L’arcobaleno nel cuore
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Info su questo ebook
Nadia Cagigiorgio è nata a Zurigo in Svizzera il 25 luglio del 1974. Ha trascorso l’infanzia nella provincia di Benevento in Campania. Affidata inizialmente alle cure amorevoli dei nonni, si è poi trasferita in città, vivendo una difficile adolescenza. Si è diplomata all’Istituto Magistrale ad indirizzo Psicopedagogico a Benevento e successivamente si è iscritta alla facoltà di Scienze dell’educazione a Bari. Nel 2005 ha conseguito la laurea in Psicologia Clinica presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Attualmente risiede con la sua famiglia a Urbino dove lavora come bibliotecaria presso la sede centrale dell’I.C.S. Paolo Volponi. È madre di due ragazzi e una bambina, che sono il sorriso del suo sguardo: Francesco “libera piuma al vento”; Giulio “luce ai suoi passi”; Sara “voce del suo silenzio”. La sua passione è stata da sempre leggere e scrivere e suo desiderio è riuscire a rivolgersi a un pubblico bambino attraverso l’invenzione di favole illustrate. L’arcobaleno nel cuore è il suo primo romanzo.
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Anteprima del libro
L’arcobaleno nel cuore - Nadia Cagigiorgio
PROLOGO
Se i nostri occhi non avessero conosciuto lacrime,
non ci sarebbe l’arcobaleno dell’anima
,
lì dove i nostri sogni
incontrano la vita
e noi sorridiamo a lei
e lei a noi
vibrando insieme
in una danza di intenti,
verso la felicità!
Questa l’essenza del mio libro.
Un invito a immergersi
In ciò che definirei memoir.
Viaggio di luce e ombre
Attraverso l’oceano di emozioni,
ancorati a fluttuanti ricordi,
che a tratti emergono
inondando attimi di vita autentica.
Nadia Cagigiorgio
Urbino, 19/02/2018
CAPITOLO I
ASPETTANDO L’ALBA DI UN NUOVO GIORNO
Guardo fuori… oggi il cielo non sorride, è grigio e piange lacrime di pioggia.
Un turbinio di foglie al vento disegna strani oggetti nell’aria fredda, che mi carezza il volto, mentre immagini lontane sono proiettate sul bianco schermo degli occhi del mio cuore…
Così, vedo me bambina, mentre attraverso la strada per andare a comprare le tanto desiderate Nazionali Esportazione
al mio nonnino Angelo che, con attenzione, segue i miei passi dalla finestra, seduto a cavalcioni sulla sedia, in vimini, girata. Sempre impeccabile con la sua giacca e cravatta, cappello e inconfondibile profumo.
Nonna Carmelina è sicuramente in cucina, a preparare qualche gustoso manicaretto per il pranzo.
Ricordo, con gioia, quando mi raccontava di Mazza Mauriello
, mitico personaggio del paese.
Chissà cosa mi avrà portato in dono oggi?
Sì. Il nano dall’enorme cuore, che nascondeva nel suo profondo cappello dolcetti e giochi per i bimbi buoni. Di notte saltava di tetto in tetto e, da qualche botola sul soffitto, lanciava coriandoli di doni preziosi per noi bambini, che aspettavamo a bocca aperta, ogni volta appagati nelle nostre aspettative più bizzarre.
Che teneri ricordi di un’infanzia felice, trascorsa in campagna, tra galline, oche, conigli, maialini e tutto l’amore possibile.
Eppure, c’è sempre nella vita, come per uno strano scherzo del destino, un rovescio della medaglia:
da qualche parte nel mondo una giovane donna non dormiva sonni tranquilli, in balia del suo continuo pensare alla figlioletta in fasce… abbandonata?
No, mai! Piuttosto affidata, in una difficile scelta, alle cure amorevoli dei nonni.
Eh, sì! Solo con la nascita della mia terza figlia si è rigenerata in me una vecchia, falsa convinzione: quella di essere stata non desiderata
; mirabilmente trasformatasi nella giovane, reale consapevolezza di essere stata, invece, un dono gelosamente custodito
.
Che tempesta d’emozioni, sentimenti controversi, per poi giungere alla quiete della compassione, entrando nella sofferenza dell’altro, per guarire le ferite, divenute feritoie… per comprendere.
Un momento, un momento, procediamo lentamente, non si racconta in un battito d’ali una vita intera, la si scansiona attimo, per attimo, assaporando la bontà delle leggi del nostro vecchio, seppur giovane, cuore bambino.
Tra il frastuono dei piatti in preparazione per il pranzo, alle 12.00 circa, nella Frau Clinica di Zurigo in Svizzera, nasce il 25 Luglio del 1974 l’unica bimba del reparto.
Il suo nome Nadia era già stato deciso quando, ancora nel grembo materno, l’immaginazione della madre era stata rapita da un’attrice, nel pieno della sua interpretazione, in un film al cinematografo.
Nei sogni del padre c’era, invece, quello di perpetuare il quasi estinto cognome dell’antica stirpe greca, con la nascita di un bel maschietto.
Potete immaginare la delusione bruciante, a tal punto da intorpidire la mente, difronte la schiaffeggiante realtà.
Così, quando la sua compagna gli chiese, in frettoloso gergo dialettale, di procurarle delle pantofole
, lo sventurato, che non aveva ancora ben chiaro l’intero dizionario italiano, capì che, per nascondere il malcontento, doveva mettercela proprio tutta per trovare un pandoro
in piena estate.
Dopo aver vagato tutto il giorno, per tutta Zurigo, esibì soddisfatto il suo trofeo che, in tutta sorpresa, gli fu fulmineamente scagliato addosso!
Cominciarono proprio così le incomprensioni, figlie di muti sentimenti male interpretati, tra i miei genitori.
Dato che le cose non procedevano affatto bene, da diversi punti di vista, fui spedita, pacco postale, in tenera età, nella provincia di Benevento, affidata alle cure amorevoli dei miei nonni materni, in attesa che le cose prendessero una piega diversa.
Intanto la bimba cresceva in vivacità, allegria, spensieratezza… tra una corsa e l’altra a piedi nudi; un’arrampicata tra i rami degli alberi; una discesa rapida dalla scalinata, che divideva le camere da letto dalla zona giorno della grande casa rurale, dove viveva felice tra mille affetti, coccolata e vezzeggiata come una principessina!
Nulla nell’atmosfera lasciava presagire l’uragano di sentimenti controversi che si sarebbe scatenato nella piccola, quando, sul finire degli anni Settanta, i suoi genitori presero la decisione di ritornare in Italia, destinazione Benevento.
«Mamma Carmelina, papà Angelo, chi sono questi signori?».
Potete immaginare lo sgomento dei presenti, in dovere di spiegare alla bambina tutta la verità.
«No! Non ci voglio andare con loro! Voglio restare qui».
Fu così che, tra lacrime ribelli, la principessina fu trascinata via dal suo amato regno.
Il risveglio nella nuova casa in città non fu affatto facile…
Dov’erano finiti: il dolce canto degli uccellini; i riflessi di luce dorati tra i rami degli alberi, che si scorgevano dalla finestra socchiusa; il profumo della fresca aria mattutina; gli angioletti che decoravano il soffitto?
Niente era più come prima!
«Devo metterle proprio queste scarpette lucide e i calzini col merletto?».
«Sì. Anzi, faremo crescere anche questi capelli, sono così belli, è un peccato tenerli corti. Ti hanno tirata su proprio come un maschiaccio, ma tu sei la mia bambina!».
Tu sei la mia bambina. Quelle parole mi suonavano talmente strane da farmi venire il mal di pancia. Solo con le conoscenze di ora, comprendo si trattava di sintomi psicosomatici: io, abituata a essere libera, mi ritrovavo chiusa in una gabbia dorata.
«Ciao, io sono tua sorella Irene. Se vuoi, giochiamo insieme con le mie bambole».
Ecco, mi pareva, le sue bambole! Mentre la osservavo, mi stupivo difronte alla monotonia di un gioco, per me insulso. Con maniacale cura, prendeva da qualche ripiano di un alto scaffale una bambola, la guardava incantata, le sistemava i capelli, il vestitino, la cullava un po’ tra le braccia e via, di nuovo al suo posto, sempre così. Quello era forse giocare?
A tratti, un po’, provavo pena per quella bimba, lustrata a puntino, che non conosceva, a mio parere il gusto del puro divertimento, quello stesso che avevo sperimentato ogni giorno, in compagnia dei miei piccoli amici avventurieri, a vivo contatto con la natura.
Così, un giorno decisi di fare qualcosa per lei…
Approfittai della sua assenza e della distrazione della mia nuova mamma, per dare un tocco d’allegria a quello scaffale inanimato. Presi a una a una tutte le sue bambole e, con tanto di forbici e smalto per unghie, diedi vita ad acconciature per me stratosferiche!
Quando ebbi finito il mio capolavoro, ero impaziente di mostrarlo ma, all’impazienza subentrò il panico, quando constatai che, quello che avevo fatto, non era stato per nulla gradito da colei alla quale volevo solo fare un favore.
«Aiuto, mamma aiuto! Quella piccola peste ha rovinato tutte le mie bambole!».
Deve essere iniziata proprio così a ribollire una mistura di disperata vendetta nel cuoricino di mia sorella Irene. In effetti sono più d’una le cicatrici sul mio corpo, che portano la sua firma; niente di personale, intendiamoci, ma tutto accaduto accidentalmente, fuori dalla portata della progettazione inconsciamente volontaria.
Come se non bastasse, un bel dì non lontano, iniziò per me anche la scuola.
Ero una bambina dall’intelligenza vivace, curiosa e desiderosa d’apprendere, ma lo stare ferma e zitta, seduta in un banco per così tante ore, proprio non andava a braccetto con la mia indole ribelle.
Anche se la mia vitalità andava spegnendosi, non avevo certo dimenticato le mie origini e, a ogni fine settimana, preparavo la mia busta bianca con tanto di pigiama, spazzolino, cambio, orsacchiotto di peluche e piangevo davanti alla porta di casa, finché non mi accompagnavano in campagna, dai miei amatissimi nonni.
Così, quelle boccate d’aria, mi consentivano di sopravvivere per l’intera settimana.
Nella nuova casa ero, infatti, un pesciolino fuor d’acqua…
L’appartamento era situato in un palazzo di sei piani, gemello a uno adiacente, sicché si poteva quasi stringere la mano al dirimpettaio!
L’ingressino buio; l’anticamera al soggiorno e alla cucina; poi il lungo corridoio, con le stanze a destra e a sinistra; il bagno in fondo, sempre chiuso; tutto mi ricordava tanto la struttura di un ospedale freddo, austero, sterile e io, davvero, sognavo un giorno di guarire, per ritornare a casa, la mia vera casa.
Col passare del tempo, però, cominciai ad avvertire il bisogno di far parte
ed essere amata
anche dalla mia nuova famiglia. Era in arrivo una nuova sorellina! Giuliana, questo il nome che le fu dato, aveva scambiato il giorno per la notte; così, mentre dormiva tutto il dì, io, mamma e mia sorella maggiore ci davamo il cambio per trastullarla durante le lunghe ore notturne, per consentire a nostro padre di riposare, prima di tornare al suo impegnativo lavoro.
Quello sì che era accattivante!
Ricordo che passavo le ore a osservare colui che faticavo ancora a riconoscere come mio padre, mentre nella piccola bottega sotto casa, riparava scarpe.
Lo chiamano tutti Giorgio, perché il suo nome greco è difficile da pronunciare.
È stimato e rispettato e, a mio parere, non solo perché è un brav’uomo, ma anche perché sapeva fare del suo mestiere una vera e propria arte, eseguita con passione.
Meravigliata, lo guardavo, nei momenti di pausa, creare da brandelli di pelle singolari portachiavi, pratici portafogli; il tutto senza mai trascurare la puntualità nelle consegne.
Chissà perché, a volte, i bambini sanno divenire dei veri e propri pappagalli, ripetendo ignari frasi sentite dagli adulti. Così, mi additavano come la figlia del calzolaio
, quasi in senso dispregiativo, a scuola e nel quartiere dove abitavamo.
Lungi dal sentirmi offesa, ne ero inorgoglita, anche perché sempre più affascinata da quel mestiere, al punto