la fantasia rincorreva la magia dell’infanzia inventando elisir di lunga vita.

    Era passato più di mezzo secolo da quei magnifici momenti e di acqua ne era passata sotto i ponti! Ora erano le mani di Barbara ad accompagnare la spazzola per rimuovere dalla pelle appassita della madre le cellule stanche di vita che si erano accumulate. Il braccio appesantito dal tempo e dai malanni non aveva la forza di sollevarsi e curare le membra.

    «Basta, finiscila di tormentarmi!» esplodeva ogni volta Viola, durante le abluzioni settimanali, quando la figlia si dilungava a insaponarle testa e corpo. «Non sopporto più questo strazio, faccio da sola, vai via!».

    «Eccola qui, mia madre, piangere come me bambina, se la schiuma le fa bruciare gli occhi. Non ci sono a distrarla le bollicine di sapone nella vasca» rifletteva la figlia. «Ora sono io che la sera conto le gocce, elisir di lunga vita, che i medici le prescrivono nella speranza di migliorarne l’esistenza».

    Viola era esile nella figura e di buon gusto nel vestire. Aveva i capelli corti e bianchi che si era fatta tingere fino alla soglia degli ottant’anni, nonostante i figli maschi e i nipoti non apprezzassero. «La nonna deve avere i capelli bianchi!» affermavano. Tuttavia lei, con forza, asseriva: «Ho portato per una vita i capelli lunghi, intrecciati a crocchia dietro la testa, come mia madre e mia nonna. In qualche modo tengo lontana la vecchiaia; mi piace guardarmi allo specchio, non faccio male a nessuno!». Si era trasferita a Milano vent’anni prima, appena aveva smesso di lavorare. Aveva deciso di raggiungere i figli che si trovavano da molto tempo in Lombardia, chi per motivi di studio chi per lavoro. Era una donna di umili origini, ma fin da giovane si era sempre distinta per la finezza dei modi e per la maniera di parlare dolce e accattivante. Nata sotto il segno del Toro, mai segno fu più azzeccato! Era piena di energia e le piaceva condurre la discussione esponendo con chiarezza le proprie idee, sebbene la scarsa istruzione l’aiutasse poco.

    «Casa mia è un porto di mare, si può arrivare a qualsiasi ora, ci saranno sempre un piatto caldo, il cuore e le braccia aperte!». Infatti l’accoglienza era molto generosa e chiunque ne restava incantato. Sul lavoro aveva con i colleghi la battuta pronta e nelle situazioni complicate cercava sempre di sdrammatizzare.

    Aveva messo al mondo sette figli, «uno più bello dell’altro», com’era solita dire e ne aveva allattati molti altri che considerava come propri.

    Arrivata a Milano, era subito riuscita a circondarsi di tanti amici, sia attraverso la parrocchia, che lei frequentava assiduamente, sia presso il circolo degli anziani.

    Fino a qualche anno prima Barbara aveva prestato scarso interesse verso i numerosi studi riguardanti il mondo della terza età. «È ancora presto» diceva a se stessa e ai suoi fratelli. «La mamma è completamente autonoma, cammina da sola, cucina, gestisce la casa, il bucato. Inoltre, ha voglia di vivere, di andare con le amiche al circolo per anziani, giocare a carte, incontrare gente ai giardinetti».

    Le affermazioni della figlia trovavano riscontro nella vivacità di Viola i cui interessi andavano in ogni direzione, compresi gli incontri e i festeggiamenti di figli, nipoti, parenti e amici vari.

    Durante la bella stagione i giardinetti erano per eccellenza il luogo privilegiato di socializzazione, di discussione e di chiacchiere. Verso le tre del pomeriggio Viola apriva il grande armadio nel quale erano riposti vestiti dai colori più variopinti, per tutte le stagioni, indossava quello che le piaceva di più e con la borsetta sotto braccio, senza che nessuno la chiamasse o la accompagnasse, se ne andava ai giardinetti poco distanti da casa dove, puntualmente, trovava le sue amiche, Filomena, Celestina, Marina, tutta gente della sua età con l’unico problema di trascorrere il pomeriggio tra risate e notizie su questo o quel conoscente. Appena arrivava all’abituale luogo d’incontro, aveva sempre delle belle parole per rincuorarle dai malanni o dai mille problemi familiari. «Ciao, Filomena!» Iniziava a sfoggiare il suo sorriso luminoso. «Come vanno i tuoi dolori?... Cara Celestina, hai già preparato da mangiare per tuo figlio? Se avessi trent’anni di meno, gli farei la corte; è proprio un bel ragazzo!...». Aveva un dono speciale, una buona parola per tutti e faceva scoppiare l’ilarità anche al musone più incallito.

    Sarà stata l’abilità comunicativa, piuttosto che la capacità aggregativa di quello spazio nel cuore del paese, a far sviluppare, tra le persone che lì s’incontravano – anziani, giovani, bambini – una solidarietà tale che l’anziana donna arrivava a casa verso sera tutta felice per il bellissimo pomeriggio trascorso e desiderosa di ritornarci il giorno successivo. Sempre che non ricevesse visite! In tal caso l’idea di trascorrere varie ore, seduta in salotto, a chiacchierare con parenti o amici, non la disturbava per nulla. Anzi, l’occasione era fonte di gioia nuova. Mostrare la casa tutta pulita e in ordine, offrire caffè, the e dolcetti la faceva rinvigorire.

    Il burraco era uno di quei giochi a carte che facevano passare tutti i dolori a Viola. Barbara la faceva giocare spesso; almeno un paio di partite al giorno, anche se erano soltanto loro due. Gli altri fratelli erano al lavoro o abitavano lontano. Se un attimo prima l’anziana genitrice si lamentava di capogiri, febbre, mal di schiena e disturbi vari, reali o immaginari, un attimo dopo con circa undici, quindici carte in mano, era completamente trasformata in una lucida biscazziera, di quelli che trascorrono gran parte del loro tempo a un tavolo da gioco.

    Il gioco a carte in casa di Viola era sempre stato un compagno onnipresente. Non era mai trascorso un giorno senza che si disputasse una partita dopo pranzo o dopo cena: carte napoletane, da ramino o da poker hanno sempre fatto bella vista sulla tavola in cucina come le mele, le pere e le arance.

    Le feste avevano sempre trovato tutti d’accordo, o in disaccordo, davanti a un mazzo di carte.

    Luigi, il capofamiglia, che era sempre stato di manica larga con i figli, durante il gioco si trasformava in un acerrimo avversario e per sole cento lire, sia che perdesse o vincesse, faceva un pandemonio.

    Lo stesso accadeva a Viola che durante il gioco cessava di essere una madre e, tutte le volte in cui perdeva, guardava i figli con degli occhi di fuoco che sembravano volessero fulminarli. «Come, io ti ho partorito e tu mi tratti in questo modo?» si scagliava piena di rabbia nei confronti di questo o quel figlio. «Alleva maiali, almeno mangerai carne!».

    Quell’anno, il 2010, erano morti Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. I loro spettacoli avevano allietato la giovinezza e la maturità di Viola che guardava le loro esibizioni alla televisione fino a quando scorrevano tutti i titoli di coda.

    La notizia della scomparsa della coppia l’aveva molto turbata. «Chissà quanto si sono amati, anche se sulla scena litigavano sempre!… Se ne sono andati quasi insieme. Vostro padre, invece, mi ha lasciata da sola a portare il peso della vecchiaia!».

    Quel pomeriggio di prima estate, dopo aver seguito in tv l’omaggio a Raimondo e Sandra, era andata in camera a sonnecchiare, come solitamente faceva, compresa la domenica quando invitava a pranzo tutti i figli che ne approfittavano per raccontarsi fatti accaduti e per fare la consueta partita a carte.

    «Fortunatamente per nostra madre il gioco rappresenta la leggerezza della vita» aveva affermato Giacomo, quinto dei figli, quello che più rassomigliava al padre, occhi di un verde smeraldo e capelli biondi, almeno quei pochi che gli erano rimasti!

    «Anzi, per lei è proprio un’arte!» si era espresso scherzosamente Mario che amava prendere la vita alla leggera. Era sempre stato così, anche se aveva avuto da giovane una breve esperienza militare. «Il gioco le fa dimenticare qualsiasi impegno assunto in precedenza».

    «Meno male!» aveva esclamato Emma. Da sorella maggiore tendeva sempre a trovare le parole per rendere gli altri fratelli più sereni. «Non saranno quei due, tre euro che vince o che perde a stravolgere la sua situazione economica. Non è mai stata una giocatrice d’azzardo» aveva continuato a rammentare. «Anche durante le feste natalizie la somma puntata era modesta».

    «Non era la sola a giocarsi poche lire» era intervenuto Tommaso, il più piccolo dei fratelli.

    «Siccome eravamo la metà di mille, la nostra famiglia, i nonni materni, gli zii e i numerosi cugini, in pochi minuti il piatto diventava talmente ricco che bisognava stare molto attenti a non incrementare la posta in gioco».

    «Vi ricordate invece Ciccio, il parente di zia Norina?» aveva chiesto Barbara. «Quello sì che giocava d’azzardo! Trascorreva tutte le notti fino all’alba in una sala da gioco con imprenditori, nobili decaduti, ma danarosi, e altra gente ricca e meno ricca, quelli che nostra madre e la nonna chiamavano ‘i signori’. Un giorno se ne veniva in Mercedes e faceva regali a tutti noi bambini. Il giorno dopo arrivava appiedato a chiedere un piatto di minestra perché aveva perso tutto. Gli adulti dicevano che lui era un povero Cristo perché non sapeva ritirarsi al momento giusto; per noi bambini era, di volta in volta, Babbo Natale oppure un mago che sapeva tirar fuori dalla tasca soldi, caramelle, dolci e giocattoli».

    «Povero Ciccio!» aveva esclamato Giacomo. «È morto senza una lira, lasciando la moglie e i figli sul lastrico!».

    Non era stato il solo nella grande parentela ad avere avuto a che fare con il gioco d’azzardo. La zia di Viola raccontava che anche suo marito era stato un accanito giocatore, tanto che aveva dovuto lasciare l’Italia e andarsene in America, altrimenti i creditori gli avrebbero fatto vedere i sorci verdi prima di ucciderlo.

    «Il grande Dostoevskij docet!» era stata la considerazione di Tommaso. «I milioni di giocatori nel mondo, adesso anche on line, dimostrano quanto sia diffusa la dipendenza da gioco, ieri come oggi, e diventa particolarmente grave, fino a condurre al suicidio, quando si associa alla solitudine e alla precarietà economica. Purtroppo gli anziani non sfuggono a questo rischio» aveva aggiunto.

    «Speriamo di non vedere mai nostra madre in questa condizione!» Barbara aveva sospirato.

    ***

    «Mamma, preparati, sarò da te alle undici» le aveva anticipato per telefono Barbara. «Ricordi che dobbiamo andare a pranzo da Emma?».

    «Non dovevamo andare da Tommaso?».

    «No, da lui siamo state domenica scorsa».

    «Va bene, mi vesto, chiudo la casa e ti aspetto fuori».

    Di lì a poco la figlia era arrivata e Viola era salita in macchina.

    «I viaggi in automobile mi sono sempre piaciuti e piacevano anche ai miei genitori perché era una delle occasioni per raccontare fatti accaduti molto tempo prima o per cantare» esclamava Viola. Raggiungeva il massimo della felicità se uno dei passeggeri cantava con lei. Come in altre occasioni, tutti i suoi dolori scomparivano. Non si lamentava più del male alla schiena o al braccio; non aveva capogiri né altri disturbi. Mentre l’altro cantava, lei guardava le sue labbra e cercava di catturare le sillabe un attimo prima che il suono uscisse dalla sua bocca.

    Le canzoni erano quelle di quando lei era ragazza, Tango delle capinere, Violino tzigano, Parlami d’amore Mariù; anche i cantanti erano quelli di altri tempi, Beniamino Gigli, Luciano Taioli,

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